Istituti Tecnici Superiori: il nuovo passe-partout per i giovani

Gli Istituti Tecnici Superiori (ITS) sono stati introdotti dal Dpcm del 2008 con la riforma della scuola e rappresentano, ormai, in modo consolidato un passe-partout per i giovani nel mondo del lavoro, forse anche più delle Università. Percorsi di Istruzione Terziaria di eccellenza e ad alta specializzazione tecnologica post diploma, rappresentano la sinergia e l’integrazione della formazione con il lavoro con le politiche industriali prevedendo percorsi formativi riferiti alle aree tecnologiche considerate prioritarie per lo sviluppo economico e la competitività del Paese.

Con un bacino di iscritti che si aggira intorno ai ventimila studenti di cui “solo” 3.761 si sono diplomati nel 2019, rappresentano un ottimo trampolino di ingresso nel mondo del lavoro per i giovani.

Il miglior modo per i giovani per accedere al mondo del lavoro: gli Istituti Tecnici Superiori

Il monitoraggio annuale effettuato dal MIUR e INDIRE ha dismostrato come, nonostante la pandemia e il lockdown, l’80% dei diplomati degli ITS ha trovato lavoro entro un anno dal diploma e, dato ancor più sorprendente, nel 92% dei casi l’impiego è stato una prosecuzione naturale del persorso “aula-onthejob” svolto dagli studenti. Il 60% dei contratti che hanno impegnato questi diplomati, sono nella maggiorparte dei casi a tempo indeterminato o in apprendistato, quindi, da ritenersi assolutamente stabili anche grazie all’Industria 4.0.

Istituti Tecnici Superiori: il nuovo passe-partout per i giovani – Sistema Generale

Il punto di Forza degli Istituti Tecnici Supriori è sicuramente la flessibilità organizzativa e didattica, il 41% delle ore del percorso formativo vissuto in stage e il 27% nei laboratori, nonché il fondamentale partenariato instaurato con 83 Fondazioni Its che fanno da anello di congiunzione tra la scuola e il mondo del lavoro.

Nonostante il mondo del lavoro, in via generale, si sia dovuto scontrare con la pandemia, la richiesta di super-tecnici da parte delle imprese italiane, in realtà, non è diminuita andando in contro tendeza soprattutto in quei settori chiave come il metalmeccanico, la moda, il legno arredo, il chimico-farmaceutico, dove all’alto tasso di domanda di personale specializzato non è stato possibile reperire soggetti qualificati e formati per ricoprire le posizioni vacanti.

La considerazione che viene riservata – dalla scuola, dalle famiglie e dai ragazzi – a questi istituti superiori post diploma non è ancora quella giusta, considerato che forniscono tantissime e validissime opportunità ai nostri giovani, soprattutto per accedere direttamente al mondo del lavoro, dove si stima che alle imprese servano quasi ventimila diplomati ITS ed invece, ogni anno, ne arrivano poco meno di cinquemila.

Francesca Tesoro

“Intelligenza Emotiva” di Daniel Goleman: un nuovo linguaggio delle emozioni

Di Daniel Goleman, giornalista americano classe 1946, psicologo specializzato nello sviluppo della personalità – materia di cui è stato anche professore ad Harvard -, scrittore di temi altisonanti quali la neurologia e le scienze comportamentali per il New York Times e con all’attivo una intera collana dedicata all’intelligenza emotiva e sociale, alla creatività e alla leadership, all’empatia e all’emotività, alle forze che compongono e costituiscono le cose e le persone senza scadere mai nel trascendentale incomprensibile, avevamo già recensito “Leadership Emotiva” qualche tempo fa.

Oggi aggiungiamo un nuovo tassello parlandovi di un altro suo libro, divenuto best seller e strumento di formazione trasversale sia per area geografica che per categorie professionali.
“Intelligenza Emotiva” edito dalla Best Bur è un volume scritto nel 1995 e pubblicato in America nello stesso anno che, dopo aver travalicato i confini nazionali e nel giro di un anno essere stato pubblicato praticamente ovunque, è rimasto profondamente attuale.

Scritto quando  la società civile americana viveva una devastante crisi sociale, con aumento della frequenza dei crimini violenti, dei suicidi e dell’abuso di droghe che trasversalmente coinvolgeva uomini donne giovani e adulti, questo scrittore ha messo nero su bianco quello che oggi, nonostante siano passati tanti anni, può essere definito un ottimo manuale per guarire (anche) quei mali sociali, prestando una maggiore attenzione alla competenza sociale ed emozionale delle persone.

Il suo enorme successo è stato dettato dalla capacità di questo scrittore di enucleare principi molto semplici e attuabili che riguardavano l’alfabetizzazione emozionale e che sono stati offerti strategicamente al mondo scolastico americano per interrompere la deriva sociale che si stava registrando credendo, come  è stato, che insegnando questi “sani principi” agli studenti, ne avrebbe giovato anche la società adulta indirettamente all’inizio e direttamente nel momento in cui quegli stessi studenti sarebbero diventati i nuovi adulti della società.

