Donatello Aspromonte: le Start-Up italiane e il ruolo del Mentor

Dopo aver analizzato con Roberto Saliola la crescita economica di Roma e del Lazio nel primo trimestre di quest’anno, allarghiamo i nostri orizzonti, occupandoci del variegato e vivace mondo delle Start-Up italiane e soffermandoci, in particolare, sui dati statistici relativi a questa prima parte del 2019 e sulle criticità di queste realtà.

A guidarci in questo interessante viaggio sarà Donatello Aspromonte, esperto di tematiche finanziarie, Mentor di Start-Up innovative e vicepresidente di Manageritalia Executive Professional, il quale ha risposto alle nostre domande sul ruolo del Mentor come figura istituzionale e di supporto ai giovani imprenditori, aiutandoci ad analizzare correttamente i dati che vedono questo settore in crescita, tenendo, però, conto dei fattori di reale innovatività dei progetti, con riferimento ai concetti di scalabilità e replicabilità di questi.

Non sempre, infatti, i numeri in crescita indicano la reale capacità del Paese di favorire la nascita di Start-Up innovative, ed è proprio qui che il supporto del Mentor svolge un ruolo fondamentale affinchè i tanti e validi progetti appena nati superino positivamente le fasi iniziali di ingresso nel mercato, concretizzando la creazione di prodotti e posti di lavoro.

Come si distingue, dunque, una realtà davvero “start-up friendly”, da una non ancora matura? E come ovviare a tutte le difficoltà, valorizzando i progetti originali e validi dei tanti giovani che si avviano verso questi percorsi? A questo e molti altri interrogativi ha risposto per noi Donatello Aspromonte, delineando linee guida utili a tutti gli addetti ai lavori e non, illustrandoci, tra l’altro, un interessante progetto realizzato da Manageritalia in concerto con le Università italiane, per far sì che, già negli anni della formazione, gli studenti, aspiranti startupper, siano informati e aggiornati in merito.

Qual è la situazione delle Start-Up a Roma e nel Lazio durante il primo trimestre 2019?

Se parliamo di dati statistici, la situazione è questa: le start-up innovative iscritte nel registro delle imprese 30 giugno 2019 sono 10.426, in aumento di 351 unità rispetto a fine marzo e di circa 500 unità rispetto al 2018. Circa il 25% del totale delle start up innovative è ubicato in Lombardia, mentre il Lazio si colloca in seconda posizione, con una percentuale dell’11%.

La situazione quindi è positiva?

Non proprio: ritengo che una lettura poco attenta dei dati statistici possa portare a conclusioni fuorvianti.

Cosa intende?

Intendo dire questo: nel contesto internazionale la definizione di start-up porta con sé due concetti fondamentali, ossia la scalabilità e la replicabilità. Una start-up, per definirsi tale deve avere un progetto di innovazione caratterizzato da una crescita potenzialmente rapida, innestato in un business model che sia facilmente scalabile e replicabile. Se manca uno di questi requisiti non c’è una start-up, ma semplicemente un nuovo progetto di impresa.

E in Italia?

In Italia, invece non è così: da un punto di vista normativo, per essere una start-up innovativa occorre rispettare una serie di requisiti formali, ad esempio quello di inserire nel proprio oggetto sociale le attività di sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti e servizi ad alto valore tecnologico o di assumere personale laureato o con dottorato di ricerca. Per cui esistono dei progetti di impresa che, pur non essendo né scalabili né replicabili, vengono considerati a tutti gli effetti delle start-up, semplicemente perché rispettano requisiti burocratici e normativi.

Quindi il fatto che il numero di start-up innovative cresca non è un indicatore valido della capacità del Paese di favorire la nascita di start-up innovative, giusto?

Esatto. Il fatto che il numero di start-up innovative – nell’accezione normativa italiana – cresca, non comporta necessariamente che l’Italia sia un Paese “start-up friendly” ossia un Paese che favorisca la nascita delle start-up; e difatti non lo è, anche analizzando le utile classifiche dei Paesi dove è più facile creare una start-up, che colloca l’Italia alla 27° posizione, in una classifica nella quale nei primi 10 posti troviamo i soliti noti (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada Germania, Olanda). È un dato di fatto che molte start-up create da giovani italiani siano state costituite ad Amsterdam o a Londra. C’è poi anche un discorso legato alla dimensione economica ed organizzativa delle start-up italiane: su oltre 10.000 start-up innovative iscritte, meno della metà hanno dipendenti e il valore medio dei dipendenti non supera le 4 unità, mentre il valore della produzione medio è di circa 150.000 euro; bastano questi dati per fotografare la dimensione del fenomeno nel nostro Paese, molto lontano dai numeri delle start-up di altri Paesi.

Quali sono le altre problematiche che le start-up italiane incontrano?

Sono diversi, ma quelli secondo me più importanti sono due. Il primo problema è legato alla mancanza di competenze manageriali da parte degli startupper. Sempre più spesso, infatti, i giovani hanno idee veramente brillanti ma non hanno le esperienze necessarie per “metterle a terra”, per sviluppare percorsi progettuali di esplorazione delle potenzialità di mercato della propria idea ed è proprio la mancanza di un serio accompagnamento delle start-up nelle primissime fasi di vita a determinarne l’insuccesso. Purtroppo gli incubatori-acceleratori privati riescono a soddisfare poche richieste di assistenza e preferiscono puntare su start-up con una certa storicità, mentre quelli di derivazione pubblica – soprattutto a carattere regionale – a cui viene demandata la fase di pre-seed, mostrano i segni del tempo, intrappolati in procedure burocratiche e amministrative eccessive.

E il secondo problema?

Il secondo problema è legato alla difficoltà che le start-up riscontrano nel reperire equity, ossia capitale di rischio. Purtroppo il sistema del venture capital italiano non è ancora sviluppato; consideri che, in base ai dati del secondo trimestre 2019, la Gran Bretagna ha messo a segno investimenti di venture capital per 3,2 miliardi, con circa 234 round di finanziamento, mentre la Francia ha raccolto investimenti per 1,4 miliardi con 131 round, seguita dalla Germania (1,3 miliardi di investimenti e 119 round) e dalla Svezia (1,3 miliardi 3 e 58 round). L’Italia è dodicesima con investimenti pari a 100 milioni con 26 round piazzati. Il raffronto tra i diversi Paesi mostra l’arretratezza del nostro Paese su questi temi. A questo si aggiunge anche che le organizzazioni di business angeling ancora non raggiungono le dimensioni di quelle presenti in altri paesi europei. E questo penalizza gli startupper italiani, che si vedono costretti a spostarsi in altri paesi dove la raccolta dei capitali risulta essere alla portata.

E gli incentivi pubblici riescono a sortire qualche effetto?

Esistono diverse misure agevolative e strutture a supporto dell’innovazione: solo per citarne qualcuna, penso alla misura Smart&Start di Invitalia o all’operatività di Invitalia Ventures, alle agevolazioni fiscali per chi investe in start-up innovative o al fondo nazionale innovazione del MISE fino ai voucher per l’innovation manager. Tutte misure utili, ma il problema è un altro.

Quale?

Occorre una visione unica, un’unica cabina di regia, in grado di coordinare gli sforzi di tutti gli attori coinvolti, sia pubblici che privati. Occorre fare squadra, per creare il giusto ambiente in grado di favorire la nascita e la crescita di nuove imprese. Per questo ritengo che l’idea di costituire un Ministero dell’Innovazione, in grado di coordinare l’operato dei soggetti che operano con e per le start-up, possa essere utilissimo, a patto di non replicare i fallimentari tentativi del passato recente.

In un contesto come questo, qual è il ruolo del Mentor?

La presenza di un bravo mentor, soprattutto nelle fasi iniziali del percorso imprenditoriale è fondamentale. Talvolta il problema è che gli startupper sono troppo innamorati della loro idea iniziale, talmente presi che tendono a rigettare qualunque proposta di cambiamento. Avere una buona idea è sicuramente una pre-condizione fondamentale per creare una start-up di successo, ma potrebbe non bastare.

In cosa consiste il suo lavoro di mentorship?

È un percorso articolato, ma semplificabile nel modo seguente: guidare lo startupper a porsi le domande giuste, supportandolo nella definizione e nella validazione di un business model efficacie, oltre che nella definizione di un piano finanziario sostenibile e alla ricerca di fonti di finanziamento adeguate.

Parliamo del progetto che state lanciando nelle Università italiane.

Per scovare le innovazioni abbiamo deciso di andare lì dove è più probabile trovarle, ossia nelle università. Abbiamo creato un format progettuale – denominato Hackathon UniversItalia – che è un progetto in partnership tra ManagerItalia Lazio Abruzzo Molise Sardegna Umbria e le principali università italiane. A partire da Settembre 2019 e per tutto il 2020, in maniera itinerante, organizzeremo delle full-immersion di tre giorni, delle vere e proprie “maratone dell’innovazione”, con una partecipazione ampia e trasversale di studenti, makers, imprenditori, professionisti, docenti universitari, etc: una sorta di community locale per l’innovazione, composta da persone che si mettono in gioco per individuare soluzioni disruptive su tematiche ed ambiti specifici. Abbiamo iniziato il 16 Settembre con la presentazione del progetto presso l’Università di Perugia, per poi continuare nelle sedi delle altre Università partner sparse su tutto il territorio nazionale.

A cura di Maria Tringali

Michela Tamai: storia di una Food Technologist Blogger

Quando intervistiamo una persona, la prima cosa che guardiamo sono i lineamenti del volto e gli occhi. Involontariamente, ci fanno capire tante cose, prima tra tutte se quello di cui stiamo parlando è un grande progetto e quanto è profondamente loro. Sarà scontato ma è una verità incontrovertibile.

Michela Tamai, una donna che da subito trasmette l’impressione di essere “una tutta di un pezzo”, nonostante il suo modo di parlare pacato e rilassato, si è illuminata immediatamente non appena  abbiamo iniziato a parlare del suo fantastico progetto che trovate all’indirizzo  foodmadewith.com.

Che cos’è foodmadewith.com?

Il nome del blog è già di per sé molto intuitivo. Si tratta di un blog sulla tecnologia alimentare. 

Foodmadewith è una piattaforma di facile consultazione che, nella sua semplicità, pone al servizio di tutti coloro che lo leggono tematiche tecnico-scientifiche riguardanti il mondo del cibo” ci ha spiegato Michela, aggiungendo che sul suo blog “Si può leggere di prodotti e innovazione, processo produttivo e tecnologia, qualità e nutrizione”.

In un’epoca come la nostra, dove vanno di moda ricette, chef e pagine dedicate ai diversi modi di fare cucina, questo blog ci ha colpito per il suo altissimo contenuto scientifico, in pieno stile Sistema Generale.

“In  foodmadewith.com non troverete ricette o consigli per rendere migliore la vostra pietanza, ma che voi siate responsabili ricerca e sviluppo e qualità in azienda, titolari di un’azienda alimentare o di un ristorante o semplici appassionati  che hanno voglia di sapere qualcosa di più del vastissimo mondo dello sviluppo e tecnologie di prodotti agro-alimentari, allora questa è la pagina giusta” ci ha detto Michela, descrivendo come il carattere divulgativo del progetto si coniuga alla precisione scientifica dei contenuti per i quali lei sta creando una bibliografia altamente qualificata e che, ovviamente, potete leggere sul blog.

Come e quando è nata l’idea di creare  Foodmadewith?

Abbiamo chiesto a Michela, come fosse nato questo progetto e la sua intervista è stata una meravigliosa chiacchierata intrisa di passione e competenza, della sua professionalità applicata alle tecnologie di oggi e alla sua voglia di far sapere al mondo della rete cose di cui si parla poco e spesso in modo molto scientifico.

Foodmadewith.com è nato esattamente così: durante gli ultimi anni del mio lavoro da Direttore R&D di una grande multinazionale del cibo, avevo accarezzato l’idea di creare questa piattaforma, cominciandola a plasmare solo quando ho deciso di dedicarmi alla libera professione come consulente R&D per l’industria agroalimentare. 

Del resto, lavorare per una grandissima azienda impegna molto lasciando poco spazio ad altri progetti e ho creato questa piattaforma, ritenendo che nel panorama informatico italiano mancasse un blog che seguisse le tematiche scientifiche alimentari in modo completo, trasversale ma anche accessibile e facilmente fruibile”.

E lei, che si definisce una Food Technologist Blogger, ha cercato di colmare questa mancanza, indirizzando il suo bagaglio professionale, le sue conoscenze, la sua curiosità, la passione e, non da ultimo, le ricerche che le venivano commissionate, per tenersi aggiornata e aggiornare il mondo. Senza improvvisazione.

Qual’è stato il percorso che ha portato Michela a diventare una  Food Technologist Blogger?

“Mi sono laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari all’Università di Udine a metà degli anni novanta, per più di venti anni ho rivestito ruoli di crescente responsabilità nell’ambito della Ricerca e Sviluppo di Unilever, diventando poi Direttore R&D Technical Management per Unilever Italia e successivamente Direttore R&D Deploy Gelati e Tè per l’Europa, esperta in product development project management, team management e change management” ci risponde ricreando la sua personale linea del tempo professionale.

