“La Società Circolare” di Aldo Bonomi, Federico Della Puppa e Roberto Masiero

È stata inventata milioni di anni prima di Cristo e, ancora oggi, la ruota non è solo uno strumento indispensabile per i trasporti e l’economia, ma anche un simbolo di progresso e di evoluzione della società sempre più circolare.

Cosa si intende, dunque, per società circolare e sharing economy e a che punto è il nostro Paese in merito? Ce lo spiegano Roberto Masiero, Professore Ordinario di Storie dell’Architettura presso lo Iuav di Venezia, Aldo Bonomi, Sociologo fondatore del Consorzio A. A. S, TER., e Federico Della Puppa, Economista esperto in pianificazione strategica e marketing territoriale, nel loro ultimo saggio scritto in concerto, “La Società Circolare”, Derive Approdi Edizioni.

In questa pubblicazione dal taglio originale e innovativo gli autori delineano, anche attraverso un interessante apparato di slides e mappe concettuali esplicative, il cambiamento che la nostra società sta vivendo in questi anni a livello globale, passando da una cosiddetta economia lineare, a un’economia circolare a tutto tondo. La sharing economy 2.0, basata sul riutilizzo e sulla condivisione, infatti, oggi riguarda non solo beni materiali, come rifiuti, energia e materie prime, ma anche beni immateriali, come valori e competenze, entrando così nel mercato del lavoro e nella nostra politica, secondo il significato etimologico del termine. Accanto a ciò, stiamo assistendo al fenomeno della continua espansione dell’universo digitale, fatto di App e Social Network, che spesso invade lo spazio prima occupato esclusivamente dalle professionalità del secondo e terzo settore.

Per fare in modo che questi sconvolgimenti sociali non fagocitino le nuove generazioni in un mondo esclusivamente virtuale, trasformando il circolo virtuoso della ruota della fortuna nell’incessante girare della ruota del criceto, occorreranno empatia, consapevolezza e apertura verso una nuova cultura che si sta espandendo a macchia d’olio nella vita anche lavorativa di ciascuno di noi.

Partendo dall’analisi dell’individuo inserito nell’attuale società digitale, gli autori approfondiscono anche il contesto che lo circonda, a partire dalla cosiddetta smart city, fino alla smart land, in un vero e proprio sistema di cerchi concentrici che si allargano a perdita d’occhio. All’interno della smart city l’amministrazione procede alla gestione degli spazi e dei servizi con i cittadini stessi, razionalizzando, dunque, tutte le risorse, compreso il lavoro, per le esigenze della società. Nel testo gli autori accompagnano il lettore in un viaggio nella comprensione profonda dei meccanismi che caratterizzano la società circolare, evidenziando tutte le differenze col Capitalismo del secolo scorso anche attraverso esempi concreti su scala globale.

Una guida completa non solo per il cittadino e il lavoratore, ma anche per l’uomo del nuovo millennio verso la consapevolezza che l’integrazione tra reale e virtuale oggi passa attraverso la condivisione di risorse, cultura e ricchezza.     

Alessandra Rinaldi

“Esercizi di Fantasia” di Gianni Rodari

 

Primavera del 1979, precisamente 23 marzo, Centro Sociale di Arezzo.

Gianni Rodari incontra alcuni alunni di quinta elementare e prima media per parlare con loro, vivere a pieno la loro fantasia stimolandola attraverso il dialogo e dare vita a quello che sarebbe stato un capitolo del futuro libro Esercizi di fantasia.

Poco dopo, però, il famoso scrittore  morì e il suo divertente lavoro si credeva perduto.

Grazie alla Editori Riuniti invece, prima nel 1981 e poi nel marzo 2006 è stato pubblicato, con la prefazione di Tullio De Mauro e a cura di Filippo Nibbi, il libro Esercizi di Fantasia” di Gianni Rodari.

Questo volume non è un classico libro, ma la memoria trascritta su carta di alcuni eventi che si dimostrano profondamente attuali.