Per quanto azzardata poteva sembrare questa scelta, nella relatà dei fatti, il programma di alfabetizzazione emozionale diede immediatamente effettivi risultati tangibili e duraturi nel mondo studentesco, riuscendo ad elevare negli studenti la qualità e la capacità di affrontare i  turbamenti, di ascoltare o di concentrarsi, di tenere a freno gli impulsi, di sentirsi responsabili del proprio lavoro o di curare l’apprendimento.

Divenuto un pilastro fondamentale, non solo oltreoceano, del mondo dell’insegnamento – al punto che  è attualmente una delle materie di esame nei percorsi formativi dei docenti – rapidamente si è capito che l’Intelligenza Emotiva avrebbe potuto modificare in meglio anche i settori aziendali e manageriali.

Ebbene, ma se vi chiedessi di definire l’intelligenza emotiva, lo sapreste fare?
Come è stata definita dallo stesso autore l’“Intelligenza Emotiva” è quella particolare forma di intelligenza che ha consentito ai nostri lontani progenitori di sopravvivere in un ambiente ostile e di elaborare le strategie che sono alla base dell’evoluzione umana, e che può aiutare tutti noi ad affrontare un mondo sempre più complesso, violento, difficile da decifrare. L’intelligenza emotiva consente di governare le emozioni e guidarle nelle direzioni più vantaggiose; è la capacità di capire sentimenti degli altri al di là delle parole; spinge alla ricerca di benefici duraturi piuttosto che al soddisfacimento degli appetiti più immediati”.

Stiamo parlando sostanzialmente di un nuovo linguaggio delle emozioni che si può apprendere e perfezionare imparando a coltivare e riconoscere le emozioni proprie e quelle degli altri. È un qualcosa che, nella realtà dei fatti, dovrebbe essere insegnata nei bambini fin da piccoli perchè l’intelligenza emotiva può semplicisiticamente essere ricondotta al concetto elementare del “corretto uso delle emozioni” che rappresentano un fattore determinante anche per il raggiungimento dei successi personali e professionali di ogni persona. La capacità, infatti, di saper utilizzare correttamente le proprie emozioni, sapendole identificare, comprenderle, gestire, è indubbiamente lo strumento fondamentale per affrontare in modo nettamente migliore la propria vita, tanto personale quanto professionale.

Vi siete mai chiesti come le nostre emozioni possano influenzare i nostri percorsi, le nostre reazioni, al punto tale da ostacolarci completamente nella nostra capacità di agire o di decidere lucidamente? Per quanto possa essere difficile da accettare una cosa del genere, è davvero così.

Leggendo questo libro, ogni lettore può portarsi a casa tre grandi lezioni – di cui ovviamente non vi scriverò tutto, altrimenti non sarebbe abbastanza divertente per voi leggere Goleman-.

La prima: “L’autoconsapevolezza – in altre parole la capacità di riconoscere un sentimento nel momento in cui esso si presenta – è la chiave di volta dell’intelligenza emotiva”. Tradotto, l’intelligenza emotiva si basa sull’abilità di essere consapevole di sé stessi ed essere in grado di auto-equilibrarsi. Questo perchè ci sono sotanzialmente due aspetti fondamentali da considerare per essere emotivamente intelligenti: uno è essere consapevole della propria emotività essendo in grado di riconoscere e classificare le proprie emozioni, l’altra è la capacità di autocontrollarsi e regolarsi. Semplice a dirsi, può sembrare anche tautologico, ma se ci pensate è come iniziare a correre una maratona con un paio di infradito ai piedi. Comincereste a correre la maratona di New York con delle ciabatte ai piedi? Necessariamente dovreste cambiare qualcosa, o no?

La seconda: “Le persone competenti sul piano emozionale – quelle che sanno controllare i propri sentimenti, leggere quelli degli altri e trattarli efficacemente – si trovano avvantaggiate in tutti i campi della vita, sia nelle relazioni intime che nel cogliere le regole implicite che portano al successo”. Non è vero come è comunemente creduto che la cosa importate per avere successo nella vita è un quoziente intellettivo altamente performante e fatto di un numero stratosferico, al contrario, il raggiungimento della felicità è direttamente collegato alla propria intelligenza emotiva, questo perchè è in base a come noi gestiamo il nostro sé e mobilitiamo le nostre emozioni positive che ci proiettano verso un obiettivo.

La terza: “Se vuoi migliorare la tua intelligenza emotiva devi allenarti severamente a essere sempre ottimista coltivando il pensiero positivo in tutto quello che fai”.
Insomma, allenandosi duramente su questo aspetto – e su tutti gli altri, sia chiaro – sarà possibile sviluppare quella resilienza che caratterizza le persone dotate di un’elevata intelligenza emotiva.

Le persone emotivamente intelligenti, sono coloro che praticano nella vita di tutti i giorni autocontrollo, entusiasmo, perseveranza e automotivazione, creando un sistema di autoconsapevolezza delle proprie emozioni e del proprio modo di pensare.
L’autoconsapevolezza viene definita dallo stesso Goleman come quella “capacità di motivare sé stessi, persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo, evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare”.