E questa cosa ci ha incuriosito ancora di più, come fa una persona a passare da una multinazionale alla libera professione? Che cosa ha significato per Michela Tamai? 

La risposta che ci ha dato con il sorriso ci è piaciuta tantissimo, perché lo ha definito “L’altra parte del mondo”, raccontandoci poi, con estrema disinvoltura, le differenze del mondo aziendale da quello della libera professione, che non troverete scritte in nessun manuale.

“Non è vero che il mondo aziendale è tutto uguale. Misurarsi con la piccola azienda significa vivere i rapporti in modo più vicino, significa prendere delle decisioni e viverle rapidamente, operare con time-to-market strettissimi, senza mai perdere il focus territoriale e locale. Le multinazionali sono invece intrise di complessità organizzativa e stratificazioni a qualsiasi livello, che richiedono tempo e investimenti. Ma sono quelle che permettono al professionista la capacità di misurarsi e confrontarsi con l’internazionalizzazione, con persone, culture e modi di vivere differenti, materialmente e virtualmente. Le grandi aziende, soprattutto se leader in un determinato settore, offrono grande formazione, competenze e specializzazioni di altissimi livelli  che sarebbe impossibile trovare altrove”.

Quanto è differente il lavoro da libero professionista in questo ambiente?

“Essere un libero professionista significa prima di tutto immergersi nella capacità di essere flessibili, interfacciandosi, lavorando e facendo consulenza dal piccolo operatore al grandissimo, dietro casa o dall’altra parte del mondo, senza passaggi intermedi” sorride Michela.

“Ho scelto di condensare tutte le esperienze del mio passato e le ho trasformate nella base di partenza per l’altra parte del mondo, scegliendo di intraprendere la libera professione. All’inizio non è stato facile per chi come me era abituata a vivere la dimensione aziendale, ma con il tempo ho  capito com’era meglio incanalare le mie energie e prima ancora le conoscenze per colmare i gap e il progetto di Foodmadewith è diventato piano piano una realtà”.

Da dove sei partita?

“Dalla base, scegliendo con cura la struttura del blog e ho cominciato a completarlo, pezzetto dopo pezzetto, convincendomi che non fosse mai abbastanza perfetto per entrare nel mondo frenetico della rete” continua a raccontare Michela, dimostrandosi, come in effetti è, una perfezionista “Ma ad un certo punto ho capito che il blog era pronto per farsi conoscere e, attraverso le piattaforme social, è stato presentato alla rete. Prima Facebook, un po’ per vedere l’effetto che faceva, poi LinkedIn, così il mondo ha conosciuto Foodmadewith e viceversa ed è stato un successo” ammette divertita.

E quali sono i progetti per il futuro?

Michela è una Team Player, lo si vede da come parla, lo capiamo dalle cose che ci racconta, dai progetti che ha già programmato nel dettaglio. 

“Le collaborazioni” ci dice in modo immediato “Il lavoro in team è fondamentale, è la soluzione. Creare un network di esperti dove ognuno possa seguire i topic del blog facendolo trasudare di passione e competenza, completandolo e rendendolo una piattaforma innovativa per i temi trattati sull’onda del nuovo modo di fare business, permettendo alle persone di trovare ciò che serve, sfruttando anche tipologie di contenuti differenti che possano essere usate dai tecnici aziendali o, perché no, anche dagli insegnanti, creando un luogo virtuale dove formarsi o dove chiedere una consulenza”. 

Parlare con Michela Tamai ci è piaciuto davvero tanto. E’ la struttura aziendale di sé stessa, dalle competenze ai piani di sviluppo e investimento passando per il training e, per quanto tutto questo possa sembrare una sfida, lei ha la stoffa per vincerla.

Non vogliamo raccontarvi tutto di Foodmadewith appositamente, per lasciarvi il gusto di scoprirlo giorno per giorno, articolo per articolo, perciò vi invitiamo a leggere i suoi contenuti e divenirne followers, perché ne vale davvero la pena.

Poi chissà, magari tra qualche anno ricorderemo questa data come il giorno in cui anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo presentato al mondo una nuova stella della rete.

In bocca al lupo a Michela e in bocca al lupo a  Foodmadewith.

https://foodmadewith.com

Francesca Tesoro

Carlo Messina: spostare il focus dalla semplice competenza alla persona

Può la crescita personale incidere positivamente sulla crescita del contesto professionale? Questa è la mission di Inforgroup (www.inforgroup.eu), ente di formazione che da anni sviluppa attività di ricerca, selezione e orientamento, nell’ambito della formazione e dei servizi al lavoro: integrare e adeguare il potenziale delle risorse umane e professionali ai cambiamenti, con l’obiettivo di focalizzarsi sul capitale umano per valorizzare il potenziale organizzativo dell’impresa.

La poliedricità, il coraggio e l’innovazione sono le caratteristiche principali di ogni buon progetto, secondo il Direttore Commerciale di Inforgroup, Carlo Messina: agire in contesti simili con approcci differenti creando nuovi stimoli, non avere paura di cambiare, puntare sempre al futuro, indipendentemente dall’appartenenza generazionale.

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La sua esperienza nel campo della formazione e dello sviluppo del personale, mirato al benessere in qualunque contesto lavorativo, inizia nel Consorzio Elis e si concretizza, oggi, nel Gruppo De Pasquale. Tracciamo un bilancio di queste esperienze e di questo percorso di crescita aziendale, tra difficoltà e obiettivi raggiunti.

L’esperienza nel Consorzio Elis è stata fondamentale: non solo mi ha permesso di incontrare grandi aziende multinazionali con cui sperimentare progetti complessi e di alta qualità ma, non occupandosi esclusivamente del business ma anche di persone nella loro complessità e di contesti sociali ampi, mi ha spinto a lavorare in questo campo mediante un approccio sistemico.
Da un punto di vista professionale, Elis è stata una palestra dove gli ostacoli si sono rivelati importanti opportunità di apprendimento per l’azienda, oltre che di fiducia fra capi e dipendenti: per esempio, in un momento di difficoltà come quello di un change management interno all’azienda, ho introdotto importanti novità, ho condotto progetti innovativi (Talent Accademy), ho maturato la consapevolezza che non bisogna mai mollare e concentrarsi sempre sugli aspetti positivi.

Un bambino che vuole guardare una videocassetta sarà sempre più attratto da un film già visto, piuttosto che da uno nuovo, perché questo è comodo e rassicurante. Guardare il nuovo film assieme a lui significa dargli la sicurezza e la capacità di farlo anche da solo in futuro: questo è ciò che considero un modo costruttivo di affrontare il cambiamento.

Quando ho sentito che il mio percorso in Elis era concluso, ho lasciato l’azienda e ho iniziato una nuova avventura al “Campus Bio-Medico” di Roma dove, grazie alla preziosa figura del Consigliere dell’Università Lucio Fumagalli, ho sviluppato maggiori competenze in campo manageriale. I suoi aspetti fondamentali? Visione d’insieme, disciplina e ordine.

Alla fine sono arrivato nel Gruppo De Pasquale dove ho visto l’opportunità di realizzare un progetto completo nei servizi al lavoro, ovvero poter fornire formazione alle persone in ogni momento del proprio percorso: coloro che si avvicinano al mondo del lavoro, coloro che devono aggiornare le competenze e coloro che hanno bisogno di una riqualificazione delle competenze quando fuoriescono dal mondo del lavoro.

Una cosa importante è che nelle mie realtà lavorative ho sempre utilizzato approcci diversi per fornire all’azienda stimoli nuovi: per esempio le Talent Elis, che ho contribuito a creare, sono diverse dal resto dell’offerta formativa in quanto spostano l’attenzione dalla competenza alla persona. È essenziale che le persone capiscano perché devono lavorare in un certo modo piuttosto che in un altro.

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Per quel che concerne l’innovazione strategica del Management, ha approfondito particolarmente le questioni inerenti l’interaging, vedendo nell’integrazione tra diverse età nei contesti lavorativi una vera e propria risorsa e non un limite. Come si conciliano le differenze generazionali in azienda e come si possono ricollocare le varie risorse senza rinunciare alla dignità e al valore dei vari profili umani e professionali?

Un principio intoccabile è che le persone vanno ricollocate senza ferirle perché, in caso contrario, non ci sarà mai equilibrio generazionale.
Un conto è infatti se un dipendente decide di sua volontà di uscire dall’ambito della produzione per fare coaching, ben altra situazione è se si trova costretto da circostanze esterne: in questo caso difficilmente verrà fuori un buon lavoro.
L’interaging è dunque fondamentale. Se non sono presenti tutte le generazioni, si corrono due rischi: perdere freschezza e innovazione da una parte, perdere razionalità ed esperienza nel modellare l’innovazione dall’altra. L’interaging funziona se si riescono a contenere la frenesia, tipica della “cultura della performance” dei più giovani, e le paure dei più maturi. Entrambi devono essere aperti, pronti all’apprendimento e guardare al domani.
Per i più adulti, un consiglio molto utile: prendete in mano il vostro cv, cambiatelo e identificate nuove idee per il futuro.

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Crescere, semplificare, velocizzare: tre concetti fondamentali per il benessere e lo sviluppo aziendale in ogni settore. Cosa ha significato per lei applicare un approccio sistemico nell’ambito dei suoi progetti aziendali?

Crescere: è il tentativo di conciliare gli obiettivi di crescita personale con quelli aziendali. Se non si ha volontà di crescere personalmente, l’azienda non cresce.

Semplificare: snellire la comunicazione e l’organizzazione. Mi piace molto il concetto di delega, di lavoro in gruppo con ruoli ben definiti e di crescita della fiducia personale. Per fare un esempio, fornire supporto al commerciale nel raggiungimento della quota annuale, lavorando gradualmente sulla sua autostima piuttosto che valutando a posteriori una sua prestazione, consente di prevenire problematiche e complicazioni future.

Velocizzare: le idee non servono a nulla se non si concretizzano entro un certo tempo.

Che suggerimento darebbe a chi volesse seguire le sue orme in un momento di transizione così complesso e delicato per le realtà aziendali del nostro Paese e del Mondo intero?

Poniti degli obiettivi con scadenze precise ed esci dalla zona di comfort. Entra in un’azienda guidata da un capo che trasmetta fiducia, che stimoli le persone a crescere e che sia molto esigente. Le persone che nella mia personale esperienza sono cresciute di più sono quelle che ho messo a dura prova.
Punta sui progetti, non sul posto di lavoro. Infine, quando ti rendi conto che un progetto si è concluso, lascia l’azienda. Non sentirti mai padrone di quello che fai, sentiti sempre di passaggio.

A cosa sta lavorando attualmente? Ci racconti quali sono i suoi progetti per il futuro.

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Uno dei progetti che al momento sto portando avanti è il progetto Industry 4.0. Penso sia una grande opportunità per il sistema Paese perché siamo di fronte ad una rivoluzione industriale, la quale cambia i paradigmi imprenditoriali che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli. Questo può riportare la produzione nel nostro Paese innalzando ulteriormente la qualità di quanto prodotto.
Ciò significa dover ripensare le organizzazioni e i mestieri e incentivare modelli di servant leadership che stimolino le persone ad assumersi le responsabilità e a decidere nel momento opportuno cosa fare e, fattore imprescindibile, fare in modo che ogni persona possa sentirsi un attore importante della catena del valore alla quale si contribuisce.

www.inforgroup.eu

 

Giorgia Less

 

 

 

 

Mauro Ballabeni: “Olivettiani. Un luogo d’incontro”

Orgoglio, passione e dedizione sono i valori che uniscono coloro che hanno avuto la fortuna di partecipare, più o meno attivamente, alla vicenda di Adriano Olivetti.
Il desiderio di ritrovarsi condividere ricordi, qualità ed esperienze ha portato alla nascita del progetto “Olivettiani” che attualmente conta più di un migliaio di adesioni.
Mauro Ballabeni, tra i promotori del comitato organizzatore del progetto, ci racconta, con il contributo di altri “olivettiani”, questa piacevole realtà e alcuni elementi distintivi del piano di lavoro di Adriano Olivetti, arricchiti dalla passione e dalla nostalgia di chi li ha vissuti in prima persona.

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Come nasce il progetto “Olivettiani” e qual è il suo scopo?

 

Nasce dall’incontro di alcuni amici nel 2008, centenario della “fabbrica” di Camillo Olivetti, e dal desiderio di costoro di riunire vecchi colleghi per passare insieme un momento conviviale, per ricordare, per commentare, per ritrovare una nostalgia, per verificare che la vicinanza professionale di alcuni anni fa non solo non è stata dimenticata, ma ha dato vita a una profonda amicizia. Da allora tutti gli anni una nutrita rappresentanza degli iscritti al gruppo “Olivettiani” si ritrova per un momento conviviale, mentre tutti ricevono una newsletter con informazioni e notizie su colleghi e situazioni che si ritiene di interesse comune e rimangono in contatto attraverso il sito, con incontri concordati in varie parti del mondo.

 

Chi sono le persone che fanno parte di questa community?

