Una “umana” digital transformation

Nel nostro mondo, in continua evoluzione, la digital transformation assume le sembianze di un alleato con il quale affrontare la vita oppure di un nemico da combattere?

Viviamo in un’epoca che si potrebbe definire vertiginosa, utilizziamo tecnologie che in breve tempo sono superate e così abbiamo bisogno di imparare nuove cose. Il bisogno di apprendimento che abbiamo oggi è maggiore di quanto lo fosse in passato, gli stimoli che riceviamo sono tanti, forse troppi, e a volte anche diversi. Scegliere, capire e orientarsi diventa complesso.

Seppur dalla nostra parte abbiamo un cervello adeguato a consentirci di far fronte alle sfide che incontriamo, nell’uso delle tecnologie diventa importante “l’esperienza” che facciamo. Le neuroscienze, le discipline scientifiche che studiano il funzionamento del cervello, circa dieci anni fa hanno scoperto la neuroplasticità, cioè la capacità del cervello di essere plastico, di trasformarsi costantemente in base alle esperienze che vive, di rigenerarsi anche dal punto di vista di neuronale e sinaptico.

Apprendiamo dalle esperienze che facciamo. Quando il nostro cervello vive una buona esperienza evolve, avviene in esso un cambiamento, ma, come in qualsiasi grande cambiamento, ci sono una serie di cose che non cambiano anche se si trasformano. Pensiamo, ad esempio, al concetto di “sicurezza”. Con quanta naturalezza oggi ci muoviamo e agiamo utilizzando le più svariate tecnologie?

Proprio qualche giorno fa mi è capitato di incontrare un’anziana signora al bancomat, qualcosa non stava funzionando e nel chiedere il mio aiuto ci ha tenuto a precisare “lo so fare, lo faccio sempre, ma oggi qualcosa non funziona”. Immagino quella stessa signora che anni addietro si recava alla posta per ritirare il suo salario e oggi digita su un touch screen orgogliosa di essere in grado di farlo da sola. Ha imparato a usare quello strumento, sa che inserendo la sua tessera bancomat può accedere ai servizi e svolgere la sua operazione, con attenzione digita il codice così come le è stato insegnato, con una mano digita il pin e con l’altra nasconde questo gesto da occhi indiscreti. Il problema si è risolto subito e la signora ha potuto continuare con la sua operazione, ma cosa sarebbe successo se il problema non si fosse risolto? Credo che banalmente la signora sarebbe entrata in banca per chiedere assistenza.

Per me è questo il segreto che accompagna la digital transformation: apprendere nuovi comportamenti che ci permettono di utilizzare delle tecnologie che facilitano la nostra vita consentendoci di fare una buona esperienza. Un’esperienza per essere buona deve essere anche sicura. Nel mondo digitale nascondere con una mano il pin potrebbe non essere sufficiente e non tutto dipende da chi sta utilizzando quel servizio, i comportamenti del cliente finale possono essere corretti e ciò ancora non essere sufficiente. È in questo scenario che acquisisce rilevanza prioritaria il concetto di fiducia: devo potermi fidare di chi eroga il servizio digitale che sto utilizzando.

Per le aziende è sempre più importante garantire ai propri clienti non solo una buona prima esperienza ma anche una seconda o una decima, il cliente non è tenuto a essere fedele, può avere accesso a una vastità di offerta. Resterà fedele se la sua esperienza continuerà a essere una buona esperienza.

digital

Torniamo alla nostra anziana signora, immaginate che magnifica esperienza avrebbe avuto se qualcuno l’avesse aiutata prima ancora che lei lo chiedesse?

Credo che quando il cliente si sente al centro (customer centricity) e ci sta bene, l’innovazione tecnologica diventa l’alleata con la quale affrontare la vita. Non importa se nella transazione digitale non mi interfaccio con una persona perché so che, dietro a quel servizio, ci sono persone a dar valore e sicurezza a quanto sto compiendo con le loro competenze e la capacità d’innovazione. E se qualcosa non dovesse funzionare sarà una persona a risolvere il mio problema.

Rosaria Gargano

Sistema Salute: come (non) raccontare l’HIV

Di recente abbiamo quasi tutti sentito parlare di Valentino T., arrestato nel 2015 e accusato di aver infettato più di trenta donne contattate in chat; o di Claudio P., il cosiddetto “untore” che ha contagiato più di duecento donne conosciute in rete. Ho deciso di riferirmi a questi due casi per evidenziare come i media, e più in generale, le istituzioni siano riuscite a plasmare ed imprimere una determinata immagine del malato di HIV. Tralascerò dunque qualsiasi giudizio sulla colpevolezza dei due soggetti.