Davvero, reimpostare questi aspetti nella propria vita significa migliorarla drasticamente? Decisamente si. Per ogni aspetto di cui abbiamo parlato, ci sono risvolti estremamente positivi che proviamo a sintetizzare in questo rapidissimo schema.

Alla AUTOCONSAPEVOLEZZA EMOZIONALE corrispondono la  migliore capacità di riconoscere e denominare le nostre emozioni, di comprendere le cause dei sentimenti, di riconoscere la differenza tra sentimenti e azioni.

Dal CONTROLLO DELLE EMOZIONI discendono la sopportazione della frustrazione, il controllo della collera, la capacità di esprimerle, affrontare lo stress, abbassando il senso di solitudine e ansia nei rapporti sociali.

INDIRIZZARE LE EMOZIONI IN SENSO PRODUTTIVO significa condensare un  maggior senso di responsabilità, capacità di concentrarsi sul compito che si ha di fronte e di fare attenzione, avere minor impulsività e maggiore autocontrollo, migliorando i risultati delle proprie prove.

Tutto questo, si condensa nella GESTIONE DEI RAPPORTI, riuscendo  ad avere una capacità di analizzare e comprendere i rapporti, risolvere i conflitti e negoziare i contrasti, acquisendo una maggior sicurezza di sé e nelle proprie capacità di comunicazione, raggiungendo un maggior livello di simpatia e socievolezza, abbassando l’individualismo e aumentando la collaborazione in gruppo, attraverso lo spirito di condivisione, di collaborazione e di disponibilità a rendersi utili agli altri, determinando nella maggior democrazia nel trattare con gli altri.

Insomma, una volta letto questo libro, si è tecnicamente pronti per iniziare questo allenamento e intraprendere la giusta strada verso la nostra felicità! E indubbiamente, verso un nuovo tipo di successo!!

Francesca Tesoro

Sistema Scuola: Alternanza scuola – lavoro, cos’è e come funziona

All’alba di un nuovo anno scolastico, parliamo dell’Alternanza scuola – lavoro in considerazione del fatto che migliaia di studenti si troveranno a viverla durante i prossimi mesi e con loro, i genitori.

Cos’è?

Parliamo di una attività didattica obbligatoria innovativa ed esperienziale dedicata agli studenti iscritti alla terza, quarta e quinta classe delle scuole superiori.

Regolata dalla legge n. 107/2015, meglio conosciuta come la Buona Scuola, ha l’intento di abbattere la distanza tra le scuole superiori e il mondo di lavoro, con lo scopo principale di “far provare” agli studenti il mondo del lavoro al quale si affacceranno dopo il liceo, qualsiasi esso sia. 

Infatti, per far orientare gli studenti rispetto gli ambiti lavorativi di competenza, i vari percorsi, seppur differenziati in base all’indirizzo dell’istituto, sono stati previsti sia per i licei convenzionali che per gli istituti tecnici e professionali.

Inizialmente dedicata agli studenti frequentanti il terzo anno nell’anno scolastico 2015/16, è stata estesa l’anno successivo agli studenti del quarto anno, per riguardare infine tutti quelli iscritti al triennio delle superiori a partire dall’anno 2017/18.

Ciò che differenzia maggiormente la tipologia dell’alternanza scuola-lavoro è la totalità di ore da svolgere durante il triennio: duecento ore per i primi, almeno quattrocento per i secondi.

Ciò che li accomuna sono i periodi in cui può essere svolta e il dove, oltre il fatto che, in modo assolutamente categorico, non determina il sorgere di un rapporto di lavoro tra studente ospitato e partner ospitante.

Che sia durante l’anno, nel periodo generalmente di vacanza o in quelli della normale sospensione didattica, in Italia o all’estero, l’alternanza scuola lavoro può essere svolta con le aziende del terzo settore o con gli ordini professionali,  con  gli istituti pubblici e privati operanti nei settori del patrimonio e delle attività culturali, ambientali artistiche e musicali, nonché con enti di volontariato o di promozione sportiva no profit. 

A decorrere dall’anno scolastico 2015/2016 é istituito presso le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura un Registro nazionale delle imprese scuola lavoro  per cercare i soggetti che offrono  percorsi di alternanza scuola-lavoro ed apprendistato.

Perchè il sistema fosse completo e totalmente regolamentato, nel dicembre 2017 è stato emanato il Regolamento che definisce la Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza scuola-lavoro con lo scopo principale di informare correttamente studenti e genitori, nel rispetto del dialogo costruttivo e di condivisione che deve essere alla base del rapporto scuola-famiglia.

Questa carta dei diritti e dei doveri prevede che ai ragazzi venga destinato un ambiente di formazione adeguato e sicuro, che miri alla crescita del singolo in modo coerente con il percorso scolastico intrapreso, affiancati da tutor destinati a seguirli durante tutto il periodo e sotto la vigilanza delle commissioni istituite presso ogni ufficio scolastico.