 

Gente che ha lavorato alla Olivetti, non importa in quale settore (tecnico, progettuale, commerciale, amministrativo). Non importa neppure dove ciascuno abbia lavorato e non importa se non tutti ci riconosciamo, ma sappiamo, quando ci incontriamo, che abbiamo la stessa origine, crediamo in alcuni valori comuni, ci raccontiamo la nostra vita come se fossimo ancora in attività.

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Quali sono le caratteristiche dell’iniziativa “Olivettiani in Business”?

 

“Olivettiani in business” è stato un tentativo di aiutare e collaborare con i colleghi ancora in attività, in particolare di tipo imprenditoriale. Un tentativo di far circolare il loro nome, le loro proposte, i vantaggi che erano in grado di offrire ai vecchi colleghi e una verifica di cosa i vecchi colleghi stessi erano ancora in grado di fare per loro. Ma l’operazione, purtroppo, non ha avuto il successo che speravamo e ormai da qualche tempo è stata accantonata, almeno per il momento.

 

Cosa vi ha reso orgogliosi di aver partecipato alla vicenda olivettiana?

 

Questo punto richiederebbe una risposta lunga una vita! Sinteticamente si tratta di sentire di aver avuto il privilegio di aver lavorato in un ambiente intelligente, dove si poteva continuare a praticare l’intelligenza, come diceva Adriano Olivetti, e di avere collaborato con una azienda all’avanguardia sul piano tecnologico (il primo grande calcolatore elettronico a transistor, il primo personal computer, la prima macchina per scrivere elettronica al mondo sono nate sotto i nostri occhi). Ma anche aver collaborato con un’azienda che ha messo le prime biblioteche in fabbrica, ha organizzato le prime colonie per i figli dei dipendenti, che si mostrava attenta al rapporto con il territorio, costruiva le fabbriche affidando l’opera a grandi architetti con l’impegno che gli operai avessero tanta luce e magari la vista delle montagne, che chiamava le intelligenze a progettare immagini, relazioni, presentazioni, che curava il posto di lavoro dei dipendenti ovunque nel mondo. E ancora, avere lavorato nella prima vera azienda internazionale italiana, globale e dove la formazione a tutti i livelli era un impegno costante che prevedeva l’impiego non solo di tecnici istruttori, ma anche di personalità prestigiose (come le scuole create a Ivrea, Firenze, Haslemere e tutte le altre in giro per il mondo).

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Qual è il ricordo più bello di questa vostra esperienza?

 

I momenti iniziali di lavoro quando, dopo la scuola, si scopriva questo mondo interessante, intelligente e colto, dopo averlo conosciuto sulle riviste e nei libri di Comunità. Ma anche e forse soprattutto gli amici che tali sono stati e tali sono rimasti sempre.

 

In che modo la presenza della cultura e degli intellettuali vicini ad Adriano Olivetti ha influito sulla quotidianità lavorativa della Società?

 

Ha influito molto, perché ha contribuito a creare un ambiente che era unico, diverso dagli ambienti tipici delle industrie italiane dell’epoca. E perché ha costruito dei valori che hanno guidato sempre l’azienda anche dopo la morte di Adriano Olivetti, persino nella gestione di Carlo De Benedetti (dal 1978 in poi) caratterizzata da una forte connotazione gestionale e proiettata al conseguimento degli utili e alla rimunerazione del capitale come strumento per il finanziamento della impresa.

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Cosa rimane oggi del progetto di Adriano Olivetti?

 

Rimane un’esperienza ancora vivida: una storia, dei primati, dei valori, una cultura, la consapevolezza che ci sono strade alternative per fare impresa, per costruire economia e benessere. Anzi che il benessere di tutti i lavoratori non è in contrasto con la possibilità di successo dell’impresa e con la soddisfazione dei clienti.

 

Quali sono i progetti futuri di “Olivettiani. Un luogo di incontro”?

 

Il nostro obiettivo futuro è provare a pensare a come questo bagaglio di umanità, di esperienze, di bellezza, di professionalità può essere trasmesso, può essere consegnato, soprattutto ai giovani. In altri termini, come si può contribuire al futuro del paese mettendo a disposizione il proprio passato.

www.olivettiani.org

 

Cecilia Musulin

Roberto Saliola: Storia e Progetti di Manageritalia Roma

In seguito all’elezione del nuovo Consiglio Direttivo di Manageritalia Roma, avvenuta lo scorso 8 maggio, l’Associazione sta continuando a promuovere e a sostenere tutti i progetti e le iniziative previste dalle linee programmatiche approvate dal Consiglio, grazie all’impegno del Presidente Roberto Saliola. Da sempre punto di riferimento irrinunciabile a livello nazionale per la rappresentanza degli interessi collettivi, sociali, istituzionali, culturali, professionali e per l’assistenza attiva al management nostrano, tra le varie sezioni territoriali, Manageritalia Roma spicca per la profondità degli eventi proposti e per la dedizione e la completezza dei servizi di consulenza offerti agli iscritti, a beneficio delle loro professioni e delle loro famiglie. È lo stesso Roberto Saliola a raccontarci quali sono i programmi che il Consiglio Direttivo di Manageritalia Roma si impegnerà a favorire nei prossimi mesi.

Tutte le iniziative di Manageritalia ruotano attorno alla figura del Manager: come si configura il suo nuovo ruolo e quali sono gli obiettivi da perseguire per i Manager di oggi e di domani?

 

Il Manager deve agire sempre più tenendo un comportamento etico dichiarato e riconoscibile. Il nostro impegno sarà, quindi, indirizzato a creare quei presupposti atti a promuovere tutte le condizioni che possano sostenere e favorire l’identificazione del Manager:

  • come motore dell’innovazione e come punto di contatto tra piccole e medie imprese e centri dove si realizza l’innovazione, assicurando un proficuo transfer di competenze, esperienze e soft skills;
  • come strumento di sviluppo della società civile, donando agli altri parte di quello che la società ha concesso a lui;
  • come facilitatore nei processi della creazione d’impresa, portando la propria esperienza d’azienda, o agendo come venture capitalist, ad esempio realizzando una start up o investendo in essa, o realizzando spin off.

Il Manager dovrà essere in grado di trasmettere la logica della misurabilità del proprio operato, contaminando la managerialità pubblica con la cultura del risultato e dell’effetto che tale operato provoca.

Come si misura e come si comunica all’esterno il valore del lavoro di un Manager?

 

Manageritalia mira a promuovere un doveroso presupposto di eticità dell’operato del Manager, di misurabilità dello stesso e di impegno per la collettività. Questi sono gli elementi che contribuiranno a modificare e innovare l’immagine reale del dirigente, dipendente di elevata professionalità e responsabilità e non personaggio pubblico ospite delle pagine di gossip, ed esponente di una categoria professionale che non è la nostra.

La comunicazione corretta del “mestiere” di Manager, della nostra figura e dei nostri compiti potrà essere quell’elemento necessario per tentare di erodere il muro di diffidenza che ancora separa piccole e medie imprese e manager.

Come si inserisce Manageritalia nel racconto del ruolo del Manager nel mondo del lavoro di oggi, tra crisi e tentativi di riforma?

 

Altro punto caratterizzante il nostro impegno programmatico è proprio quello di essere un soggetto in grado di comunicare efficacemente l’importanza della managerialità nelle aziende che nascono o si sviluppano con la guida di un Manager. Siamo convinti, e i numeri e lo storytelling ci confortano in tal senso, che la presenza manageriale nelle imprese rivesta un ruolo fondamentale sia in termini di aumento delle performance, della crescita e della maturità delle piccole e medie imprese, sia in termini di crescita e sostenibilità del sistema paese.

Tra gli obiettivi programmatici di Manageritalia Roma c’è una profonda analisi dello scollamento tra la realtà attuale di molti contesti lavorativi e i cambiamenti che il futuro richiederà per superare questa crisi che sembra non finire mai. Che considerazioni si possono fare in merito?

 

Altro tema sul quale il Consiglio ha deciso di essere attivo fa proprio riferimento alla lenta transizione verso la società della conoscenza. Si registra ancora una difficoltà a operare in una società in cui i modelli di produzione post fordiani continuano a influenzare ancora la modalità di rappresentanza sociale. C’è poca attenzione ai modelli sostenibili di futuro che risiedono nelle persone, nella loro creatività, nel loro benessere, invece che nelle macchine e nel determinismo. A questo si aggiunga un lento adeguamento al cambiamento negli stili di vita professionale e personale e una difficoltà nel fornire risposte alla nuova domanda di tutele e di welfare e workfare.

I modelli perdenti si concentrano sul ripiegamento delle aziende su se stesse in nome della perfetta efficienza della performance, facendo aumentare diseguaglianze di genere, registrando crescita in maniera non omogenea di ricchezza e povertà, di inclusione ed esclusione, protezione e insicurezza.

Le nuove tecnologie impongono cicli produttivi sempre più brevi e profonde innovazioni di prodotto, di processo e di filiera, nei quali è fondamentale il ruolo del Manager, quale elemento di cerniera e di fluidificazione tra innovazione e business, tra risultati e qualità del lavoro, tra proprietà e lavoratori.

Nel periodo di crisi che abbiamo vissuto e stiamo tuttora vivendo, nel quale i corpi intermedi sono messi in discussione come ruolo e come utilità sociale, il ruolo dei dirigenti in azienda ha di fatto rappresentato il vero corpo intermedio, operando come efficace elemento di comunicazione tra proprietà e dipendenti e di traduzione ed interpretazione tra obiettivi e sostenibilità degli stessi. Questa operazione di facilitazione, mediazione e controllo tra obiettivi aziendali e sostenibilità degli stessi è alla base, accanto al presidio e supporto che il CCNL rappresenta, della sostanziale tenuta dei nostri associati in questi tempi.

La capillarità della presenza di Manageritalia su tutto il territorio nazionale è uno dei punti di forza dell’Associazione che ne evidenzia l’approccio sistemico al mondo del lavoro. Che novità ci saranno in questo senso per agevolare la crescita e lo sviluppo?

 

Abbiamo deciso di essere più presenti nelle nostre regioni (Lazio, Umbria, Abruzzo, Molise e Sardegna), non investendo in presidi fisici, ma portando sul nostro territorio workshop e iniziative, anche in ciò supportati dal nostro centro di formazione, il CFMT. Riteniamo sia strategico, oltre che eticamente corretto, raggiungere gli associati con eventi nei territori di residenza.

Risulta, infatti, utile migliorare l’accreditamento e la legittimazione dell’Associazione, uscendo da una “dorata autoreferenzialità” e crescendo nelle comunità locali in termini di visibilità e autorevolezza.

Maria Tringali

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Gianluca Falletta: Storia del nuovo Luneur Park

luneur-parkLo scorso 27 ottobre è stato inaugurato il nuovo Luneur Park che ha visto rinascere il parco di divertimenti più antico d’Italia proprio negli stessi spazi che hanno accompagnato generazioni di bambini e adolescenti romani nel loro percorso di crescita, regalando loro ricordi indelebili anche oggi che sono ormai adulti.

A quasi dieci anni dalla chiusura, dovuta principalmente alla gestione poco lungimirante che aveva caratterizzato gli ultimi anni di attività del parco, uno dei maggiori poli di attrazione per i piccoli cittadini della Capitale torna a vivere sulle basi di un progetto totalmente innovativo che coniuga alla perfezione la tradizione degli storici Luna Park nati nel dopoguerra, con le nuove esigenze dei nativi digitali, troppo spesso assuefatti alla maestosità dei grandi parchi a tema.

Gianluca Falletta, Direttore Creativo e ideatore dell’intero progetto Luneur Park, ci spiega come è nata l’idea di riservare questo spazio d’importanza storica ai soli bambini da zero a dodici anni e alle esigenze delle loro famiglie, facendo sì che ogni genitore sia certo di lasciare il proprio figlio in un ambiente sicuro e protetto dove, oltre a giocare, si impara divertendosi, visto anche il fine didattico di alcune attrazioni. Come spiega lo stesso Gianluca Falletta, costruire dal nulla mondi che appartengono alla sola fantasia, è un progetto ambizioso, ma che può dare molte soddisfazioni, soprattutto quando si riescono a unire tradizione e innovazione, facendo dialogare generazioni di genitori e figli. Il mondo del divertimento, infatti, solo apparentemente privo di regole, è in realtà scandito da una serie di protocolli riguardanti principalmente la manutenzione e la sicurezza delle attrazioni e degli spettacoli, che devono rendere indimenticabile l’esperienza del pubblico all’interno del parco, agevolando anche il lavoro di tutto lo staff e garantendo il benessere aziendale: un vero e proprio esempio di approccio sistemico che compone un caleidoscopio di esigenze apparentemente incompatibili..

L’interessante innovazione che caratterizza il nuovo Luneur Park, oltre agli intenti didattici delle installazioni, è anche una fitta programmazione di eventi e iniziative di carattere stagionale che renderanno ugualmente memorabile ogni visita dei piccoli ospiti del parco e lo spazio ancor più dinamico e a misura di quartiere anche all’interno di una grande città.

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A quasi dieci anni dalla chiusura che ha spezzato il cuore di molti romani non più bambini, poche settimane fa è stato inaugurato il nuovo Luneur Park. Ci racconti come è nato questo progetto in equilibrio tra la tradizione del parco di divertimenti più antico d’Italia e l’innovazione necessaria ai nativi digitali: qual è la vostra formula magica?