Subito dopo la prefazione di Tullio De Mauro, è Filippo Nibbi che ci spiega il perché di questo libro, raccontando il lascito dell’insegnamento di Rodari. Troviamo poi i veri e propri  Esercizi di fantasia, che riportano i dialoghi divertenti e divertiti avvenuti durante l’incontro del 23 marzo al Centro Sociale di Arezzo. Seguono infine la materializzazione di quanto imparato dagli insegnati in quell’occasione con una esperienza condotta dall’insegnante Giuliana Signorini e la trascrizione di due conferenze tenute dallo stesso Rodari nel febbraio 1979 e nel gennaio 1980.

Il lettore che si affianca a questo volume si immerge in un brillante salto indietro nel tempo e, scorrendo le pagine, vive l’incontro, riuscendo a comprendere e a seguire la nascita e la elaborazione che sorge e si sviluppa nelle parole che rimbalzano tra Rodari e i bambini allora presenti.

In quella che fu una costruzione collettiva si alterna la creazione poetica e dinamica con l’ispirazione, la scoperta, la decisione e la scelta che i ragazzi pongono in essere con lo stesso Rodari, liberi di librarsi nei meandri della fantasia.

Attraverso giochi linguistici, le parole scritte su foglietti di carta diventano velocemente, con l’aiuto dei bambini stessi, filastrocche o storielle assurde e surreali, ma vere, come solo un bambino può essere.

Ciò che fece Gianni Rodari altro non fu che lavorare con i ragazzi, come ogni animatore-educatore dovrebbe (saper) fare, cedendo ai bambini il centro della scena, preoccupandosi di assecondarli e guidarli in questi esercizi di fantasia.

Tutto quanto riportato in questo libro è una traduzione magistrale di momenti ed immagini dinamiche e materiali, che hanno reso quel momento di condivisione un momento di vita e non un semplice evento scolastico.

Il  modus operandi di Rodari, secondo la maestra Graziani presente all’incontro, era un ottimo strumento per sviluppare le capacità logiche dei bambini, per creare il gruppo, facendo socializzare gli alunni, rendendoli una unità stabile e non una semplice attività volta alla creazione di storie.

Questo strumento di interazione tra e con i ragazzi, poteva essere facilmente riadattato al modo di fare scuola ed effettivamente, come lo stesso Nibbi racconta nelle pagine successive, quello che gli insegnanti impararono durante quell’incontro, divenne un progetto didattico.

Nibbi scrive infatti che, una volta tornati a scuola e raccolte le impressioni degli alunni rimasti molto entusiasti dalla capacità di Rodari di travalicare lo stereotipo e gli schemi del classico insegnante, quella modalità operativa fu tradotta in un progetto didattico di scuola media, prevedendo una esperienza sistematica, articolata e specifica.

Questa intuizione divenne allora lo strumento di un fare scuola in modo diverso, nuovo e coinvolgente che riuscì ad abbattere le difficoltà dei singoli alunni, diventando un motivo di inclusione di tutti e di collaborazione tra le varie materie.

Si passò dai semplici giochi letterali alla creazione di un vero e proprio sistema che riusciva a compenetrare la logica e l’intuizione, l’apprendimento e l’espressione, la partecipazione materiale e quella fantastica, animando ed aumentando la crescita culturale dei ragazzi.

In tutto questo processo, l’immaginazione aveva stimolato l’educazione, riuscendo a rendere parte attiva anche gli alunni svogliati e i ragazzi con particolari difficoltà.

Insomma, Gianni Rodari aveva giocato con i ragazzi e suggerito ai docenti presenti un modo nuovo di insegnare. Gli stessi docenti si fecero partecipanti di quel “gioco” e riportarono nelle loro aule quello che avevano appreso.

A dir la verità l’incontro avrebbe dovuto avere un seguito, molto atteso tanto dagli alunni quanto dai professori, che però non ci fu a causa della morte dello scrittore.

Quando i ragazzi che avevano vissuto quell’esperienza, furono invitati dalla maestra Giuliana a mettere per iscritto la loro memoria sull’autore scomparso, ne uscirono delle frasi bellissime.

Frasi che, anche se scritte da ragazzi ormai in seconda media, rappresentavano pienamente quello che Rodari aveva in testa: i bambini al centro di tutto, l’importante uso della fantasia, la bellezza e l’importanza dell’essere felici.