Infine è stato predisposto e previsto tutto l’ambito delle valutazioni di efficacia dell’intero percorso di alternanza scuola lavoro, svolto dallo studente interessato, dal dirigente scolastico che avalla il progetto, dalla commissione scolastica che garantisce e segue il percorso.

Come funziona?

L’alternanza scuola lavoro è un percorso fatto di tappe che lo studente affronta come singolo oppure come gruppo classe. 

Entrambe le tipologie hanno lo scopo di simulare la situazione lavorativa nel suo contesto originario ma, mentre nel primo sarà il singolo a vivere l’esperienza in tutte le sue sfaccettature, nei progetti destinati al gruppo classe ognuno può vivere una esperienza differente contribuendo al raggiungimento di un obiettivo finale comune legato al territorio.

Prima di tutto bisogna scegliere un percorso personalizzato che introdurrà i soggetti in una azienda o in un ente con l’ausilio di un tutor scolastico, il quale seguirà le successive fasi dell’esperienza. 

Scelto il percorso avviene l’incontro  materiale con l’azienda o con l’ente, affinchè lo studente prenda consapevolezza della scelta e sia pronto ad iniziare il percorso, anche e soprattutto dopo aver conosciuto il tutor aziendale o dell’ente. 

La terza fase riguarda invece il così detto piano formativo attraverso cui i vari soggetti coinvolti  stipulano e firmano il progetto dell’alternanza scuola lavoro per il suo svolgimento.

L’ultima fase, non meno importante, è quella della Valutazione finale sia per lo studente che per l’azienda. Il primo sarà valutato dalla scuola e dall’azienda che emetteranno un giudizio  sull’esperienza complessiva dello studente, rilasciando il Certificato delle competenze. La seconda, a sua volta, sarà valutata dalla scuola e dallo studente che dovrà certificare la reale formazione ricevuta.

I primi dati ufficiali

A maggio 2018 è stato rilasciato dal Miur il primo report ufficiale con la raccolta dei dati dell’alternanza scuola-lavoro per l’anno 2016/17 che ha toccato le scuole pubbliche e paritarie italiane, escludendo quelle della Valle d’Aosta e delle province autonome di Trento e Bolzano perchè non gestite dall’Anagrafe Nazionale degli Studenti. 

E dunque: 

nell’anno scolastico 2016/17 seimila scuole hanno svolto progetti di Alternanza scuola- lavoro;

più del 94% delle scuole statali in ogni regione ha attivato tali progetti;

76.246 progetti hanno coinvolto 937.976 studenti del triennio, nonostante  l’obbligatorietà non fosse entrata completamente a regime;

Lombardia, Piemonte e Lazio detengono il maggior numero di progetti di alternanza scuola lavoro attivati, mentre in  Molise e  in Umbria sono stati registrati i valori più bassi;

più dell’88% dei progetti hanno una durata annuale e i percorsi sono stati attivati per il 55% nei licei, per il 30% nei tecnici ed il restante 15% negli istituti professionali.

Insomma, un ottimo primo rapporto per questo progetto formativo di massa andato completamente a regime durante il passato anno scolastico, nonostante con l’avvento del nuovo governo si sia parlato di modifiche alla buona scuola.

Vedremo cosa cambierà e, nel frattempo, buon ritorno sui banchi a tutti gli studenti e ai professori, nuovi e vecchi.

Francesca Tesoro

Sistema Scuola: Vacanze Studio 2018, quanti studenti vivranno questa esperienza

A luglio dell’anno scorso abbiamo pubblicato un articolo che parlava delle Vacanze Studio dei ragazzi italiani compresi tra gli otto e i diciotto anni. Abbiamo raccontato cosa significa  per i ragazzi vivere questa esperienza e cosa c’è dietro, parlando dell’approccio sistemico che le società devono attuare necessariamente per organizzarle.

 

Quest’anno, a distanza di dieci mesi torniamo a parlare di questo argomento, ma da un altro punto di vista, quello tecnico.

Cosa avviene, infatti, tecnicamente? Come funziona il bando? Quali sono le tempistiche? E i numeri?

Sono queste le domande a cui cercheremo di rispondere, dati alla mano, forniti direttamente dall’analisi dei bandi e delle graduatorie pubbliche e pubblicate sul sito dell’Inps.

Come si arriva alla vacanza studio

Il bando Estate INPSieme 2018, dedicato ai giovani studenti italiani figli di dipendenti e pensionati della pubblica amministrazione iscritti alla Gestione Unitaria delle prestazioni creditizie e sociali,  della Gestione Dipendenti Pubblici o iscritti alla Gestione Fondo IPOST, anche quest’anno ha riguardato una nutrita fetta della popolazione iscritta alla scuola primaria e secondaria.