 

Il Luneur Park è rinato per dare a Roma un nuovo spazio, totalmente rinnovato, sia nei contenuti, che nello stile, con l’obiettivo specifico di far divertire in maniera giocosa, ma anche didattica, i bambini da zero a dodici anni, offrendo servizi alle famiglie. Questa scelta è stata molto importante, anche rispetto al passato, poiché ci siamo resi conto che è proprio questa fetta di pubblico che, oltre ai bambini più piccoli, include anche dei giovani adulti, ad aver bisogno di ritrovarsi in uno spazio bello, ma soprattutto sicuro, dove poter trascorrere il tempo in modo spensierato. Sono proprio queste le basi del progetto che ha rivoluzionato la vecchia idea di Luneur che molti romani ricordano, trasformandolo in un luogo totalmente protetto, in cui i genitori possono entrare e lasciare serenamente la mano del proprio figlio, certi che si divertirà, imparerà cose nuove e non correrà alcun rischio.

La tradizione del parco è stata comunque rispettata, mantenendo inalterata la storicità del luogo, grazie alla conservazione di alcune attrazioni del passato che sono e restano nell’immaginario comune, come la Ruota panoramica, il Brucomela e la Casa degli orrori, anche per rievocare un piacevole ricordo nei bambini di qualche anno fa, che sono i genitori di adesso. L’innovazione, invece, è il nostro vero obiettivo e sta in tutto il resto che è totalmente ridisegnato e ripensato a misura dei bambini e delle famiglie di oggi: nuove generazioni che, ci auguriamo, costruiscano al Luneur Park dei nuovi ricordi che potranno portare con loro nell’età adulta, quando, a loro volta, saranno genitori. È un eterno ritorno, con un nuovo modo di approcciarsi al divertimento che contempla molteplici fattori.

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In cosa consiste il suo ruolo di Direttore Creativo all’interno del Luneur Park? Che suggerimenti darebbe a chi volesse seguire le sue orme anche in un momento di crisi economica come quello che stiamo vivendo? Ci racconti il suo percorso, tra difficoltà e obiettivi raggiunti.

 

Il mio è il lavoro più bello del mondo! Il ruolo di Direttore Creativo, infatti, scevro dai doveri burocratici, è semplicemente meraviglioso, perché consiste nell’ideare e poi realizzare qualcosa che faccia divertire gli altri, talvolta insegnandogli qualcosa di nuovo. Da quando ho iniziato ho avuto l’opportunità di lavorare in varie strutture dedicate al divertimento, anche all’estero, e ho creato attrazioni magnifiche prendendo semplicemente spunto dalla mia fantasia e dai miei sogni che ho potuto trasformare in realtà. Essendo nato a Roma, però, il Luneur è una struttura che ha un significato particolare per me, come per tutti i miei concittadini. Ci venivo con mio padre a quattro anni e ho tanti ricordi d’infanzia legati a questo posto, quindi ho sentito particolarmente forte il senso di responsabilità nel ridisegnarlo senza snaturarlo per come lo porto nel cuore. Non solo ogni attrazione, ma anche ogni singola mattonella del parco e persino ogni fiorellino è nato con immenso amore per questo spazio che doveva tornare a rivivere a beneficio di tutti.

Non esiste una ricetta per fare il mio lavoro. Personalmente sono stato molto fortunato a trovarmi sempre al posto giusto nel momento giusto e a cogliere, anche con un po’ di coraggio, le occasioni che mi si sono presentate. Come direbbe Walt Disney, se vogliamo realizzare i nostri sogni non dobbiamo far altro che perseguirli, ma ci vuole anche tanto impegno e sacrificio perché, di fatto, chi fa il mio lavoro non stacca mai e non ha orari. Non c’è un momento per creare e uno per riposare, è un mestiere totalizzante e solo una grande passione può far superare questi ostacoli, ma, come dico sempre, basta il sorriso di un solo bambino che guarda, con occhi sognanti qualcosa che io ho contribuito a creare, per cancellare tutta la fatica e le rinunce fatte.

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Crescere, semplificare, velocizzare: tre concetti fondamentali per il benessere e lo sviluppo in qualsiasi contesto lavorativo. Cosa significa applicare un approccio sistemico anche nel mondo del divertimento apparentemente privo di regole?

 

Applicare un approccio sistemico che generi benessere anche in questo tipo di realtà lavorative è importantissimo. Il mondo del divertimento, infatti, non è privo di regole, ma è soggetto a tante procedure che garantiscano la completa sicurezza del pubblico e degli addetti ai lavori. Sia in fase progettuale, sia in fase esecutiva, le regole sono fondamentali, poiché il nostro compito è offrire benessere, facendo dimenticare ai nostri ospiti la realtà che lasciano fuori dal parco, anche solo per poche ore. Tutto ciò si realizza solo grazie ai rigidi protocolli che gli addetti ai lavori seguono alla lettera, senza lasciar trasparire nulla al pubblico. Questi protocolli di gestione riguardano principalmente la manutenzione e la messa in sicurezza delle varie attrazioni, dalle più semplici alle più complesse, per cui ogni singolo dettaglio deve essere controllato prima della messa in esercizio. Tutto ciò viene ripetuto anche in fase di accoglienza o di gestione degli eventi e degli spettacoli e garantisce, oltre alla tranquillità del pubblico, il benessere dei lavoratori che sanno di far parte di un meccanismo che li tutela e li incoraggia. Dal progetto, alla realizzazione, dunque, si seguono meccanismi ben precisi che hanno tempi e costi predeterminati e gestiti a beneficio di tutti, anche dell’azienda che c’è dietro al parco.

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Ci racconti un episodio che le è rimasto particolarmente impresso durante la creazione e lo sviluppo del progetto relativo al nuovo Luneur e che le ha fatto comprendere che stavate percorrendo la strada giusta verso il successo.

 

L’episodio che ricordo con maggiore commozione è accaduto proprio poco prima della riapertura del nuovo Luneur Park. Prima dell’inaugurazione del 27 ottobre scorso abbiamo coinvolto tutti i bambini di Roma in un gioco decisamente originale, in tour per i centri commerciali della città, che consisteva nel creare delle girandole colorate che sarebbero state il lasciapassare dei piccoli ospiti per assistere all’apertura. In occasione dell’inaugurazione, infatti, è stato presente anche l’arbitro del Guinnes World Record che ha certificato il fatto che siamo riusciti a creare il prato di girandole più grande al mondo. Quando, durante la prima data del tour, in un noto centro commerciale di Roma, ho visto tutto il nostro cast artistico in costume, pronto ad accogliere i bambini assieme alle mascotte e, per la prima volta, è partita la nostra nuova selezione musicale, ho capito che questo progetto si stava davvero tramutando da sogno a realtà e ho pianto! Mi sono commosso, non lo nascondo, ed è stato un pianto di gioia, perché il nuovo Luneur era appena nato e per la prima volta dei bambini si stavano relazionando col mondo fantastico che per tanti mesi avevo progettato ed era rimasto solo nella mia testa. Vedere che tutto stava funzionando bene e che l’effettiva inaugurazione era ormai vicina mi ha dato un’emozione unica.

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A cosa state lavorando attualmente? Ci sveli quali sono i vostri progetti e le iniziative per il futuro.

 

Secondo il nostro progetto il Luneur è uno spazio in continua evoluzione che cambierà ogni momento, per rendere l’esperienza degli ospiti che torneranno a trovarci più di una volta sempre nuova, soprattutto a seconda delle stagioni. Adesso che il Natale è alle porte, ad esempio, è attivo il Villaggio di Babbo Natale e la pista di pattinaggio sul ghiaccio, ma, già in primavera, sono previste nuove attrazioni ed eventi che ci porteranno verso l’estate, in cui prevediamo anche giochi ad acqua sempre più dinamici e divertenti. Puntiamo a fare tanti eventi, con cadenza anche settimanale, in modo tale che, oltre alle grandi installazioni, i bambini e le loro famiglie trovino sempre qualcosa di nuovo da scoprire. Anche il palinsesto dedicato ai genitori sarà fittissimo di iniziative per ottimizzare il loro tempo in totale serenità e renderli tranquilli al pensiero che i loro figli sono seguiti in sicurezza e con grande passione. Un’ulteriore novità, sulla quale punteremo molto, riguarda una nuova installazione didattica che unisce il gioco e il divertimento alla voglia di imparare che, posso anticiparvi, riguarderà i rettili giganti, sia realmente esistenti, sia di fantasia e riserverà a tutti grandi sorprese!

Alessandra Rinaldi

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Maurizio Carta: Augmented City – un masterprogram per i tempi che cambiano

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La città: Smart o Augmented? Con una visione profondamente lucida, ed in un certo senso fortemente pionieristica, l’architetto e urbanista Maurizio Carta, Professore ordinario di urbanistica del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Palermo, ci invita a Re-immaginare l’urbanistica e, di conseguenza, a rileggere la città in quanto realtà “aumentata”, ovvero una città che adatta il proprio metabolismo a quello dei suoi abitanti piuttosto che una città tradizionale dotata di protesi tecnologiche.

Nella la sua proficua attività, densa di studi e pubblicazioni, tra cui citiamo “Reimagining Urbanism. Città creative, intelligenti ed ecologiche per i tempi che cambiano”, diventa imperativa la necessità di un nuovo approccio da adottare rispetto alla pianificazione ed alla rigenerazione di una città o di un territorio: un sistema in grado di ristabilire l’equilibrio fra le potenzialità, rilevare nuovi paradigmi, parametrizzarne i picchi di creatività presenti, utilizzare le criticità per ricostruire un programma funzionale e sistemico.

Emerge dunque un nuovo sistema in grado di leggere il mondo come organismo matabolico, ricettivo, sensibile e perturbabile e, come tale, veramente sondabile in profondità solo nell’ottica di un approccio strategico profondamente cosciente delle sue componenti. Una visione che mette in discussione i tradizionali strumenti di programmazione strategica, capaci di restituire un presente disattivo e “rasterizzato”, senza ponti con il futuro, e promuove invece un nuovo masterprogram, quale dispositivo in grado di implementare le porte di connessione fra il nostro mondo oggi e quello di domani.

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Architetto ed urbanista, ma con un approccio creativo, trasversale, emancipato dallo specialismo. Quali sono i passi che l’hanno portata ad adottare una visione più complessa del proprio ruolo?

Ho sempre creduto che l’urbanistica che voglia agire efficacemente nel dominio collettivo e produrre esiti sulla qualità della vita, sull’equilibrio delle libertà e sulla promozione della felicità delle comunità, debba essere in grado di interpretare le nuove domande sociali nel loro plurale dispiegarsi, per progettare e guidare una città delle identità e delle opportunità nell’alleanza tra le qualità territoriali e le idee e aspirazioni dei suoi abitanti. I valori etici della collettività diventano centrali per la pianificazione, non solo perché sono il luogo nel quale società e urbanistica si legano in modo più esplicito e forte, ma perché sempre di più sono strumenti della costruzione della città. Il diritto alla città di Lefebvriana memoria come impegno a “cambiare noi stessi cambiando l’aspetto delle nostre metropoli”, si traduce ogni giorno di più nella sfida compartecipativa e nella organizzazione dello spazio collettivo – non più solo pubblico – proponendo all’urbanistica nuovi obiettivi legati al mutamento di una società sempre più protagonista che voglia passare dall’attivismo alla cooperazione, dall’uso alla co-progettazione dei luoghi dell’abitare.
Oggi, nell’era della metamorfosi e nella transizione verso un nuovo modello urbano, nuove sfide attendono amministratori e urbanisti, attori e regolatori per opporre un efficace antidoto al rallentamento della capacità generativa e propulsiva delle città. Dopo due secoli caratterizzati dalla società industriale fordista – eccessivamente sbilanciata sulla fiducia nella ragione e sulle “magnifiche sorti e progressive” – dobbiamo entrare nell’età di un nuovo Antropocene, il quale non è solo caratterizzata dal primato della tecnologia dell’informazione e della comunicazione, sulla smartness urbana e sul cosiddetto “internet delle cose” in cui l’ambiente fisico che ci circonda è connesso on cloud, ma anche su una rinnovata e produttiva dimensione ecologica degli insediamenti e sui nuovi diritti di cittadinanza basati sulla cooperazione e la condivisione. In questo nuovo scenario l’urbanistica richiede non solo nuovi paradigmi e rinnovati strumenti, ma anche un recupero delle passioni, della capacità delle emozioni di guidare le nostre decisioni in maniera complementare rispetto all’indirizzo dei ragionamenti razionali generati dalle conoscenze e dalle abilità.