Il virus dell’HIV ha una storia alquanto controversa: molti sono stati i dibattiti sulla sua origine e altrettanto numerosi gli scontri riguardo le modalità di trasmissione. Fin dalla prima ondata di contagi, risalente circa alla fine degli anni Novanta, la malattia ha portato con sé una forte componente discriminatoria e di condanna morale, soprattutto nei confronti di chi veniva considerato parte di una delle tre “categorie a rischio”: omosessuali, tossicodipendenti e prostitute. Nel tempo, le stime sulle infezioni hanno mostrato che anche tra gli eterosessuali il numero di contagi è aumentato, e anche se oggi se ne parla poco, la situazione italiana resta critica. Come possiamo giustificare questo silenzio? E che ruolo giocano i media rispetto a tematiche quali l’educazione e la responsabilità sessuale? Bisogna spingersi oltre la semplice cronaca. I giornali infatti, attraverso l’uso di un linguaggio superficiale, in grado di far presa sui sentimenti delle persone, hanno trasmesso l’idea del sieropositivo come figura sociale “deviante”, raccontando storie spesso imprecise che non rendono seriamente conto di alcune problematiche.

Se prendiamo in considerazione gli articoli su Valentino e Claudio, innanzitutto, notiamo che in quasi nessun articolo della stampa tradizionale si fa riferimento alla terapia: i due ragazzi non erano in cura, infatti. Sotto il profilo scientifico, la questione del regime terapeutico continua a essere tralasciata come se si trattasse di un aspetto secondario, dimenticando che, ad oggi, chi segue le cure riesce a non essere più infettivo. Cosa significa? Il virus resta nel corpo ma, grazie a specifici cocktail di farmaci, esso perde la sua capacità di contagiare, rendendo di fatto la persona non infettiva – o undetectable. Continuando a tacere sulle reali dinamiche inerenti all’HIV e all’AIDS, di fatto, si è rimasti legati a un immaginario – quello dei primi anni Novanta – caratterizzato da toni drammatici e apocalittici. Neppure le campagne informative del Ministero della Salute hanno mai reso noti i reali avanzamenti compiuti dalla biomedicina, insistendo al contrario su aspetti di natura morale e stereotipata che a poco sono serviti, e che anzi hanno contribuito a marginalizzare i malati veri e propri. Bisogna altresì riconoscere a onlus e associazioni come LILA, Plus Onlus, Anlaids, NPS Italia – per citarne alcune –, che negli anni hanno saputo fare informazione in modo accattivante, il merito di aver combattuto il pregiudizio, creando i presupposti per un discorso libero e socialmente rilevante.

Se scaviamo nelle vecchie pubblicità o nei messaggi di prevenzione del Ministero della Salute, possiamo notare come sia stato veicolato un messaggio ben preciso, utilizzando un linguaggio mediamente colloquiale che ha insistito sui concetti di vita sana e pratiche sane, riconducibili in ultima analisi ai valori approvati dalla società o dalle istituzioni religiose. Basti pensare alle molte pubblicità in cui si sottolineava l’importanza di mantenere una “normale vita di coppia” – ma “normale” per chi? Penso anche alle modalità con cui il preservativo è stato presentato come mezzo utile a proteggersi dall’HIV, dedicando scarsa attenzione alla varietà di malattie che possono essere contratte in un rapporto. E ancora: la famosa pubblicità dell’alone viola, che molti ricorderanno, in cui un’aura violacea avvolgeva i malati di HIV, classificandoli quindi come un’alterità da evitare.

Torniamo ora all’immagine dell’untore evocata dai mass media, a proposito delle vicende di Valentino e Claudio: chi erano gli untori? Si trattava di coloro che, durante la peste di Milano del 1630, erano sospettati di diffondere il batterio ungendo persone e cose. Utilizzando questo termine, dunque, si rimanda implicitamente alla peste e viene plasmata un’idea ben precisa di malato. Strategia efficacissima se si vuole diffondere il terrore e dar vita a una seconda “caccia alle streghe”. Non è in ogni caso la prima volta che i media si riferiscono all’HIV associandolo alla peste: negli articoli risalenti agli anni Duemila, si parlava, ad esempio, di «Male oscuro», «Peste del Duemila». Perché proprio la peste? Di solito, tale metafora viene utilizzata per malattie che hanno un forte impatto sulla popolazione e, generalmente, porta con sé l’idea di una punizione divina; inoltre, vengono definite delle “pestilenze” quelle epidemie che modificano il corpo – che, nel caso dell’AIDS, può accadere a causa delle infezioni opportunistiche –, rinforzando di fatto un’immagine negativa del virus.

Negli articoli che riguardano Valentino e Claudio si è parlato molto del numero di ragazze conosciute in chat – «Duecento rapporti non protetti», come riportato da Il Messaggero. È stata riproposta, di fatto, l’immagine del sieropositivo “anormale”, che ha solo rapporti occasionali e le cui pratiche sono tendenzialmente condannabili.