Il concorso, sia per il settore Italia che per quello Estero, è stato pubblicato il 18 gennaio, prevedendo nei due bandi le specifiche riguardanti la contribuzione e i requisiti per fare domanda. Dal mese successivo di febbraio fino al 2 marzo le famiglie hanno avuto il tempo di presentare tutta la documentazione necessaria per rientrare in graduatoria.

Sul finire del mese di marzo sono state pubblicate le graduatorie e le famiglie hanno così preso coscienza se i propri figli fossero o meno tra gli studenti che dovevano iniziare a fare le valigie.

Una volta rientrati in graduatoria, gli interessati hanno dovuto rispettare i tempi molto stretti per prendere accordi con le società organizzatrici dei viaggi e preoccuparsi di pagare i versamenti e i saldi per non perdere il beneficio. 

In attesa dei ripescaggi che inizieranno la settimana prossima, andiamo a vedere i numeri di questo concorsone per studenti.

INPSieme, quali numeri? 

Il settore Italia e il settore Estero sono stati interessati da due bandi differenti reperibili sul sito dell’Inps e, per la stagione 2018, sono stati previsti un totale di 36.250 posti suddivisi in 12.820 per l’Italia e 23.430 per l’Estero.

Grandi numeri di certo, ma i numeri di coloro i quali hanno presentato domanda sono ben superiori e per capire bene, converrà usare qualche schema e qualche tabella.

Iniziamo con lo specificare la differenza tra Italia e Estero.

I soggiorni in Italia riguarderanno gli studenti iscritti alla scuola primaria e alle medie che potranno avvalersi di vacanze da otto o quindici giorni.  Avranno lo scopo far acquisire competenze nei settori relativi allo sport, arte, lingua straniera, scienze e tecnologia o ambiente. Questi ambiti possono svolgersi in accoppiamento e devono prevedere almeno dieci ore settimanali di attività specifiche per ogni tema caratterizzante il soggiorno, dovendo includere attività di conoscenza del territorio ospitante. 

Invece, il bando per l’estero è stato previsto per gli studenti iscritti alle scuole superiori, facendo una divisione tra coloro i quali frequentano il primo anno o quelli successivi. In entrambe i casi sono previsti periodi di permanenza di quindici giorni che permettono di raggiungere mete europee o extraeuropee dove poter studiare la lingua ufficiale del paese di destinazione, alloggiando in college o presso famiglie straniere selezionate. A seconda della destinazione e della tipologia di corso di lingua che le famiglie hanno scelto in accordo con le società, si potranno frequentare corsi linguistici con insegnanti madrelingua più o meno intensivi. In casi determinati, oltre al semplice corso di lingua possono essere svolti corsi dedicati per le certificazioni di lingua internazionali o le famose ore dell’alternanza scuola lavoro. Anche in questa tipologia di soggiorni, particolare importanza e attenzione viene posta sulla conoscenza del paese ospitante attraverso attività di interazione ed escursioni e su profili di internazionalità e scambio culturale. 

Se poi, al di là di questi tecnicismi di cui abbiamo scritto fino ad ora,  la vostra curiosità è tutta per i numeri, vi accontentiamo subito e con due semplici schermi di facile lettura: troverete, da sinistra, indicati i posti in totale messi a concorso per ogni bando, la divisione per categoria con indicati i rispettivi posti disponibili ed infine quante persone  sono rientrate in graduatoria per ogni categoria.

Italia

Estero

 

Non c’è bisogno di ulteriore spiegazione sul valore sociale di questi bandi.

Sostanzialmente, uno studente ogni tre ha potuto fare domanda per accedere ai bandi INPSieme.

Statisticamente un terzo di coloro i quali sono in graduatoria, partiranno. 

Per coloro i quali mancavano i requisiti per partecipare al bando, le società hanno previsto la possibilità di partire come aggregati, cioè partire con l’amichetto, il parente o il conoscente che ha beneficiato del contributo Inps al costo dell’intero pacchetto.

Insomma, anche questa prossima estate gli studenti italiani potranno essere classificati come un popol(ett)o viaggiatore.

Francesca Tesoro

Sistema Scuola: Università all’estero? Vi racconto la mia esperienza

La scelta di frequentare o completare l’Università all’estero è una tendenza in rapida e recente crescita in Italia: dati del MIUR rivelano come nel 2015 il 3,1% degli studenti italiani abbia intrapreso un percorso universitario oltre confine, a fronte di un 2,9% dell’anno precedente. Nel 2006 la percentuale era dell’1,5%. Secondo la società di consulenza Omni Admissions, il 42% degli studenti che partono hanno scelto il Regno Unito, il 26% gli USA, il 32% un Paese europeo. All’interno di questi dati, diversi sono i profili, l’età e le motivazioni.