Per uscire mutati dall’era della crisi, le decisioni di sviluppo territoriale dovranno essere capaci di attingere anche agli impulsi emotivi prodotti dalle opinioni, dagli atteggiamenti, dalle credenze personali e collettive e dai sentimenti. Pianificare nella crisi significa – come direbbe Spinoza – non ridere, non piangere, non indignarsi, ma capire. E comprendere significa sempre più spesso utilizzare contemporaneamente un approccio razionale ed emotivo.
La mia esperienza di urbanista – come studioso, docente e anche come amministratore pubblico – è sempre stata una “riflessione in azione” sui principali temi che oggi delineano l’impegno di ricerca e l’azione progettuale dell’urbanista: la rigenerazione urbana attraverso l’azione integrata, il potenziamento della dimensione culturale dello sviluppo territoriale e l’emergere di una stagione strategica in cui il negoziato deve essere temperato dal valore delle identità. Sono convinto, infatti, che l’impegno degli urbanisti militanti debba tornare a essere un poderoso esercizio della responsabilità nell’interesse collettivo, un’applicazione del metodo scientifico non solo all’indirizzo consapevole della decisione politica, ma alla riconnessione del patto costitutivo della comunità con il territorio, nella consapevolezza che la dimensione etica della pianificazione ci impegna a fornire risposte al nostro insediamento, al nostro bisogno di abitare, alle nostre necessità produttive attraverso le capacità, sempre meno demiurgiche e più cooperative, del piano. Perché esso offra sempre adeguato rifugio dai pericoli dell’individualismo, anche quando sono il frutto generoso dell’attivismo sostitutivo della comunità.
Sono convinto che il coraggio di governare nella transizione verso un nuovo modello di insediamento umano – nelle multi-città che abitiamo – impone un approccio proattivo ai problemi, nel senso mirabilmente sintetizzato da Danilo Dolci che ha sempre fatto della sua militanza politica e sociale un impegno pedagogico: “non immaginare il diverso futuro possibile, ignorare il futuro che vogliamo, ci mutila e ottunde nel presente”, e – aggiungo io – dobbiamo avere il coraggio e la forza, la lucidità e la follia, la responsabilità e l’ambizione di realizzarlo.

Augmented city: la città si espande, densa di nuove propulsioni. Quali sono i punti di forza?

La città come luogo di valorizzazione dell’intelligenza collettiva dei suoi abitanti invoca un cambiamento di paradigma in grado di produrre un set di strumenti procedurali e operativi per coloro che vogliono accettare la sfida di ribaltare una visione sterile e poco innovativa. Abbiamo bisogno di definire un nuovo terreno di gioco per una visione alternativa più proficua, capace di rinnovare e potenziare il ruolo della città come piattaforma abilitante delle capacità umane, come acceleratore di empowerment e come moltiplicatore del capitale umano. Oltre la Smart City, per superarne la retorica ipertecnologica, voglio proporre la Città Aumentata (Augmented City) come un dispositivo spaziale/culturale/sociale/economico per connettere le componenti della vita urbana contemporanea, individuale e collettiva, informale e istituzionale, generatrice di benessere e felicità.

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Ho individuato dieci concetti chiave in grado di connettere paradigmi e dispositivi dell’urbanistica e della pianificazione territoriale per progettare la città aumentata – in senso spaziale, sociale ed economico – di fronte alle sfide del XXI secolo.
Innanzitutto una città aumentata è senziente perché ha bisogno di nuove fonti, parametri e strumenti per rafforzare gli strumenti cognitivi, valutativi e attuativi di un’urbanistica sempre più basata sulla conoscenza istantanea e distribuita e capace di produrre soluzioni tempestive, efficaci, solide e orientate ad uno scenario di cooperazione. È quindi anche collaborativa perché necessita dell’alleanza strutturale tra le dimensioni civica-tecnologica- urbana per agire efficacemente nella Sharing Society in cui viviamo, generando nuove forme dello spazio collettivo. Una città aumentata è intelligente perché capace di generare un ecosistema abilitante basato sull’hardware fornito dalla qualità degli spazi urbani e sul software codificato dalla cittadinanza attiva, ma soprattutto dotato di un nuovo sistema operativo costituito da un’urbanistica e da un progetto urbano avanzati, capaci di rispondere alle mutate domande della contemporaneità. La quarta parola chiave è produttività perché le città del futuro prossimo dovranno incentivare la territorializzazione dei makers all’interno di un nuovi distretti urbani creativi/produttivi per stimolare, agevolare e localizzare adeguatamente il ritorno della produzione nelle città, nelle forme delle nuove manifatture digitali, per la ricostituzione di una indispensabile base economica delle città, dopo gli anni della euforia per la città dei servizi. Ma la città dovrà anche essere sempre più creativa attraverso l’uso integrato della cultura, della comunicazione e della cooperazione (le 3C della città creativa) come risorse per una città attiva in grado di generare una nuova forma e una diversa crescita fondate sull’identità, sulla qualità e sulla reputazione. Una città aumentata si fonda sul riciclo degli edifici e della aree dismesse e pertanto chiede una metamorfosi del paradigma basato non solo sulla riduzione, il riuso e il riciclo delle sue risorse materiali e immateriali, ma in grado di disegnare una nuova forma territoriale in grado di cogliere le opportunità del metabolismo circolare, inserendo anche il riciclo programmato tra le componenti del progetto. Una città aumentata è quindi resiliente perché accetta la sfida dell’adattamento come dispositivo progettuale per insediamenti iper-ciclici e autosufficienti capaci di combattere proattivamente il cambiamento climatico, producendo e distribuendo efficacemente il dividendo della resilienza;: non solo nuova moneta di scambio nella economia della transizione verso lo sviluppo decarbonizzato, ma anche strumento di una perequazione ecologica urbana. L’ottava parola chiave è la fluidità che chiede di ripensare la porosità e la liquidità urbana come paradigmi proiettivi per i progetti di rigenerazione urbana che traggano dall’acqua la loro carica identitaria, producendo nuove configurazioni spaziali a partire dal rinnovo dell’interfaccia città-porto non più come luogo-soglia ma come produttore di potente nuova identità urbana.

Nell’orizzonte metropolitano, in cui anche l’Italia sta procedendo con importanti aspettative e necessari miglioramenti, è la reticolarità che definisce il passaggio da un ecosistema tradizionale basato su un obsoleto modello gravitazionale verso un nuovo e più efficace modello aumentato, iper-metropolitano basato su un’armatura di super-organismi metropolitani e arcipelaghi territoriali in grado di strutturare il sistema paese. Infine, una città aumentata è strategica perché assume l’integrazione delle componenti temporale, gestionale, collaborativa e adattiva come necessarie per rispondere alla necessità di un approccio multi-dominio e multi-attore, temporalmente orientato e indirizzato all’azione entro un modello di sviluppo meno consumatore e più produttore, in grado di attivare diversi cicli vitali per riattivare distretti, città e paesaggi, meno finanziario e più cooperativo, più metabolico e meno occasionale.
Progettare la città aumentata richiede una continua sperimentazione delle
sue declinazioni spaziali, sociali, culturali ed economiche in grado di aumentare l’intelligenza collettiva dei suoi abitanti. Ha bisogno di alimentare una nuova agenda urbana che connetta le pratiche più sensibili, i nuovi apparati normativi e le mutazioni economiche emergenti.
La Città Aumentata richiede quindi di percorrere la sfida del progetto urbanistico come connessione di livelli, di persone e di luoghi.

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Un piano strategico in senso tradizionale sembra non essere più sufficiente per descrivere, analizzare e rispondere ai bisogni di  una città. Perchè? Quali atteggiamenti possiamo cambiare?

In Europa la stagione della rigenerazione urbana ha prodotto importanti effetti sia nella revisione dei dispositivi progettuali sia nel ripensamento delle forme dell’insediamento e delle sue relazioni spaziali e umane. Ma non può essere nascosto anche l’emergere di alcune patologie che spesso hanno anestetizzato, quando non annullato gli effetti rigenerativi prospettati. La transizione del modello di sviluppo post-crisi, se da un lato ha moltiplicato il ricorso ai processi di rigenerazione urbana dal basso, contemporaneamente ha esteso l’epidemia di fallimenti derivati da un approccio dall’alto, ancora legato a precedenti paradigmi regolativi e razional-comprensivi. Le criticità della rigenerazione urbana di matrice apicale, naturalmente, non possono essere risolte solo revisionando le procedure di partecipazione, migliorando i dispositivi progettuali o innovando i processi attuativi: va ribaltato il punto di vista. Un concreto ed efficace processo per la rigenerazione di aree urbane caratterizzate da marginalizzazione e declino, da dismissione di edifici e infrastrutture, da sottoutilizzo funzionale o da cicli in debole riattivazione (mobilità, acqua, rifiuti) deve assumere un approccio che non solo rifiuti il tradizionale e ormai inefficace top-down strategico, ma che nemmeno ceda superficialmente alle retoriche consolatorie del bottom-up tattico. Serve un approccio strategico circolare, programmaticamente incrementale, processualmente ricorsivo e progettualmente flessibile, piuttosto che una strategia chiusa e simultanea. Al tradizionale masterplan rigido, istantaneo e pressoché immutabile nel corso della sua attuazione – inefficace in aree che non possano godere della destinazione di ingenti risorse pubbliche o private (ormai pressoché scomparse nelle città europee in transizione) – dobbiamo sostituire un “masterprogram” consapevolmente temporalizzato e adattivo, capace di comporre una visione complessiva attraverso l’attuazione di visioni parziali, capaci di azioni tempestive e temporanee ma che abbiano la forza generativa di nuovi futuri, che sappia attivare processi auto-poetici e auto-sufficienti.

Manifesto_CS3_lab16Ho definito questo processo Cityforming © Protocol, un protocollo progettuale – non una norma o un modello – in grado di riattivare per stadi successivi il metabolismo di un’area partendo dalle sue componenti rigenerative latenti, attivando molteplici cicli ad intensità crescente per creare un nuovo ecosistema urbano sostenibile nel tempo. Il Cityforming agisce per fasi incrementali e adattive necessarie a produrre risultati parziali che diventano la base generativa della fase successiva. Il Cityforming, procedendo attraverso le fasi della colonizzazione, del consolidamento e dello sviluppo, produce il necessario “ossigeno urbano” per la formazione di un ecosistema adeguato a generare un nuovo metabolismo che riattivi i cicli inattivi, che riconnetta quelli interrotti o che ne attivi di nuovi, più adeguati alla nuova identità dei luoghi.

Cosa significa adottare un approccio sistemico creativo e integrato tra le competenze nell’ambito della pianificazione e progettazione urbana?

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Ho scritto un libro intitolato “Re-immaginare l’urbanistica” (Re-imagining Urbanism, List, 2014) non per proporre una nuova parola-totem o un nuovo mantra capace di produrre effetti al solo nominarlo.
Credo, invece, che l’innovazione in urbanistica richieda un rigoroso esercizio di volontà, responsabilità e competenze che si fondino su un “buon governo” delle città – sempre più spesso dovendo gestire sia la contrazione che la metropolizzazione – basato su un nuovo pentagramma: visione, strategia, progetto, regole e comunità. Un pensiero differente e una filiera di azioni per i tempi nuovi, capaci di re-immaginare il progetto urbano, territoriale e paesaggistico. Dobbiamo tornare a guardare il territorio come risorsa generativa e non solo come spazio di consumo, attingendo alle energie del nuovo magma partecipativo in cui la questione giovanile, i lavoratori della conoscenza e le economie della sostenibilità si miscelano producendo un nuovo territorio che dobbiamo imparare a esplorare, a interpretare, a regolare e a progettare anche con la capacità di affrontare le nuove forme dei conflitti – sociali, culturali, etnici, ecologici, funzionali e sempre più spesso economici – che trovano nella città genesi ed eruzione.
Metamorfosi è la nuova e potente parola chiave del futuro. Numerosi segni ce la facevano intravedere, molteplici indizi ci indicavano la sua strada durante gli anni propulsivi della globalizzazione, ma li abbiamo ignorati in modo anestetico. Oggi invece saremo costretti a praticarla durante gli anni recessivi della crisi e le società del futuro – e le loro città sempre più smart, creative e green – dovranno agire entro uno stato di perturbazione che non sparirà presto, e che ci lascerà profondamente modificati. Dovranno essere in grado di riattivare i propri capitali (spaziali, relazionali e umani) guidate da una urbanistica in grado di garantire nuove forme di convergenza tra sostenibilità culturale economica, ambientale e sociale sia attraverso l’adozione di rinnovate visioni di futuro, sia attraverso l’uso di nuovi paradigmi ma anche attraverso la qualità delle decisioni e l’efficacia dei progetti.
L’impatto dei paradigmi ecologico, tecnologico e creativo non produce effetti solo sulle nostre azioni sociali in relazione con l’ambiente, ma interviene profondamente sui metodi e sul modo di pensare delle discipline che forniscono i principi e gli strumenti per governare e modellare l’ambiente in cui viviamo.
Gli scenari tumultuosi che ci circondano e l’orizzonte in rapido mutamento che abbiamo davanti non ci permettono di aspettare più nel cogliere la sfida a re-immaginare e ripensare l’urbanistica, perché nelle nostre orecchie suonano profetiche – e sono un potente viatico per l’azione – le parole di Bob Dylan, poeta per un mondo nuovo:

Come gather ‘round people wherever you roam

And admit that the waters around you have grown

And accept it that soon you’ll be drenched to the bone

If your time to you is worth saving

Then you better start swimming or you’ll sink like a stone

For the times they are changing.    