“Rodari da ogni parola sapeva ricavare una vera e simpatica storia… con lui i ragazzi erano come degli autori”.

“Fu una grandissima conoscenza per noi, quella mattina, perchè lui ci insegnò ad esprimerci con tanta fantasia”.

“Diceva che la scuola è meglio farla ridendo che piangendo”.

Nonostante tutto quanto scritto sia avvenuto negli anni ottanta che sembrano così lontani da noi, leggendo questo libro ci si accorge, paradossalmente, di quanto sia attuale ciò che disse Gianni Rodari nella conferenza tenutasi a Bari nel gennaio 1980, riportata nel volume al capitolo: “Quello che i bambini insegnano ai grandi”.

I bambini secondo Gianni Rodari hanno la capacità di mettere in movimento la loro realtà, la loro esperienza e le loro idee giocando con la fantasia, perché il bambino è un giocatore ed è abituato a fare tutto attraverso il gioco.

Il bambino è una personalità completa ed aperta in tutte le direzioni prima che la sua socializzazione e la sua educazione lo adattino alla società in cui cresce, puntando solo sulle qualità che servono  a questo adattamento, rendendo disagiato quello che invece non accetta che il mondo lo voglia solo per una sua parte e non per tutto quello che può essere.

L’espressione della personalità è un corollario basilare per essere dei bambini felici e degli adulti migliori, evitando di diventare infelici quando siamo costretti ad impegnare solo una parte di noi stessi, dovendo “nascondere” il nostro io completo di fronte ad una società che non ci accetterebbe nella nostra completezza.

È questo senza dubbio l’insegnamento più bello lasciato da Gianni Rodari, anche e soprattutto grazie a questo libro, che ci permette di aprire un nuovo filone dedicato al mondo della scuola, insegnandoci come l’approccio sistemico non sia una cosa adatta e adattabile solo al mondo aziendale, ma anche al mondo dell’educazione.

Francesca Tesoro

“Le fabbriche di bene” di Adriano Olivetti

Nel contesto imprenditoriale attuale la complessa e polivalente figura di Adriano Olivetti, con le sue azioni civili, politiche e culturali, è oggetto di riscoperta.

I testi raccolti ne “Le fabbriche di bene”, Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità sono eterogenei e complementari. Il primo, del 1951, è una sintesi del progetto di Comunità, l’illustrazione dell’idea olivettiana di convivenza civile; il secondo è un discorso rivolto ai lavoratori della sua fabbrica in seguito alla Liberazione del 1945 e rappresenta l’occasione per riprendere le fila di un progetto che la Guerra aveva sospeso ma non interrotto.

Ciò che distingue Olivetti nel contesto dell’imprenditoria italiana è il fatto di non essere solo un imprenditore. Il suo pensiero, da cui scaturiscono le altre componenti della sua figura, prende avvio dalla fabbrica intesa come un sistema costituito dalla compenetrazione di giustizia, progresso e tolleranza. Nel libro viene illustrato il cuore di tale sistema che grazie alle sue caratteristiche diventa una “Comunità” ambasciatrice di quell’alto equilibrio umano che Olivetti considera come obiettivo del suo progetto.

Il libro mette in luce altri importanti aspetti della concezione olivettiana come quello relativo alla meritocrazia, tema spinoso ed estremamente attuale. Per l’imprenditore di Ivrea la trasmissione della ricchezza costituisce un’ingiustizia sociale evidente, mentre “la sottomissione di uomini ad altri uomini in virtù del privilegio di nascita costituisce […] un ostacolo gravissimo al progredire dell’industria”. Il criterio fondante per assicurare alla fabbrica comunitaria la massima efficienza è la formazione e valorizzazione di dirigenti dotati di qualità umane, tecniche e culturali superiori. Ogni soluzione che non dia autorità e responsabilità a uomini di altissima preparazione, secondo Olivetti, è da considerarsi ingannevole.

L’occhio con cui l’imprenditore di Ivrea osserva la fabbrica è capace di catturare tutti gli elementi che caratterizzano tale struttura: il suo aspetto esteriore, il rapporto con la natura circostante, le persone che la popolano.