Il mio progetto di conseguire un Master nel Regno Unito è giunto in una fase particolare, forse insolita, della mia vita. Non ero una diciottenne fresca di banchi di scuola, piuttosto lontani i ricordi delle versioni di greco e latino, gli struggimenti adolescenziali, quel fecondo caos emotivo e intellettuale che giocava a creare immagini del mio futuro come ombre cinesi.

università

Avevo, invece, qualche anno in più speso tra autoconsapevolezza e disillusione. Dopo una laurea triennale in Scienze Politiche e una Specialistica in Relazioni Internazionali alla LUISS, il mio bagaglio di amore per gli studi sociali e internazionalistici, di conoscenze e di incertezza uscivano tutti rafforzati. Cosa ero brava a fare, con cosa mi ero misurata, fuorché digerire stoicamente manuali e sfoggiare analisi di politica internazionale?

Mi sono districata nella giungla degli uffici di supporto alla ricerca di lavoro dell’Università, delle candidature di lavoro, CV e lettere motivazionali per qualche anno, collezionando tre, quattro stage e un breve contratto di consulenza nel settore della Cooperazione Internazionale. Dovunque ho lavorato, la percezione che non ci fosse alcun interesse nel farmi restare oltre il presente contratto. È iniziato un periodo di confusione, progressiva chiusura in me stessa. Congiuntura economica, circostanze socio-culturali del mio paese, seri problemi familiari che mi hanno investito in quegli anni, o semplicemente io che non ero nel posto (settore) giusto? La confusione cresceva, alimentata dal cambiare e cambiare lavoro, che rendeva difficile (impossibile) consolidare competenze e capire cosa volessi, potessi, dare.

Dovevo specializzarmi. L’illuminazione, e la voglia di mettermi in gioco arrivarono nelle lunghe pause di un lavoro meccanico e routinario (facevo nientemeno che i controlli di sicurezza in aeroporto in quel periodo). Sarei ripartita da ciò che ho sempre amato fare: scrivere. La curiosità di varcare i confini, della mia mente, del Paese, di ciò che conoscevo, un partner con la cittadinanza americana. Misi insieme i pezzi di questo puzzle un po’ delirante e feci domanda per il Master in Giornalismo Internazionale della School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra.

università

Appena trasferita, mi resi conto dell’unicità di quella scuola, di quanto rappresentasse allo stesso tempo Londra e una finestra speciale sul mondo. Con il mio inglese ancora un po’ incerto, mi trovai immersa in una girandola di visi, colori, accenti, sorrisi. Tutto era nuovo, le ragazze velate in aula, dietro le scrivanie degli uffici amministrativi e in biblioteca. A tanto non avevo mai dato un volto prima. Paesi, culture la cui immagine era unicamente tracciata nella mia testa dalle pennellate monodimensionali e sensazionalistiche dei mass media avevano ora volti e mille storie diverse da raccontare.

La scuola era una potente cassa di risonanza delle ‘storie meno raccontate’: dibattiti, conferenze, proiezioni e concerti, cogestiti da studenti e professori, confluivano tutti nell’obiettivo di scardinare una visione eurocentrica del mondo, di offrirne una più pluralistica, non deformata dai media occidentali; per rifarsi a un gergo molto amato in SOAS, di ‘decolonizzare’ il nostro modo di guardare la realtà.

Ricordo l’approccio didattico, traumatico per me. Piccoli gruppi di studenti sparsi intorno a molti banchi vuoti. Il professore seduto sulla cattedra, cosi vicino, che chiede cosa pensiamo delle letture assegnate per quel giorno. Chiede non le teorie, né se è tutto chiaro. Chiede un dialogo, un contraddittorio sui testi di Barthes, di Gramsci. Ricordo quanto mi sentissi impreparata a esprimere il mio parere a un docente su un piano di parità. Lo stupore e il turbamento di sentire la mente totalmente vuota. L’inibizione, l’insicurezza. La difficoltà linguistica. Il fare incoraggiante e gentile dei professori, le loro risposte pressoché istantanee alle nostre email.

Ricordo Elisa, la prof. più amata del mio corso, con cui avevo l’invidiato privilegio di poter parlare a tu per tu in lingua madre. Il suo sguardo gentile, il suo ciuffo di capelli blu. Svolgeva ricerca sull’utilizzo delle tecnologie digitali presso comunità rurali in Cina. Il suo corso, ‘Global Digital Cultures’, ha affrontato una serie di tematiche etiche e culturali legate all’era di Internet e delle moderne tecnologie della comunicazione. Ricordo il suo interesse per le nostre storie, il nostro bagaglio personale di idee e credenze, la sua curiosità e apertura, che contrastavano in modo affascinante con la sua timidezza.

università

Ricordo quanto, ai miei occhi di ex-studentessa italiana, sembrasse uno (splendido) film di fantascienza il fatto che la SOAS avesse un intero Dipartimento dedicato al benessere psicologico dello studente. In Regno Unito la salute mentale giovanile e’ una piaga sociale. Ma anche nella mia esperienza e in quelli di molti amici, la vita universitaria si carica spesso di difficoltà e disagio. Nella Scuola di Studi Orientali e Africani di Londra, in piu’, problemi di integrazione in un paese straniero e nel suo sistema didattico, solitudine e alienazione sono tutt’altro che insoliti per gli studenti.