Un’esperienza positiva di approccio creativo alla città che possa essere di esempio anche per altre.

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Sono passati solo sei anni da quando è nata quella piccola ma potente stella nell’universo della creatività che si chiama FARM Cultural Park a Favara. Da quella scintilla creativa scoccata nei Sette Cortili dalla visione e passione di Andrea Bartoli e Florinda Sajeva, da quel vero e proprio evento cosmico nell’universo dell’arte contemporanea, del design,  dell’architettura, dell’innovazione sociale è stata generata un’energia vitale che ancora oggi non si arresta, anzi sta producendo importanti effetti non solo a Favara, ma in molte altre parti della Sicilia e nel mondo. La notorietà di FARM, e Favara, oggi non ha confini, ed è una delle prime mete mondiali per il turismo culturale e per i flussi degli innovatori. Non è un caso che uno dei recenti Google Camp dedicati ai future trends abbia tenuto una delle sue sessioni proprio qui. Ma, nello spirito della nostra navigazione, non è della energia creativa di Farm che voglio parlare – è stato fatto molte volte – ma vorrei guidarvi nel seguire l’emissione delle onde gravitazionali della sua potenza per rintracciare gli esiti estesi, duraturi, profondi che quel luogo, quelle persone e le tante che si sono aggiunte in un progetto sempre più corale hanno prodotto in soli sei anni. Ai Sette Cortili, il cui programma evolutivo non si è mai fermato, trasformandosi ed estendendosi in continuazione, si sono aggiunti altri epicentri di creatività che hanno arricchito l’armatura culturale di Favara. La Valle degli orti urbani, progettata da Giacomo Sorce e Manfredi Leone, che ha riattivato lo straordinario paesaggio vegetale del grande vallone ricucendo una parte di città che dal Castello arriva all’ex Macello, oggi trasformato in sede per attività didattiche e sperimentali – il Favara Future Fab – grazie ad un accordo con il Dipartimento di Architettura dell’Università di Palermo. Palazzo Cafisi, splendida dimora padronale, si trasforma in un laboratorio di performance artistiche in cui tradizione e innovazione si fondono generando esperienze immersive per il visitatore. Da un gruppo di abitazioni in centro storico è nato, dal genio di Lillo Giglia, Quid VicoloLuna, un luogo ibrido tra galleria d’architettura, ristorante, spazio espositivo e centro culturale che offre un’esperienza culturale amplificata e che dopo meno di un anno ha già generato emulazioni negli edifici limitrofi, proponendosi anche come spazio pubblico della città. Ma non solo l’arte viene sospinta dalle onde gravitazionali generate da Farm, perché anche il tessuto imprenditoriale ha ricevuto uno straordinario impulso. La piazza Cavour è oggi un pullulare di luoghi del gusto che puntano sulla qualità dello spazio e del cibo in una esperienza sinestesica imperdibile. Il Belmonte è un design hotel che completa l’esperienza artistica di Farm e che a breve, grazie allo spirito imprenditoriale di Antonio Alba, inaugurerà una nuova sede spettacolare nel Palazzo Piscopo sapientemente restaurato dallo Studio Architrend con coraggiosi inserti di contemporaneità, come un nuovo volume che funge da corpo scala ma che si candida a diventare un nuovo landmark urbano. A Favara niente è come vi aspettate che sia. Il negozio di abbigliamento Livreri If è anche uno spazio culturale, una piazza diventa, grazie a Pino Guerrera, una casa sull’albero che potete affittare su Airbnb, uno slargo viene riattivato da ragazzi che affermano la volontà di riscatto, un giardino diventa una cucina all’aperto a chilometro zero. Zighizaghi, progettato da Francesco Lipari e Giuseppe Conti, è un nuovo giardino urbano multisensoriale che si fa  piazza pubblica attraverso la cultura del dono tipica dell’oriente. E poi il Castello di Chiaramonte, che da silente spettatore del declino oggi è protagonista di una rinascita creativa.

Questo è quello che io chiamo l’F Factor, il fattore Favara che sta perturbando in maniera positiva non solo un territorio, ma l’intero sistema della rigenerazione urbana. Un fattore composto da luoghi, quelli che vi ho descritto insieme ad altri, fatto di talenti, distribuito nelle persone che credono al progetto e che lo raccontano in giro per il mondo. Un fattore Favara che si rispecchia nei volti delle persone, delle famiglie – tutto è nato da una famiglia – che animano questa avventura, e che saranno i protagonisti del prossimo Children’s Museum per educare i bambini alla bellezza. Un fattore che si identifica non solo con i talenti, ma risiede soprattutto nella loro capacità di tessere reti, di stimolare emulazioni, di costruire un ecosistema della creatività e dell’innovazione sociale che oggi è indispensabile per ripensare il destino dei centri urbani.

Un laboratorio per i bambini sulla resilienza: quali metodi utilizza per coinvolgerli sul tema?

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Il ciclo di lezioni su Opensource Urbanism che curo all’interno di SOU la School of Architecture for Children istituita entro FARM intende seguire un sogno racchiuso nell’acronimo LATU (Lower Age To Urbanism), cioè “abbassiamo l’età per l’urbanistica” per rendere la sensibilità , l’approccio e le tecniche dell’urbanistica una componente della nostra vita quotidiana.
L’urbanistica non deve essere solo una disciplina tecnica che richiede adeguata preparazione ed efficaci strumenti, ma deve diventare un modo collettivo di vedere la città e il territorio, il paesaggio e l’ambiente, le case e gli spazi pubblici, i trasporti e le imprese. Il ciclo di Opensource Urbanism vuole attivare l’urbanista che è in ognuno di noi perché sappia contribuire a quella parte sempre più importante che è l’urbanistica collettiva e collaborativa, mettendo in condizione la comunità, fin da piccoli, di capire le conseguenze delle scelte che riguardano i luoghi di vita e di lavoro, di comprendere le alternative tra le scelte di mobilità, di valutare le migliori azioni che riguardano l’energia e i rifiuti.
Come nella programmazione informatica il software della città, l’urbanistica, non è più precompilata da una azienda e distribuita agli utenti senza possibilità di cambiamento, ma diventa un software aperto che impara e migliora dalla relazione con i suoi utenti, gli abitanti, che si arricchisce di altre parti di codice che non erano state previste, in modo da adattarsi sempre più alle esigenze delle singole comunità invece di pretendere che le persone si adattino a visioni astratte.
In questo modo l’urbanistica torna ad essere capace di aiutare le città o le
tante forme di luoghi in cui viviamo ad evolvere come organismi viventi,
poiché animati della vita dei loro abitanti, delle nostre vite.
Il metodo è quello della gaming education un insegnamento che si traveste da gioco per veicolare ai bambini concetti complessi in maniera semplice e seducente in modo che le informazioni si trasferiscano in maniera piacevole nella loro coscienza e che, applicandole giocando, diventino patrimonio naturale del loro modo di pensare.

Giorgia Less

Valeria Farina e Raffaele Giaquinto: Storia di MAAM, Maternity as a Master

cover-libro-maamSecondo una ricerca Istat resa nota lo scorso anno, in Italia una donna su quattro non torna al lavoro dopo la maternità. Preparate, qualificate, brillanti, non importa che ruolo avessero prima di decidere di diventare madri, ancora troppe donne nel nostro Paese si trovano all’angolo, costrette a scegliere e sottilmente escluse da un sistema che quasi instilla in loro un velenoso senso di colpa, senza la minima possibilità di ricercare un equilibrio.

È di pochi giorni fa, invece, la notizia dei risultati di una ricerca condotta da Save the Children, secondo la quale, in Italia, un minore su tre è a rischio povertà ed esclusione sociale. Lo sport, la cultura, l’integrazione diventano quasi bisogni secondari di fronte alla cattiva alimentazione e alla difficoltà di avere una casa calda e accogliente.

Potrà sembrare ardito, ma, mettendo insieme i pezzi di questo triste caleidoscopio, ne esce una fotografia impietosa del Bel Paese, trasversalmente fuori dal tempo. L’Italia non è un Paese per donne. L’Italia non è un Paese per bambini. E se dicessimo l’Italia non è un Paese per bambini perché non è un Paese per donne?

Bisognerebbe riscattarsi una volta per tutte dall’idea che, per crescere un figlio, bisogna rinunciare a qualcosa o affidarsi ai bonus una tantum, neanche fossimo in un videogioco perverso. Non solo il welfare, ma anche e soprattutto il mercato del lavoro dovrebbe mettere seriamente sulla bilancia delle proprie priorità l’idea che rispettare gli equilibri della società, facendo entrare a far parte delle voci dei libri contabili il rispetto della maternità e della famiglia, in qualsiasi modo nasca e di qualsiasi tipo essa sia, rappresenti un incalcolabile e impagabile segno di benessere delle nostre aziende. Non si può pensare di costruire una diga che protegga il fiume dall’affluente inquinato, convincendosi di aver risolto un problema, perché prima o poi quelle stesse acque putride ci piomberanno addosso con una forza impossibile da contrastare.

Siamo lontani, ormai, dalla concezione che un posto di lavoro serva solo a sopravvivere o a pagare le bollette. Un mestiere è, oggi, sempre più il coronamento di un sogno e l’apice di un’istruzione e di un’educazione adeguate. Il lavoro dovrebbe trasmettere un’idea di futuro anche e soprattutto per le donne. È da questa convinzione, apprezzata anche dal recentemente scomparso Umberto Veronesi, che nasce il Progetto Maam – Maternity as a Master. I fondatori, Andrea Vitullo e Riccarda Zezza, hanno consolidato questa loro intuizione nel saggio “Maam. La maternità è un master”, BUR, e, oggi, dopo anni di esperienza nel mondo delle aziende italiane e multinazionali, hanno creato una piattaforma che ha concretizzato il loro progetto, studiato e applicato in realtà sempre più grandi.

L’obiettivo è sradicare il luogo comune, ancora troppo presente nel mondo del lavoro nostrano, che la maternità per una donna sia sinonimo di perdita di lucidità, energia e perfino competenze, togliendole l’opportunità e il diritto di essere la preziosa risorsa di sempre per la propria azienda. La maternità, invece, secondo Andrea Vitullo e Riccarda Zezza, è una straordinaria occasione di crescita per una donna e di acquisizione di nuove abilità per cui, col sostegno delle aziende, le competenze genitoriali possono diventare le basi per la costruzione di nuove pratiche di leadership per tutte le lavoratrici che saranno maggiormente portate all’ascolto, all’empatia, alla corretta gestione delle difficoltà e al miglioramento dell’organizzazione del lavoro.

Nell’approfondimento che segue Valeria Farina e Raffaele Giaquinto, due colonne della squadra Maam, rispettivamente responsabili di Sales & Marketing e di Customer Care & Communication, ci raccontano come è nato e come è cresciuto nel tempo l’ambizioso progetto Maam che sta avendo un grande successo e un ottimo riscontro in tante realtà aziendali, grazie anche all’entusiasmo del team che lo rappresenta.

Ecco dunque che la conciliazione tra il lavoro e la famiglia diventa un imprescindibile tassello di un equilibrato approccio sistemico non più solo al mondo del lavoro, ma alla vita stessa.   

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Come nasce il progetto “MAAM – Maternity as a Master” e in cosa consiste? Tracciamo un bilancio di questa esperienza, tra difficoltà e obiettivi raggiunti.

 

Maam – Maternity as a Master, nasce in Italia, Paese in cui, secondo fonti Istat, una donna su quattro non torna al lavoro dopo la maternità. Nel nostro Paese la maternità viene trattata dal sistema come un’anomalia: una “crisi” che si ripete sempre uguale, spezzando il ritmo del lavoro e della carriera delle donne. Per un anno, nel 2013, abbiamo fatto ricerca e abbiamo scoperto che le neuroscienze, le scienze comportamentali, ed evidenze empiriche dicono che con le esperienze di cura che riservano ai figli, le neomamme imparano e allenano alcune competenze che sono proprio le competenze chiave del mondo del lavoro di oggi.

A settembre 2014 è uscito con BUR il libro “Maam: maternity as a master”, ideato a scritto dai fondatori del progetto Riccarda Zezza e Andrea Vitullo, il quale ripercorre le tematiche chiave di questo innovativo percorso di cambiamento in cui le competenze genitoriali diventano la base per costruire pratiche di leadership. Da qui sono partiti i workshop in aula proprio su queste tematiche, in grandi aziende quali Nestlè, Ikea, Pirelli e altre.

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Crescere, semplificare, velocizzare: tre concetti fondamentali per il benessere e lo sviluppo di donne e uomini, sia nella vita di tutti i giorni, sia in contesti lavorativi. Cosa ha significato per voi applicare un approccio sistemico per sviluppare il vostro innovativo progetto?

 

Proprio nell’ottica di crescere, semplificare e velocizzare, a inizio 2015 dalla formazione tradizionale abbiamo deciso di virare al digitale. Per aumentare la scalabilità dell’impatto sociale del nostro progetto ci siamo appoggiati alla tecnologia, che ci ha permesso anche di aumentare sensibilmente la capillarità del programma Maam. È nato così Maam U: l’unico programma al mondo che valorizza il potenziale formativo dell’esperienza di maternità, trasformandola in una palestra di competenze soft utili anche sul lavoro, e restituendo all’azienda una risorsa più forte e consapevole, proprio come se la lavoratrice rientrasse al lavoro dopo un master.

