Il Diritto di Contare: per andare oltre ogni limite imposto dagli altri

 

America, anni sessanta. È il tempo in cui gli americani rincorrono i russi per la conquista dello spazio. Ma è anche il tempo in cui persiste e prosegue la segregazione raziale e la contrapposizione, a qualsiasi livello, dei bianchi e dei neri, uomini e donne.
Al centro Nasa, dove vige il maschilismo più assoluto e la distinzione raziale è più che marcata, tre amiche afroamericane Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson lavorano come calcolatrici, considerate non abbastanza brave e competenti (soprattutto perchè nere) per aspirare a mansioni superiori. Così, grazie alla loro perseveranza e capacità di far valere le loro capacità, riusciranno a raggiungere inimagginabili traguardi. Katherine, straordinaria esperta di geometria analitica verrà trasferita nello Space Task Group e parteciperà in modo risolutivo al calcolo delle traiettorie di quello che sarà il volo di John Glenn, il primo uomo americano in orbita intorno alla terra e poi delle successive missioni Apollo.
Dorothy affronterà il suo supervisore – donna bianca – a viso aperto che la ritiene inferiore solo per motivi raziali diventando a sua volta la prima supervisore afroamericana, gestendo il nuovo IBM di ultima generazione che accantonerà definitivamente lavagne, gessetti e le calcolatrici umane (tutte donne di colore).
Mary testardamente e con la volontà di voler essere un ingegnere come tutti gli altri sarà, non solo, la prima donna a frequentare un corso esclusivamente per uomini bianchi ma anche la prima ingegnere aerospaziale afroamericana, ottenendo la specializzazione necessaria per la promozione e contribuendo in modo determinante alla creazione della capsula del programma Mercury.

Il diritto di contare, film di Theodore Melfi del 2016, nella versione originale ha il titolo di Hidden Figures – figure nascoste – ed è basato sul libro di Margot Lee Shetterly intitolato “Hidden Figures: The American Dream and the Untold Story of the Black Women Who Helped Win the Space Race”.
Già questo basterebbe per dare un senso più che profondo a questa pellicola, ma andiamo oltre la “semplice e dirompente” storia che c’è dietro.

Per quanto possa sembrare distante dal nostro modo di vivere oggi, dove tutto sommato siamo abituati a vicendevoli avvicendamenti tra uomini e donne e non ci interroghiamo più sulle difficoltà che ci sono dietro e il sacrificio che ha richiesto a molti o dove, ancora, siamo indifferenti (quasi) all’interrazialità che ci circonda, questo film diventa un fuoco acceso in un deserto buio.

Katherine, Dorothy e Mary con il volto rispettivamente di Taraji P. Henson, Octavia Spencer, e Janelle Monáe, accompagnate sulla scena da Kevin Costner e Kirsten Dunst, danno vita a tante donne e (pochi) uomini che hanno fatto di questa storia un principio per cui combattere, insegnando a farlo, trattenendosi sempre nei confini socialmente ammessi e Concessi ma con il dirompente desiderio e coraggio di infrangerli, a tutti i costi.
Perchè essere una donna in un ambiente esclusivamente maschile che svolge un ruolo socialmente categorizzato per uomini è difficile, ma essere una donna di colore nel periodo in cui le differenze tra bianchi e neri sono ancora troppo marcati e reali e dover combattere per la propria affermazione, è davvero straziante.

Per quanto possa sembrarci irrisorio oggi, abituati alle parità di genere – anche se troppo spesso poco applicata e riconosciuta-, una donna normalmente deve lavorare il doppio e in quel tempo una donna nera doveva lavorare dieci volte di più per vedersi riconoscere la metà del proprio reale valore. Più o meno è quello che succede ancora oggi, solo che siamo troppo distratti dall’accorgercene e, purtroppo, la linea di demarcazione della disuguaglianza e discriminazione è dissolta dal “solo” colore della pelle.

Nel film si parla di oppressione e segregazione, di categorizzazione e marginalizzazione nel mondo del lavoro, perchè già una donna ingegnere fa uno strano effetto, ma alla donna ingegnere di colore viene detto che non può davvero aspirare ad essere ciò che non può essere perchè è a-normale.
Ognuna delle tre protagoniste lotta non solo per sé ma anche per tutte le altre, riuscendo alla fine a vincere. Vincere non qualcosa di straordinario ma per quello che è giusto e che lo era anche prima, solo troppo nascosto dal pregiudizio e dalla diffidenza.

Allora qual è il senso di questo film?

Essere Donna è meravilgioso, nonostante ci sia da faticare almeno il doppio. E quello che ci insegnano le protagoniste di questo film è che essere sé stessi è la miglior cosa che si può fare per raggiungere non solo i nostri obiettivi, ma per farci tutti strumenti per il meglio, nostro e degli altri.
Puntare al meglio, in ogni situazione e sfruttando a nostro favore qualsiasi cosa ci sia da fare, dimostrando non tanto di esserne in grado, ma esplicitando i nostri talenti e facendo in modo che, senza paura alcuna, le persone che ci stanno intorno non ci guardino tanto per il nostro essere, ma diano il giusto perso alle nostre capacità e ai nostri talenti che poi fanno la differenza. In tutto.