I motivi sono tanti e ci sono tutti, dunque, eppure a me sembrava fantascienza. Personalmente, ho seguito degli incontri pomeridiani di meditazione, e un singolare workshop di due ore sulla ‘procrastination’ (non potevo credere che qualcuno avesse pensato a un workshop per chi ‘soffrisse’ della tendenza a rimandare gli impegni accademici). Mentre ero in Italia per le vacanze di Natale, sono stata investita da un lutto familiare. In quell’occasione, mandai un’email agli uffici competenti per sapere se era possibile posporre le scadenze di alcuni lavori scritti. L’email di risposta, oltre ad accogliere la mia richiesta, mi informava in modo discreto dei servizi che il Dipartimento di supporto psicologico offriva in circostanze come le mie.

L’esperienza è stata assolutamente unica sotto il profilo umano e intellettuale, e radicalmente diversa da quella italiana. Mi ha offerto prospettive totalmente nuove sulla realtà, e rivelato la conoscenza non come un prodotto finito da esibire, ma come dialogo. Ho toccato con mano un sistema in cui il dubbio, la difficoltà e la crisi sono considerate parti naturale del processo di formazione e come tali sono prese in carico, al fine di non lasciare nessuno indietro.

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Lungi da me disprezzare l’Università del mio Paese, perché è stato grazie a essa e all’intero sistema scolastico italiano che ho affrontato il Master preparata e sicura di alcuni fondamentali strumenti, in particolare della capacità di analizzare e interpretare il mondo. Alla prova dei fatti, durante il Master ho elaborato saggi e un progetto di tesi che univano le mie idee alla capacità di argomentare in modo analitico e coerente, e che per questo sono stati accolti con entusiasmo.

Eppure, non potrò dimenticare lo shock, e la sensazione di inadeguatezza durante molte lezioni, quando, spinta ad offrire idee e spunti personali sulle teorie studiate, ho sentito la mia mente come una tabula rasa. Non solo io. Molti sembravano affetti dalla stessa sindrome (tra di essi, molti studenti orientali, mentre più disinvolti in assoluto apparivano, senza sorpresa, gli statunitensi). Resta un mistero quanto di questo fosse dovuto a timidezza, quanto alla lingua. A me ha fatto pensare a quanto tempo ed energia abbia speso, durante il mio percorso di studi in Italia, nell’imparare a comprendere e riportare teorie e nozioni, e a quante volte sia stata invece spinta, stimolata a darne la mia visione. Quante volte la modalità di valutazione, dalle elementari all’Università, sia stata incentrata sulla verifica della mera comprensione e apprendimento, piuttosto che sulla discussione critica. Nella mia esperienza, il confronto è, purtroppo, impietoso.

Non voglio neppure santificare la mia esperienza qui in Regno Unito. Insospettabilmente, la scuola si è dimostrata farraginosa in più di un’occasione sotto il profilo organizzativo e burocratico. Non tutti i docenti del mio corso, pur affabili e privi della quella tipica autoreferenzialità di casa nostra, si sono dimostrati professionalmente validi. Al momento attuale sono in attesa dei miei ultimi risultati e la SOAS deve ancora passare lo spinoso esame del supporto nella ricerca di lavoro, al cui solo pensiero, ancora una volta, tremo.

università

Alcune delle cose che porterò con me di questo anno sono una gioiosa e chiassosa fioritura di nuovi e diversi interessi, vissuti attraverso i legami di amicizia con persone distanti per nazionalità e cultura; la curiosità di mettere in discussione le letture più tradizionali della realtà e di chiedermi, quando ascolto una storia che avviene a migliaia di chilometri da me, se ci sono altri modi di raccontarla.

Forse più di tutto, una prospettiva sulla conoscenza più intimamente connessa con l’apertura e la ricerca, che con il contenuto, meravigliosamente (e ironicamente) riassunta in una frase che Elisa, la professoressa italiana, ci disse a fine corso: “A questo punto della vostra carriera di studi, quello che vi auguro non è di avere le giuste risposte, quanto di farvi le giuste domande.”

Chiara Marandino

 

Sistema Scuola: le Vacanze Studio all’Estero

Sistema Scuola è molto più di quanto si possa racchiudere concettualmente in due parole e, come sapete, ha l’obiettivo di farci conoscere più da vicino il mondo dell’educazione. Così, abbiamo parlato degli studenti che vivono il mondo della scuola, dei docenti e del personale non docente, fondamentali per far sì che il mondo della scuola funzioni il meglio possibile, abbiamo scritto del metodo Montessori e del suo approccio sistemico all’educazione del fanciullo, abbiamo presentato lo Scautismo che, parallelamente alle istituzioni scolastiche, fornisce una via educativa di crescita.

Oggi scriveremo per voi delle Vacanze Studio all’estero.

Avete mai vissuto una vacanza studio all’estero? Conoscete qualcuno che ha avuto questa possibilità? Se non fosse così, dalla mia camera di un college inglese, vi racconterò cosa sono, cosa significano per i ragazzi e tutto quello che celano agli occhi degli altri.