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“MAAM” ha rivoluzionato il rapporto tra maternità e lavoro, sottolineando le capacità e le competenze che la maternità permette di assumere e che sono spendibili con successo anche in contesti aziendali. Che consiglio dareste a chi, oggi, si trova a conciliare le esigenze della famiglia e del lavoro, in un momento di transizione così complesso per il nostro Paese?

 

Alla base di Maam c’è Riccarda Zezza che quattro anni fa ha fondato il cosiddetto Piano C, proprio perché riteneva che non potesse esistere solo la scelta tra Piano a (lavoro) e Piano b (famiglia) e, siccome non la vedeva, l’ha creata! Qui sta la forza del nostro messaggio: il fatto che fino ad oggi la maternità sia considerata un freno per la crescita lavorativa, non significa che sia giusto, né vero. Le donne, con la maternità, stanno entrando a piena forza nel mercato del lavoro oggi, e nel farlo portano con loro la potenza della generatività, sta al mercato coglierla per utilizzarla al meglio, invece che buttarla via.

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Raccontateci un episodio che vi è rimasto particolarmente impresso e che vi ha fatto comprendere che “MAAM” sta percorrendo la strada giusta.

 

Il passaggio dalla formazione tradizionale a quella online ci ha permesso di raggiungere le donne ovunque (oggi siamo in centocinquantaquattro città nel mondo, toccando Europa, Australia, America e Sud Est Asiatico) e soprattutto nel momento di massima complessità, come è, appunto, il congedo. Nei due anni precedenti di workshop avevamo raccolto tanti feedback positivi, eppure ricevere la prima mail di ringraziamento e di incoraggiamento (dall’account del marito, in un’area d’Italia con bassissima connettività) da una neomamma che stava facendo il percorso online è stato il segnale tangibile che stavamo percorrendo la strada giusta.

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A cosa state lavorando attualmente? Quali sono i vostri programmi per il futuro?

 

Il più importante dei nostri progetti è che a metà gennaio 2017 lanceremo la piattaforma per i padri. Il nostro prodotto, proprio perché digitale, si evolve con le esigenze che il mercato propone, e la paternità è una sfida che noi abbiamo prontamente colto. Stiamo anche lavorando alla nuova release della piattaforma che, grazie ai feedback ricevuti dalle utenti, risponderà ancor meglio alle loro necessità di utilizzare al massimo questo grande periodo di cambiamento per scoprirsi più forti e pronte a rientrare nel mercato del lavoro!

Alessandra Rinaldi

www.maternityasamaster.com

Gabriella Greison: dalla Fisica alla Narrativa, all’insegna della Divulgazione e della Fantasia

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Ritrovarsi seduti alla stessa tavola porta spesso alla luce la vera natura delle persone. Questa volta non si tratta semplicemente di un luogo comune, ma di un originale pretesto per sbirciare nell’intimità e nella personalità di chi ci ha ispirato durante gli anni della nostra formazione. Ci è riuscita magistralmente Gabriella Greison, fisica, giornalista e scrittrice, nel suo ultimo romanzo, “L’incredibile cena dei fisici quantistici”, Salani Editore. È il 29 ottobre 1927 e, a Bruxelles, si è appena concluso il V Congresso Solvay della Fisica che ha avuto per protagoniste alcune tra le menti più eccelse del secolo scorso come Albert Einstein, Marie Curie, Niels Bohr, Arthur Compton, William Bragg e Irving Langmuir, tra cui ci sono i fondatori della Fisica Quantistica come la studiamo oggi. Dai tavoli di studio, a quelli apparecchiati e imbanditi, gli stessi scienziati si apprestano a partecipare a una cena di gala organizzata dai reali del Belgio. Un evento realmente accaduto, del quale, però, nessuno ha mai saputo nulla, almeno finché l’impareggiabile estro creativo di Gabriella Greison ha plasmato la realtà con la fantasia, dando vita a un romanzo originale e divertente, che ha il pregio di umanizzare personaggi dallo spessore indiscutibile, spiegando anche la genesi di alcune tra le loro teorie più famose. È così che la Fisica prende corpo, trasformandosi in un romanzo davvero alla portata di tutti che, attraverso uno scrupoloso lavoro di ricerca guidato da curiosità e passione, è il frutto di un approccio sistemico in equilibrio tra scienza, letteratura e divulgazione.

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Partendo da un evento storico realmente accaduto, è riuscita a costruire “L’incredibile cena dei fisici quantistici”, Salani Editore, un romanzo sorprendente e originale che, attraverso il linguaggio della narrativa, spiega la nascita delle più complesse teorie scientifiche dell’epoca moderna e svela le personalità nascoste di alcuni tra gli scienziati più geniali del secolo scorso. Ci racconti la genesi di questo libro: cosa l’ha ispirata durante la stesura?

 

Tutto è nato dall’ossessione per una fotografia, una splendida foto in bianco e nero che ritrae ventinove uomini in posa, quasi tutti fisici, di cui diciassette erano o sarebbero diventati dei premi Nobel. La foto me la ritrovo per le mani da quando ero piccola, poi l’ho vista all’Università degli studi di Milano, dove mi sono laureata in Fisica, perché un professore ce l’ha mostrata durante una sua lezione, dopo l’ho rivista all’Ecole Polytechnique di Parigi e, questa volta, era una gigantografia all’ingresso, e, successivamente, l’ho ritrovata di nuovo, da grande, quando entravo in un ufficio di quelli che la tengono in bella mostra. Ma tutte queste persone di questa foto non mi hanno mai raccontato niente, al massimo mi dicevano “guarda Einstein” o “guarda c’è pure Marie Curie”. Io, invece, mi sono appassionata a tal punto a questo più grande ritrovo di cervelli che la storia ricordi, che sono dovuta andare a Bruxelles, esattamente nel posto dove è stata scattata, ho chiesto, fatto domande, indagato. Ho trovato l’albergo dove gli scienziati hanno dormito, ho alloggiato nella stessa stanza dove dormiva Einstein, ho cercato negli archivi che tengono i documenti di quella settimana che queste grandi menti hanno passato insieme, li ho tradotti, assieme alle lettere che questi uomini si scambiavano. Ho tradotto le loro biografie, ho fatto ricerche per due anni interi. Alla fine sono riuscita a trovare la disposizione di quella tavolata alla Taverne Royale di Bruxelles dove i fisici hanno cenato subito dopo aver scattato la foto, e poi il menù della serata, e quindi ho creato il romanzo: un capitolo per ogni portata, sette portate, ciascuna con il vino dedicato. La cena era con i sovrani del Belgio, quindi l’immaginazione ha fatto il resto. Nel libro racconto tutto di quella cena, di cui nessuno ha mai saputo niente prima, di cui nessuno si è mai interessato, e, visti i documenti che avevo in mano, non potevo fare altro che crearci un libro. Prima non c’era e adesso esiste, è questa la mia più grande soddisfazione.

 

Quando e da dove nasce la sua esigenza di scrivere? Come ha coniugato la sua professione di Fisica col mestiere di autrice? È ancora possibile oggi, secondo lei, fare della scienza, della divulgazione e della ricerca un lavoro a tempo pieno?

 

Io sono fisica, dopo che mi sono laureata mi sono occupata per diverso tempo di ricerca, poi ho lavorato anche nei laboratori del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, e, successivamente, ho preso l’abilitazione all’insegnamento e ho insegnato fisica nei licei. Dopo queste esperienza ho iniziato a fare divulgazione e sono diventata giornalista professionista, occupandomi spesso di argomenti anche lontani dalla scienza. Dal giornalismo ho iniziato a scrivere libri che hanno sempre avuto un buon riscontro da parte dei lettori e non mi sono più fermata fino a oggi, dopo un percorso che mi ha permesso di concretizzare tutto quello che la passione mi spingeva a fare. Non sono scesa a compromessi, non ho seguito le idee precostituite sui posti di lavoro o su come bisogna tenersene uno, e sono andata avanti, e ancora avanti, cercando l’appagamento soltanto in quello che facevo e che mi appassionava di più.

 

Crescere, velocizzare, semplificare: tre concetti fondamentali per uno scienziato che costituiscono i capisaldi dell’approccio sistemico in qualsiasi ambito. Quali vantaggi comporta questo metodo nella conciliazione tra ricerca scientifica e mondo del lavoro?

 

Crescere è la parola più importante per uno scienziato. La crescita personale e collettiva è il motivo di tanti sforzi di tante domande a cui i ricercatori provano a rispondere e su cui si concentrano i loro lavori. Velocizzare, invece, è una parola che i matematici e i fisici conoscono bene, avendo molto a cuore il tempo e il suo utilizzo. E poi semplificare, certo, rendere più semplici possibile i concetti, le teorie, le trovate che portano alle soluzioni.

 

Ci racconti un episodio, un aneddoto, una storia relativa alla nascita e alla stesura del suo romanzo che le ha fatto comprendere che stava percorrendo la strada giusta…

Come ho anticipato, lo spunto è nato dalla foto che ritrae insieme gli scienziati prima della cena che, nel corso degli anni, mi ha quasi rincorso. Di sicuro il momento più importante è stato proprio quando ho deciso di trasformare questa curiosità in un romanzo e tutte le ricerche che ne sono scaturite prima di arrivare al risultato finale.

 

Che suggerimento darebbe a chi volesse seguire le sue orme in un momento di transizione così complesso e delicato per la realtà italiana? Quali sono, invece, i suoi progetti per il futuro?

Il mio consiglio è leggere le biografie dei grandi fisici del XX secolo. Dentro le loro vite c’è già tutto. Nel mio futuro c’è lo spettacolo teatrale “1927 MONOLOGO QUANTISTICO”, di e con me sul palco, regia di Emilio Russo, produzione Teatro Menotti di Milano. Abbiamo appena chiuso la prima tornata di repliche al Teatro Menotti, ma torneremo molto presto. Inizieremo, infatti, un tour negli altri teatri italiani e tutte le informazioni saranno presto disponibili sul sito del Teatro Menotti per tutti coloro che vorranno venirci a vedere. Si tratta di un’altra grade impresa, con il regista ho lavorato per costruire questa storia e la porto in scena da sola. Ogni sera sono venute a trovarci centinaia di persone, abbiamo avuto perfino il tutto esaurito: è stato fantastico! Eppure io racconto sempre di Einstein, Marie Curie, Schordinger, Dirac, Pauli, Heisenberg, Lorentz, Planck… Racconto il loro lato umano, i loro tic, le loro manie. Ho fatto bene a divorare nel corso degli ultimi anni le loro biografie, ora le posso raccontare sul palco con grande soddisfazione.

www.greisonanatomy.com

Alessandra Rinaldi

Luca Mollica: l’IIT e l’Approccio Sinergico

 

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Ottima scienza, ma non solo. Nella ricerca scientifica con una forte vocazione aziendale, a metà fra il mondo accademico e quello dell’impresa, la buona competitività, le collaborazioni in approccio sinergico, i progetti start-up e le applicazioni a livello industriale inquadrano uno scenario complesso ed estremamente ramificato. Per capire cosa significa “fare ricerca” oggi, non è più possibile rivolgersi esclusivamente ai grandi scienziati del passato, come Albert Einstein o Rita Levi Montalcini. La domanda che ci si pone attualmente di fronte ad un nuovo progetto è: questo tema è interessante, ma soprattutto è utile? In una realtà in movimento ed orientata per ragioni strategiche verso la settorializzazione, il Dott. Luca Mollica ci restituisce la sua esperienza come ricercatore: una storia che promuove l’eccellenza di un centro fondamentale della ricerca italiana, IIT, Istituto Italiano di Tecnologia, ma non solo. E’ anche un invito, tanto per i settori di competenza quanto per i singoli che operano all’interno del sistema, a non concentrarsi solo sulla produzione di dati ma a mantenere sempre una visione d’insieme, sublimata da conoscenze trasversali. Perché questo è positivo per l’approccio sistemico? Perché ammette la curiosità come motore propulsore, alimenta la conoscenza, stimola la creatività e crea nuovi orizzonti professionali. In definitiva, consente di recepire informazioni derivanti da altri sistemi, restituendo alla fine una misura del campo in cui si lavora ed in cui si vive. E’ la possibilità di tracciare una mappa e dire: io sono qui.

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Come nasce e qual è la mission di IIT? 