E se per caso vi venisse il dubbio che, in fondo, un film che parla degli anni sessanta è assolutamente lontano dai nostri giorni e dalla storia che quotidianamente viviamo, vi invito caldamente a fare due cose: la prima, oggi più che mai, leggete le notizie di cronaca che arrivano dagli esteri, la seconda, osservatevi intorno in ogni ambito lavorativo o, anche, familiare per rendervi conto di quanto ci siano ancora troppe differenze.

Solo allora capirete il vero senso del sacrificio non solo di queste Donne, ma di tutti coloro – Donne, Uomini, giovani, bambini ed anziani – che hanno sacrificato molto di sè per il bene di tutti in qualsiasi ambito e di quanto, a volte, essere visionari non per forza sia una cosa da sottovalutare (nel giorno in cui si accingeva a partire la prima missione spaziale con una navicella privata abortita per il mal tempo).

Francesca Tesoro

“El trabajo tiene futuro. O más bien tres ” por Mario Mantovani. Los nuevos horizontes de la economía.

El trabajo y los terremotos como fuentes de transformación irreversible de la sociedad por un lado, del medio ambiente, por el otro. Es a partir de esta valiente pero adecuada comparación que la investigación sobre el futuro del trabajo en nuestro país, pero también en nuestro mundo, esbozada por Mario Mantovani en su ensayo “El trabajo tiene futuro. O más bien tres “, GueriniNext.

El autor, vicepresidente de Manageritalia, guía al lector a través de un razonamiento complejo, pero también accesible para los no profesionales, proponiendo tres posibles escenarios para el mundo del trabajo. Pero procedamos en orden.

No es posible predecir el día, la hora y el epicentro de un terremoto. Los italianos lo sabemos bien, habitantes de un área altamente sísmica e históricamente a menudo sin preparación para enfrentar las numerosas reconstrucciones obligatorias de un paisaje natural y antrópico comprometido irreversiblemente. Sin embargo, como explica Mario Mantovani, al trabajar en equipo es posible obtener muchos datos útiles sobre terremotos, identificar las áreas más sujetas a riesgos e intentar evitar los efectos catastróficos del terremoto, para mejorar solo los agentes de cambio. Como, por ejemplo, la investigación de expertos en áreas de riesgo, o el desarrollo de nuevas tecnologías destinadas a reducir el daño a las cosas y a las personas, además de la “cultura” del cambio por parte de la población, que podría ser “educada” para tratar estos eventos de la mejor manera.

Todas estas dinámicas que giran en torno al terremoto podrían repetirse y reconstruirse en el mundo del trabajo, como el epicentro de los cambios para la sociedad, a veces catastróficos e impredecibles, pero que siempre se pueden abordar de manera constructiva.

¿Cómo cambiará el mercado laboral? ¿Cuánto tiempo se pueden hacer pronósticos razonables? ¿Y cómo pueden abordarse juntos estos cambios de época, empresas y trabajadores? Es a partir de estas preguntas que Mario Mantovani propone tres escenarios posibles para el mundo del trabajo y, por lo tanto, de la economía. El primer escenario evolutivo es el del futuro inmediato, dentro de los próximos cinco años. El segundo es el dirigido a los contemporáneos, dentro de los próximos cincuenta años. El tercero, el más valiente y visionario, es el que supera los cincuenta años y nos coloca hacia panoramas y pronósticos más atrevidos, pero no imposibles.

En el primer escenario evolutivo del mundo del trabajo, en los próximos cinco años, Mario Mantovani traza el camino de una transformación organizacional y, en consecuencia, regulatoria, capaz de superar la distinción entre trabajo independiente y dependiente. Esta distinción histórica, no solo en nuestro país, combinada con la existente entre el sector público y el privado, a menudo ha llevado a la sensación de disparidad en nuestro sistema económico y productivo. Mario Mantovani tiene como objetivo eliminar estos límites, reales o aparentes, superando todos los obstáculos que han implicado hasta ahora, especialmente a nivel organizacional.

En el segundo escenario evolutivo, dentro de los próximos cincuenta años, Mario Mantovani prevé el nacimiento de la era de la robótica y analiza los efectos secundarios que esta revolución tecnológica tendrá en el mundo del trabajo y la sociedad.

La entrada en el tercer escenario evolutivo, el de un futuro más allá de los próximos cincuenta años, depende de la capacidad de mantener el equilibrio en el segundo escenario previsto. Las habilidades organizativas deben haber sido refinadas hasta tal punto en un período tan corto, que la era marcada por el control de las Inteligencias Artificiales se hizo lo más traumática posible, de modo que los modelos económicos que surgirán después de mediados de este siglo estén formados por las necesidades de hombre y no máquinas.