Dal libro traspare tutto lo sforzo che Olivetti compie affinché l’evoluzione e l’espansione della sua fabbrica non la renda simile alle grandi città moderne nate da una trasformazione che ha compromesso l’“armonia di vita” attraverso il caos creato dal loro “inestricabile groviglio”.

L’imprenditore è consapevole che l’idea della grande fabbrica porti con sé la distruzione dei contatti umani e la considerazione di ogni uomo come un numero.

La preoccupazione di Olivetti, perfettamente espressa dal testo, è fare in modo che tutto ciò che ha costruito mantenga il suo lato umano senza dimenticare mai l’approccio di suo padre Camillo che, nel discutere o esaminare il regime di vita o il regime di fabbrica, considerava ciascun lavoratore pari a lui comportandosi come “un uomo di fronte a un uomo”.

Cecilia Musulin

“L’alfabeto del leader” di Paolo Iacci

Paolo Iacci, autore di numerosi volumi di management e sviluppo delle risorse umane, professore dell’Università Statale di Milano, grazie alla casa editrice Guerini Next, ci regala un fantastico volume dal titolo “L’alfabeto del leader”.

Questo sorprendente libro, con una struttura piacevolmente schematica, mette nero su bianco concetti che diventano l’abbecedario di chi è o potrebbe ritrovarsi a capo di aziende e personale, qualsiasi siano le dimensioni dell’una e dell’altro.

Il lettore, quasi disarmato dalla semplicità di ciò che legge, si ritrova a comprendere concetti prettamente manageriali che non avrebbe mai osato capire, soprattutto se chi legge non è un manager né tantomeno è avvezzo alle linee politico-organizzative del fare impresa.

Decisamente uno scrittore fuori dal comune Paolo Iacci che, con singolare bravura, sfrutta le lettere dell’alfabeto come ossatura del volume rendendole i titoli di ogni capitolo, secondo il normale ordine conosciuto dai bambini fin dalla prima elementare.

Così, partendo dalla A ed arrivando alla Z, vengono enucleati attraverso favole,  storielle semiserie, leggende, massime e stralci di opere scritte in epoche diverse da autori diversissimi tra loro, quei concetti manageriali che dovrebbero essere conosciuti da tutte le classi dirigenti.

Iacci, usando questi stratagemmi, riesce a delineare in modo inesorabile la realtà aziendale, organizzativa e sociale di chi dovrebbe dirigerle.

Come scrive Gianfranco Rebora nella prefazione, l’autore “sa essere pungente, mordente, incisivo, ma riesce a svolgere questo ruolo con la leggerezza dell’ironia evitando la trappola del moralismo”.

In questo libro è il Manager al centro di tutto e diviene un condensato di concetti ad esso collegati.

“M come Merketing”

Si crede generalmente che il marketing sia una cosa strettamente moderna, legata al nuovo modo di fare impresa, ma in realtà non è così.

Uno dei primi casi di marketing, ci racconta Iacci, è stato quello della diffusione della patata originaria dell’America che quando fu importata dai Conquistadores in Europa non era per niente ben vista, per tutta una serie di motivazioni che io stessa ho scoperto leggendo il libro.

Ebbene,  ci vollero quasi duecento anni, ma da quando nel 1767 fu organizzata una grandiosa cena regale alla reggia di Versailles tutta a base di patate, alla presenza di nobili e illustri ospiti internazionali che nel frattempo erano stati istruiti per adornare se stessi e le proprie casate con i fiori di patata, questo tubero bitorzoluto fu sdoganato al punto tale che i raccolti furono depredati dalle folle. Il gioco era fatto.

“A come AAA (Classe Dirigente Cercasi)”

La sferzante ironia di Achille Campanile delle sue «Tragedie in due battute», uno stralcio del Libro dell’Inquietudine di Pessoa e il ritratto di Telemaco fatto da Recalcati, diventano gli strumenti per descrivere il sentimento delle imprese italiane. Al di là di ogni metafora, le nostre imprese sono alla ricerca di una classe dirigente capace, coraggiosa e progettuale che abbia l’autorevolezza di padri (i manager)  disposti ad assumersi la responsabilità del futuro dei propri figli (l’azienda).