IIT è nato da un progetto governativo del 2003 che prevedeva in Italia la nascita di un istituto dedicato al trasferimento tecnologico dalla ricerca di stampo accademico all’impresa con finalità e ricadute applicative.
L’Istituto Italiano di Tecnologia nasce come fondazione di diritto privato e ha una struttura ramificata sul territorio: tra questi il quartier generale che risiede a Genova, due centri a Milano, uno a Roma, uno a Torino, uno a Napoli, uno a Ferrara ed uno a Trento. La mission di questi istituti per l’eccellenza scientifica è di trasferire risultati del lavoro di ricerca scientifica che si svolge al loro interno verso progetti ad alto impatto tecnologico con una potenziale industriale.
Sebbene sia un ente statale (afferente al Ministero del Tesoro), IIT ha una struttura di tipo aziendale che si richiama a quella degli istituti “Max Planck” tedeschi. In senso più’ generale IIT vuol porsi all’interno della struttura della ricerca scientifica e tecnologica del paese come un istituto in grado di assumere competenze che siano allo stesso tempo in costante dialogo ma ortogonali come finalità con quelle dell’Università da un lato e del CNR dall’altro, come già accade in altri paesi la cui ricerca ha un ruolo di primo piano a livello globale (USA e Germania).
Relativamente alla mia attività e al mio settore faccio parte di una rete di ricercatori che si chiama Compunet che ha lo scopo principale di usare tecnologie di simulazione numerica per affrontare problemi ad alto impatto scientifico e tecnologico, riguardanti principalmente le bioscienze e le scienze dei materiali. Compunet è una rete diffusa su tutta Italia, con sede principale a Genova ma ramificata su tutto il territorio, e prevede al suo interno contratti per il dottorato di ricerca o per l’attività post-dottorale di ricerca che abbiano come obiettivo di sviluppare questa tipologia di progetti. Inoltre la rete si configura come una sorta di dipartimento trasversale per avere non solo risorse ma anche competenze di calcolo. Per fare un esempio, io mi occupo di interazione tra farmaci e proteine, ma sono affiancato (tra gli altri) da un collega che si occupa di Scienze dei Materiali dal punto di vista computazionale: due filoni della chimica fisica che però parlano a mondi fra loro completamente diversi.

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IIT è una realtà in evoluzione. Come definirebbe in poche parole il proprio ruolo all’interno dell’Istituto e del progetto di ricerca “Compunet”?

IIT rappresenta un work in progress: io sono arrivato a Genova quando la struttura dipartimentale era più basata sulla sede genovese, mentre ora si sta avviando verso una fase di transizione. In Compunet ho la fortuna di lavorare in senso trasversale con il compito di creare la massima visibilità, efficacia e capacità di creare networking con altri gruppi, dalla collaborazione individuale a quella istituzionale.
In questo momento la struttura di IIT sta cambiando ed estendendosi, in quanto è prossima la creazione del polo tecnologico a Milano, Human Techopole (HT), che si estenderà su tutto il territorio dell’area milanese dell’ex-Expo. Questo progetto, che dovrebbe durare trentacinque anni nella sua fase di crescita e stabilizzazione, si concentra su tutto ciò che compete la crescita e lo sviluppo delle tecnologie volte a migliorare le condizioni di vita umane: cibo, salute, nuove tecnologie, nuovi materiali e robotica.

In che modo coesistono competenze così diverse in termini di collaborazione interna ed esterna all’Istituto? Quali sono i suoi punti di forza?

All’interno di IIT esistono diverse competenze. Per quanto riguarda il mio settore di afferenza, la molteplicità tematica deriva dalla storia del Dipartimento a cui faccio capo, detto in origine D3 (Drug, Discovery and Developement) che si configurava come realtà unica assieme a due altri assi tematici (oltre alla sezione computazionale), ovvero la chimica di sintesi e la farmacologica.
Oggi queste realtà sono state rese in parte indipendenti fra loro per ragioni in larga misura strategiche, ma queste competenze sono tuttora in costante collaborazione: in un mondo altamente specializzato come quello della ricerca scientifica la comunicazione è essenziale.
In termini di collaborazione esterna gioca un ruolo importante cercare il collaboratore “giusto”, ossia in grado di complementare le proprie competenze su filoni di ricerca effettivamente appealing sia dal punto di vista scientifico che economico: IIT in tal senso si configura come un partner che può offrire il meglio per la disponibilità sia tecnologica che finanziaria.
Esiste all’interno di IIT una grande capacità di creare buona scienza e applicazioni di ottimo livello, ma non solo: IIT ha una capacità unica in Italia di creare start-up. Di una di queste in particolare sono anche collaboratore: si chiama BiKi (Binding Kinetics) Technologies ed è nata formalmente un anno fa con lo scopo di fornire alle aziende un software (BiKi per l’appunto) che permette di manipolare informazioni relative alla struttura delle molecole e di creare dei modelli previsionali per mezzo di interfacce intuitive e veloci. Inoltre ove necessario e’ in grado di fornire anche il miglior know-how disponibile per lavorare in tal senso in modo ottimale.

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L’approccio sistemico in tre parole: crescere, velocizzare, semplificare. Dove e perché questi concetti costituiscono un vantaggio?

L’approccio sistemico consiste nell’interpretare correttamente i bisogni del cliente, delle aziende o dei collaboratori (sia interni che esterni), in modo da approntare la strategia migliore in funzione del progetto.
Spesso nel recente passato si sono utilizzate tecnologie lente, onerose o poco funzionali semplicemente perché rappresentavano la migliore offerta disponibile al momento (ad esempio per un rapporto qualità/prezzo vantaggioso).
Il nostro approccio è molto più semplice, ad esempio nell’ambito delle collaborazioni di cui si è parlato poc’anzi: ovvero, si è preferito utilizzare una tecnologia più semplice, rispetto al miglior stato dell’arte possibile attualmente, ma applicata “intelligentemente” in modo tale da estrarre informazioni utili anche senza un’estrema finezza di analisi o preparazione o di approccio sperimentale o di calcolo. Questo perché l’efficacia e la velocità d’uso di un metodo corrisponde alla semplicità d’uso da parte dell’organizzatore.
Cerchiamo inoltre preferenzialmente collaboratori che sappiano dare un feedback sul nostro operato: l’industria, che è un grande contributore in quanto potenziale primo utilizzatore, e l’accademia, dove l’utilizzo avviene con ritmi leggermente più bassi e con priorità differenti ma con maggiore cura di dettagli significativi per valutare la bontà dei nostri metodi.
Crescere è in linea di principio facile, in questo mondo della ricerca, sebbene poi le condizioni per farlo possano rivelarsi strada facendo avverse. Nel caso di una start-up, per esempio, crescere significa avere più contratti di anno in anno, in modo da avere una rete di contatti (il famoso networking!), denaro da investire nelle persone che possono lavorare nell’azienda e un accrescimento del know-how. Parlando più personalmente e della dimensione del singolo, invece, penso che ‘crescere’ significhi avere la capacità di creare un nuovo network collaborativo tale da ampliare l’orizzonte culturale e creare di volta in volta qualcosa di nuovo, rivolgendosi a quanti più problemi possibili, simili fra loro, ma mai uguali a quello di partenza.

Un suggerimento che darebbe a chi si affaccia al mondo della ricerca oggi.

L’IIT ha una importante componente educazionale, composta di studenti di dottorato e tesisti, che si rivela essere una risorsa fondamentale per la crescita. Muovendomi da una critica sistemica e del presente stato di salute della ricerca, in questa realtà al giorno d’oggi il rischio soprattutto per un nuovo arrivato è l’eccessiva settorializzazione, ovvero diventare un generatore di dati: questo aspetto ricade in primis sugli studenti (in tesi di laurea o all’interno di un dottorato di ricerca), sottraendo loro capacità critica e visione d’insieme, tagliando le ali alla loro curiosità perché “il tempo e’ sempre troppo poco, si deve fare in fretta”. Meglio sarebbe riuscire a progettare, pensare e studiare prima di farsi influenzare troppo dalla pressione della produzione … certo senza perderla di vista!
Il consiglio che do a chi si avvicina al mondo della ricerca è prima di tutto capire che cosa vuol dire fare ricerca oggi, in un’epoca di trasformazione epistemologica ed economica. Il suggerimento è di impegnarsi in un tema complesso, con la fortuna di avere un supervisore/tutor cosciente della difficoltà del progetto che non pretenda un risultato troppo rapidamente; inoltre penso sia importante riuscire a ritagliarsi sempre un tempo per ragionare sulla sua natura del problema “out of the box”, in maniera più completa possibile. Un esempio posso trarlo dalla mia esperienza: io mi occupo di simulazioni al calcolatore di biomolecole e loro interazioni e di spettroscopia molecolare e, nonostante sia un chimico fisico di formazione, ho però scelto di conseguire un dottorato di ricerca in biologia cellulare e molecolare: durante questo periodo di formazione ho capito che, ottenendo informazioni da altri sistemi e da altri settori scientifici, riuscivo a comprendere esattamente la vastità e complessità del campo in cui mi sto tuttora muovendo.
IIT ha una forte necessità di interfacciarsi con una realtà estremamente applicativa: è il modo contemporaneo di fare ricerca, l’arte per l’arte, ovvero fare qualcosa “per la bellezza del gesto”, nel mondo di oggi non ha più senso. Esiste un commitment che pretende risposte precise e con una certa finalità, sia nell’incipit di un progetto, sia nella richiesta di un finanziamento per la ricerca. Non è più sufficiente solo l’interesse, si rende necessaria l’utilità, ovvero se il target è appealing.

“Thinking out the box”: ci racconti un’esperienza positiva del percorso che l’ha portata a comprendere l’importanza di un approccio trasversale.

Potrei raccontare di come sono arrivato in IIT. Dopo la tesi di laurea su un argomento afferente alla Scienza dei Materiali (superconduzione di materiali inorganici), durante il periodo di servizio civile presso l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano, mi sono appassionato alle bioscienze. In seguito ho lavorato al San Raffaele per sette anni, dove ho cominciato ad occuparmi di spettroscopia molecolare e di simulazioni al calcolatore.
Quest’ultima esperienza era una sfida in cui si partiva da zero: il mio capo dell’epoca, la dottoressa Giovanna Musco, ricevette uno “starting grant”di Telethon per l’avviamento della attività di un laboratorio di ricerca. Quando ho cominciato quindi, in laboratorio eravamo io, il mio capo ed un tecnico e non avevamo altro che due scrivanie ed un bancone per lavorare! In breve tempo abbiamo cominciato a crescere, il gruppo si è ampliato, ci siamo spostati in un’area più grande ed abbiamo ottenuto risultati decisamente molto buoni. Dopo sette anni terminavo la mia esperienza e ho deciso di andare in Francia (a Grenoble) per occuparmi sempre di spettroscopia molecolare; nel frattempo avevo cominciato a lavorare alla modellistica molecolare, quindi mi dividevo tra misure e modelli numerici per interpretarle, dedicando a questi ultimi sempre maggior tempo fino a farne la mia attività principale o quasi unica di ricerca. Dopo quattro anni mi sono rivolto all’IIT ed ho fatto domanda per fare parte di Compunet: il mio era un curriculum vitae “ibrido”, in quanto avevo competenze trasversali, e pensavo di esserne svantaggiato. Tuttavia, quando sostenni il colloquio notai invece un forte interesse verso il rapporto tra la mia attività sperimentale del passato e la mia attività computazionale del presente, e verso il metodo che avrei utilizzato per lavorare sui dati: quando fui assunto, compresi dunque che il valore aggiunto non stava nella specializzazione ma nella capacità di mettere in relazione due mondi professionalmente distanti, ponendo le domande giuste al sistema e bussando alla porta del vicino che sa porre domande migliori delle tue. In sostanza sono arrivato sulla scorta di un disegno che vuole il sincretismo come filosofia dell’Istituto. Ed e’ una filosofia di vita e di fare ricerca che adotto sempre in ogni cosa di cui mi occupo, nel mio lavoro ma non solo.

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A quali progetto si sta dedicando in questo momento? Quali sono gli obiettivi futuri?

Attualmente mi sto concentrando su due diversi aspetti della chimica fisica delle biomolecole: la prima è la capacità di interpretare i dati sperimentali di velocità ed energetica di rilascio di molecole dalle proteine di interesse farmacologico. Nel 2015 e nel 2016 abbiamo pubblicato due lavori in cui abbiamo mostrato la capacità di implementare ed utilizzare un modello di calcolo del rilascio delle molecole in modo tale da ottenere un ranking corretto.
In tal senso è degna di nota una curiosità relativa alla comunicazione alla comunità scientifica mondiale dei nostri dati: essa incontra soprattutto all’inizio una certa qual “resistenza” da parte del pubblico accademico, che considera in qualche misura troppo semplici i nostri metodi, nonostante portino a dei risultati, mentre la committenza (potenziale o reale) industriale apprezza proprio la rapidità di utilizzo a dispetto del minor grado di complicazione. Questo schema è legato ovviamente alla natura dei due ambienti.
Il secondo tema su cui sto lavorando è la capacità di “parlare” direttamente ai dati sperimentali. Normalmente gli scienziati, sperimentali, teorici e “in silico” (modelli al calcolatore), non comunicano se non in modo qualitativo: lo scienziato sperimentale ottiene un risultato, mentre il teorico ottiene un risultato che potrebbe spiegare il dato sperimentale.
L’obiettivo che mi sono posto (e che tento di proseguire da anni in varie forme) è quello di riuscire quantitativamente a mettere in relazione il modello con il dato sperimentale, attraverso tecniche di simulazione, ovvero estraendo dalla modellistica un valore quanto più vicino ai dati sperimentali. È una questione complessa ma molto utile perché consente di essere estremamente analitici e di trovare il giusto collante fra le due parti.

 

Giorgia Less