Di certo non è semplice rispondere, rinvenendo un nesso causale chiaro, al perché delle azioni di questi due ragazzi. Volendo rintracciare i nodi critici legati all’esperienza di un sieropositivo, sicuramente bisogna far presente che, purtroppo, la biomedicina ad oggi non risponde a tutti gli interrogativi e alle esigenze di un malato – ragion per cui sono numerosi i gruppi di auto-aiuto a cui le persone sieropositive si rivolgono per cercare conforto e supporto. Proprio l’ambiente medico è terreno di scontro di racconti – e non-racconti, i racconti negati – con cui provare a interpretare la propria condizione, e laddove il medico non è in grado di affrontare le dinamiche socioculturali della malattia sembra che il ruolo del counselor risulti molto più efficace. Non si può tuttavia negare che, a fronte di racconti istituzionali e mediatici in grado di imporsi, l’esperienza di un sieropositivo è spesso caratterizzata dalla marginalità. Marginalità che può portare a una mancanza di fiducia pressoché totale nei confronti dei sistemi istituzionali, al punto da indurre alcuni soggetti a sposare teorie e pratiche che mancano di fondamenti scientifici dimostrabili – penso alle tesi dello scienziato Peter Duesberg, ad esempio, che ha negato la correlazione HIV-AIDS. Spesso questo si traduce in azioni scellerate, nell’interruzione dell’assunzione dei farmaci, nell’isolamento, nella menzogna; credo in ogni caso che, da un punto di visto antropologico, queste persone stiano cercando di rispondere a interrogativi fondamentali: perché mi è successo questo? Perché proprio a me? Perché non sono normale? Le “scelte” di Valentino e Claudio riflettono, evidentemente in negativo, il fallimento del sistema medico e istituzionale. Provando ad azzardare un’ipotesi, il contagio volontario di più persone potrebbe corrispondere al tentativo di assimilare alla propria condizione quella degli altri. Volendo semplificare: se io non sono normale, vi rendo simili a me, annullando le differenze. L’analisi dei fatti dovrebbe risalire a monte di queste vicende, tuttavia, cosicché possano essere chiarite da una prospettiva più ampia. La sofferenza provocata ingiustamente da questi due soggetti forse origina da dinamiche di natura culturale che continuamente riaffermano dicotomie pericolose ed escludenti.

Il racconto dell’HIV, volendo andare al cuore del problema, ripropone implicitamente una convenzione socioculturale fortissima: il sesso è tabù. Il discorso sulla sessualità, da un punto di vista istituzionale e mediatico, continua a essere un “problema morale”. In uno spot recente, messo in onda dal Ministero della Salute, l’attrice Giulia Michelini viene ripresa davanti allo specchio; la situazione lascia intuire che si sta preparando per un appuntamento. Prende in mano dei profilattici e subito si sentono delle voci di dissenso, così l’attrice li lascia cadere tutti e ne tiene solo uno. Le voci approvano, come sollevate. È importante sottolineare che non si parla solo di HIV nel video ma più in generale delle malattie sessualmente trasmissibili, tuttavia notiamo come vengano costantemente espressi dei giudizi sui comportamenti sessuali. È necessario che il discorso sulla sessualità venga rimodulato, insistendo meno sulla moralità delle pratiche per concentrarsi sulla responsabilità relazionale. Superata la sterile problematica morale si potrebbero indagare aspetti più interessanti, quali il diritto alla sessualità e al piacere. E forse, così facendo, eviteremmo di ricadere nella classica dicotomia “sano-malato”, “normale-promiscuo”.

Proponendo l’immagine del sieropositivo-untore, infatti, si rischia di elidere la componente intersoggettiva che caratterizza il discorso sulla responsabilità e sulla tutela della propria salute sessuale. Un ragazzo sieropositivo mi spiegò molto chiaramente il suo pensiero: «La responsabilità è al 100% mia e al 100% tua». A tal proposito credo che i programmi di educazione sessuale nelle scuole possano rivelarsi fondamentali. In Italia, l’educazione alla sessualità purtroppo non è ancora un insegnamento obbligatorio, e le istituzioni non sembrano particolarmente interessate ad affrontare la questione. È chiaro, tuttavia, che se fosse possibile integrare nei sistemi scolastici dei percorsi di educazione alla salute sessuale e al piacere, si potrebbe mutare la percezione del rischio, ridurre i contagi ed evitare di relegare ai margini i malati. La sfida per il futuro è dunque questa: decostruire il tabù della sessualità e ampliare il discorso sulla salvaguardia delle pratiche sessuali, insistendo sul tema della responsabilità e del benessere.

Alice Gattari