“N come Navi (scuola)”

Questo è il capitolo che mi è piaciuto di più e mi permetto – l’autore non me ne voglia- di riportare per intero la storia che lo apre, anche se apparentemente sembra distaccato dal titolo.

Lo sciacallo, ritenuto un animale squallido perchè si nutre di carcasse altrui, ha fatto scuola sulla pelle del leopardo.

Il sillogismo tra questa storiella presa dal trattato di Artha Shastra sull’arte di governare e le navi scuola, è perfetto.

Iacci riconosce che uno dei problemi della società aziendale italiana è proprio la mancanza di queste così dette navi scuola che insegnino ai più giovani cosa significa e come deve essere un manager. Una volta, scrive l’autore nel proseguo del capitolo, l’azienda forgiava il proprio manager con uno stile talmente riconoscibile e inconfondibile che guardando la persona si capiva subito chi lo aveva cresciuto professionalmente. Oggi, la mancanza di questa volontà, diventa una debolezza tanto del pensiero manageriale italiano che del sistema produttivo ed economico, perdendo così la capacità di sedimentare il pensiero strategico e funzionale che – una volta – portava al successo le imprese italiane.

“A come AAA (Classe Dirigente Cercasi)”


Lo scrivano Bartleby di Herman Melville, ad un certo punto della sua vita professionale nello studio del notaio dove esercitava, ad ogni richiesta che gli veniva fatta, inizia a rispondere categoricamente, in modo assoluto e con ferma gentilezza «Preferire di no». Praticamente come dare un rifiuto assoluto e definitivo senza ulteriore possibilità di cambiare la cosa.

Bene, questa è in estrema sintesi l’aria che talvolta si ritrova nelle imprese italiane dove, tralasciando anche la crisi che può aver dato il colpo di grazia, c’è un profondo estraniamento umano tra i vari settori che compongono l’impresa stessa. Allora, se non c’è un riconoscimento profondo tra il lavoratore e la ”istituzione azienda” – e viceversa -, come si può pensare che ognuno possa considerarsi come unico e insostituibile per il successo di tutti?

“G come Governance”

Iacci parla di quattro leggi: la Legge di Murphy,  la Legge di Parkinson,  il Principio di Peter e le Leggi di Cipolla.

Non ho certo l’intenzione di svelarvi quale di queste leggi sia di chi, ma vi lascio con il dubbio di verificare personalmente come queste stesse leggi abbiano precisi e quotidiani riscontri in ogni organizzazione, nonostante siano considerati idioti passatempi quando invece hanno una sorprendente valenza e applicazione pratica. Soprattutto nelle aziende.

“E come Eudemonia”

Ammetto di essermi sentita un po’ ignorante leggendo questo libro, perché io, che ho frequentato il liceo classico, non avevo idea di cosa fosse l’Eudemonia.

Vi tolgo dall’imbarazzo e vi dico subito che, con questo termine, nella antica filosofia greca veniva indicata la condizione della ricerca della felicità quale fondamento dell’etica  e fine ultimo dell’esperienza umana.

Sapevate anche che questo concetto è espresso in maniera indiretta e in modo perfetto nella fiaba di Italo Calvino intitolata «La camicia dell’uomo contento»? Leggetela, è all’inizio di questo capitolo.

Filosofia greca e fiaba di calvino per dire cosa? Che gli imprenditori di oggi, arrivati ad un certo punto si fermano, vivendo di rendita e credendo di aver raggiunto il massimo. É l’inizio del declino e della perdita. Dovremmo essere tutti un po’ più “Eudomoniomici”.

“R come Retribuzioni”

Anche qui ho scoperto una storia che ignoravo, scritta da Jorge Luis Borges, tratta da L’Aleph, che parla di un re babilonese che chiamò alla sua corte i migliori maghi e architetti per costruire un labirinto talmente complesso che avrebbe convinto gli uomini prudenti a non sfidarlo. Allora un re degli arabi, dopo averlo provato si sentì talmente offeso e confuso da implorare l’intervento divino per salvarsi, dopo di che saccheggiò il regno di Babilonia e fece prigioniero il ‘collega reale’ per poi abbandonarlo nel proprio deserto.