El análisis de Mario Mantovani es amplio, pero también lúcido y convincente. El autor parte de los conceptos básicos de nuestros eventos actuales, pero no teme lanzarse a futuras hipótesis distantes en el tiempo, capaces de soñar y planificar una mejora.

Lo más llamativo es el valor dado al trabajo en equipo completo en cada época pensada e imaginada. Solo trabajando juntos, de hecho, cada cambio será absorbido y hecho suyo, no sufrido y sufrido.

Recensione di Alessandra Rinaldi

Traduzione di Sara Trincali

Wonder: il delicato e incisivo coraggio di un Bambino

Augustus “Auggie” Pullman è un bambino di dieci anni che non è mai andato a scuola, istruito e protetto amorevolmente dalla sua famiglia. Ma all’alba della prima media lo aspetta una scelta ardita spinto dall’infinito coraggio dei genitori: andare in una scuola vera, con bambini reali, come un bambino normale.
Auggie è un bambino senazionale, che adora Halloween e sogna di fare l’astronauta, innamorato della scienza, sempre in compagnia del proprio casco da astronauta che lo protegge dal mondo reale e nasconde agli occhi del mondo la sua Sindrome di Treacher Collins. Supportato dalla famiglia prima e, man mano, dai suoi coetanei che si dimostreranno amici veri o ostacoli crudeli, vivrà l’anno più bello della sua vita (e anche di chi gli sta accanto), facendo del proprio meglio per dimostrare l’autentica grandezza del suo essere un bambino come tutti con un immenso carisma e una profonda forza interiore che gli permetteranno di superare ogni ostacolo.

Wonder, film del 2017 con la regia di Stephen Chbosky e con un cast di tutto rispetto che vede tra i protagonisti Owen Wilson e Julia Roberts, tratto da un romanzo di R.B. Palacio, ha ottenuto una candidatura agli Oscar e una ai BAFTA, nonché tre candidature ai Critics Choice Award.

Pellicola a metà tra il drammatico e il family-film, è un delicatissimo ed emozionante feel-good movie sulla tolleranza e sull’umanità, che ci ricorda di praticare la gentilezza ed accogliere le difficoltà di chi ci sta intorno e di noi stessi, in primis. Con toni gentili, scene sempre lineari e mai – soprattutto – propriamente drammatiche ma riconducibili alla vita di tutti noi, Wonder è la storia corale di tanti piccoli eroi.

Un bambino che desidera solo essere considerato un ragazzino di dieci anni come gli altri, ma con la (diversa) capacità di interrogarsi e interrogarci sul valore che diamo alle relazioni e sul nostro modo di guardare gli altri, in grado di affrontare l’ostinato bullismo scolastico che lo fa sentire e lo considera un diverso, l’intreccio delle prime vere amicizie e lo scontro con i primi nemici, mai veramente tali, che si incrontrano nella vita.

Una madre che, prima, mette in stand-by sé stessa per proteggere ed educare suo figlio, per non farlo mai sentire non all’altezza del mondo e nel mondo che lo aspetta oltre la porta, primo ed unico soggetto di tutte le sue illustrazioni e che, poi, di riflesso al coraggio di Auggie, torna a prendere in mano la propria vita terminando il suo – secondo – più grande progetto della vita.

Un padre perdutamente innamorato di suo figlio che con la sua ironia, riesce sempre a mostrare il lato positivo, ad essere il punto di riferimento di tutta la famiglia e il trampolino di lancio della moglie, di Auggie e sua sorella.

Olivia, prima figlia della coppia e sorella paziente, capace di essere sempre spalla e mai peso, costante raffigurazione di esempio e un manipolo di ragazzini, ognuno con le proprie caratteristiche, che mettono in scena la bellezza e la crudeltà del mondo reale e nel quale viviamo, la capacità di comprendere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato ma, allo stesso tempo, in grado di rappresentare la capacità di fare delle scelte.

E per quanto Auggie sia solo un bambino, interpretato dall’irriconoscibile Jacob Tremblay, racchiude in sé la rappresentazione di tutti i sentimenti che normalmente ci attraversano ogni qual volta ci troviamo di fronte a qualcosa di nuovo o, più comunemente, di fronte ad una difficoltà.

Il terrore di iniziare, il coraggio di lasciare e di lasciarsi andare, il bisogno ancestrale di sentirsi protetti, la capacità di adattarsi e di resistere, la volontà e il desiderio di essere sé stessi senza mai confondersi tra gli altri, la tenacia e la resilienza di andare avanti nonostante tutto, il sacrificio per arrivare alla conquista dei nostri obiettivi, la bellezza di assaporare il successo, nostro e di chi ci sta accanto, in ogni situazione e ad ogni costo.

Auggie è senza dubbio un guerriero che ci insegna come la più grande opera di bene che si può fare, è nel giusto uso della forza e che se non ci piace quello che vediamo, dobbiamo solo cambiare il modo di osservare.

Senza dubbio un film da vedere, insieme, in famiglia, istruttivo, emozionante. Delicatamente incisivo per renderci migliori.

Francesca Tesoro