Poco più avanti Iacci scrive che la storia di questi labirinti rappresenta una morale presente ed applicabile a moltissimi ambiti della nostra vita, individuale e sociale.

Così viene costruito e magistralmente spiegato il sillogismo di tutto ciò che ruota intorno alle retribuzioni, ai pericoli della stabilità dei conti aziendali, alle alluvioni normative in materia e a quei pochi punti fermi ancora presenti, nella speranza che le nuove impostazioni retributive  possano, si spera, ridare credibilità al ceto manageriale.

Ecco, sfruttando le sole parole che compongono la parola Manager, vi ho dimostrato la bravura di Paolo Iacci nel riuscire a veicolare, con il suo approccio interpretativo, i comportamenti diffusi nella quotidianità delle realtà aziendali, criticandoli e suggerendo, per ognuno di essi, una visione differente, trasformandoli in insegnamenti pratici di grande attualità.

In fondo Paolo Iacci, usa l’alfabeto e delle favolesche – più o meno – similitudini per arrivare ad un risultato preciso: spiegare quando e perché le imprese non funzionano.

Senza dimenticare, ovviamente, di dare qua e là suggerimenti semi seri che se correttamente interpretati, diventano una soluzione per il manager.

Ecco dunque, il Compendio semiserio per manager colti.

Francesca Tesoro

“Adriano Olivetti. La biografia” di Valerio Ochetto

“Si può essere imprenditore e rivoluzionario?”

A distanza di 57 anni dalla scomparsa di Adriano Olivetti, avvenuta il 27 febbraio del 1960, questa domanda risuona ancora estremamente attuale.

Adriano stesso ha cercato una risposta impegnandosi per tutta la vita ad agire sulla società attraverso la sua fabbrica e la sua figura di “uomo”, prima ancora che di capitalista.

È proprio sul lato umano di Olivetti che si concentra il libro “Adriano Olivetti. La biografia” Valerio Ochetto, Edizioni di Comunità.

Il racconto dell’autore comincia con la descrizione dell’ambiente familiare in cui il padre Camillo, memore delle costrizioni del collegio, cerca di prolungare il più possibile il contatto dei figli con la natura. In casa le regole sono molte ma piuttosto aperte per i tempi.

L’esperienza da cui prende avvio la filosofia olivettiana è il viaggio in America: in Adriano nasce la convinzione che il segreto dell’industria americana non stia negli uomini “ma nella struttura della organizzazione e nel rigore dei metodi”.

L’intento di Ochetto sembra essere quello di ricostruire la figura di Adriano Olivetti attraverso i suoi molteplici interessi ed esperienze che lo hanno portato ad essere un uomo impegnato in diversi ambiti, come quello urbanistico e quello letterario.

Gli ambiziosi progetti hanno avvicinato Adriano a molti personaggi noti che con le loro parole ne raccontano le abitudini e ne descrivono le caratteristiche.

Ochetto ricorda come Alberto Carocci lo definisca “l’uomo più originale che io abbia conosciuto e che poteva apparire il più banale” o come Geno Pampaloni chiami “dirigismo estetico” il ruolo che Olivetti sente come un dovere, una vocazione legata alla figura del manager che, partendo dalla fabbrica, deve investire e migliorare l’intera società.

Ciò che colpisce di questo libro è la profondità con cui l’autore racconta la vita di Adriano Olivetti, quasi come fosse vista attraverso gli occhi di un familiare, svelandone non solo i punti di forza ma anche le debolezze.

Olivetti è un uomo che “non ha né la passione né la qualità del finanziere”.

Olivetti è colui che vede la sua fabbrica come un organismo vivente, animato dalle continue trasformazioni e dal contributo degli intellettuali assunti in fabbrica con l’intento di creare il rapporto intellettuale – industria compatibile con la duplice natura di Adriano: capitalista e riformatore sociale.

“Adriano Olivetti. La biografia” è un libro che permette di arrivare al cuore della vita dell’imprenditore di Ivrea, il lettore viene coinvolto nel vortice degli interessi e delle aspettative di questo personaggio che appare più come un intellettuale engagé che come uomo d’affari.

Non a caso il libro è pubblicato dalla casa editrice fondata dallo stesso Adriano.

Cecilia Musulin