Le vacanze studio all’estero, possono essere considerate un perfetto esempio di approccio sistemico dal momento che racchiudono in sé una complessità dinamica legata a fattori non certo di poca importanza. Prima di tutto ci sono i ragazzi che vivranno una esperienza di vita lontani da casa con persone che non conoscono, poi ci sono i luoghi, perchè vivere all’estero un determinato periodo di tempo, significa dover riuscire ad integrarsi in contesti sconosciuti, dediti all’internazionalità, seguire nuove regole e conoscere altre realtà, non solo personali o geografiche.

Ci sono persone e società che lavorano assiduamente affinchè tutto segua i piani prefissati e programmati, perchè siano fornite tutte le occasioni necessarie e non solo per rispettare i contratti che ogni anno vengono siglati. C’è una profonda interazione tra soggetti, fisici e non, italiani e stranieri, che costruiscono le vacanze studio servendole ai ragazzi come una porta sul mondo per educare ed educarsi da protagonisti.

Fare una vacanza studio significa entrare in un mondo quasi parallelo, lontani dagli affetti, innestando relazioni con persone che vengono da altre parti del mondo e che hanno vite vissute alle spalle decisamente differenti. Significa frequentare dei corsi di inglese con classi internazionali, dove è richiesto il massimo impegno per seguire le lezioni. Condividere l’appartamento e la mensa, le attività e i singoli momenti del soggiorno con persone di altre culture, facendosi un po’ le ossa per diventare delle persone migliori che sanno viversi e godere ogni minuto della giornata nel rispetto degli altri e delle regole del paese ospitante.

Vivere una vacanza studio in un college significa alzarsi ogni mattina e vivere un turbinio di emozioni da togliere il fiato e non solo perchè i tempi siano particolarmente densi e ravvicinati.

I ragazzi vivono tutto questo, come un bellissimo gioco, ma dietro si nasconde un mondo complesso di coordinazione e organizzazione, programmazione e progettazione, in pieno approccio sistemico appunto.

Chi lavora dietro le quinte di questo sistema educativo parascolastico sa bene che la stagione non inizia quando l’estate è alle porte. Si avvia ben prima, quando bisogna trovare il college adatto, prendere contatti e contrattare con le istituzioni locali, con le compagnie aeree e dei trasporti privati, quando bisogna mettere nero su bianco il progetto scolastico, considerando che i corsi di lingua sono l’ossatura principale delle vacanze studio e devono avere quel qualcosa in più rispetto le lezioni che si potrebbero frequentare comodamente nelle proprie città ad un paio di chilometri da casa. Le vacanze studio risultano essere dunque un sistema decisamente complesso, dove necessariamente bisogna occuparsi, con realistica obiettività, di ogni singolo aspetto senza sottovalutare nulla.

Ci sono le famiglie, che vogliono il meglio per i propri figli e alle quali bisogna fornire tutta l’assistenza necessaria prima, durante e dopo il soggiorno.

Ci sono le persone che lavorano con i ragazzi che devono essere scelte nella massa per le loro competenze, capaci di saper vivere e condividere con i ragazzi una esperienza fuori dal comune, in grado di gestire i partners stranieri e fare in modo che non si verifichi mai un problema e, al suo eventuale materializzarsi, riuscire risolverlo in un batter d’occhio, senza alcuna ricaduta sugli attori principali, i ragazzi.

E quando tutti i pezzi di questo puzzle hanno i propri contorni ben definiti e si incastrano alla perfezione con gli altri, inizia la vacanza studio all’estero, con al centro di tutto i giovani tra i dieci e diciotto anni che ogni estate partono in migliaia, che vivono appieno questa esperienza pervasi da una voglia irrefrenabile di non lasciarsi scappare nessuna occasione.

Quando arrivano li vedi sempre un po’ impauriti e timorosi di non conoscere nessuno, preoccupati di sentire la mancanza di casa, di non capire a sufficienza la lingua, vergognosi in certi casi di partecipare alle attività sportive per non mettersi in mostra.

Poi li vedi crescere e cambiare giorno per giorno, imparano a mettersi in gioco e si fanno trasportare. Vedi adolescenti di diverse nazionalità che, in certi casi con l’aiuto di un traduttore sui loro smartphone, intraprendono chiacchierate con altri coetanei venuti da chissà dove. Si raccontano storie, dialogano dei rispettivi paesi e delle proprie tradizioni. Parlano dei loro sogni e delle loro aspettative, delle loro insicurezze e delle loro paure, masticando una lingua che sono venuti a studiare, farcendolo con errori di pronuncia a tratti divertenti.

Una vacanza studio diventa, inaspettatamente, il terreno su cui fioriscono relazioni internazionali da fare invidia ai capi di stato in lotta tra loro e così vedi i ragazzi, normalmente abituati ad odiare i vicini di confine, giocare con chi politicamente è classificato come un nemico, divertirsi, abbracciarsi, frequentare la stessa classe e mangiare insieme ad un tavolo della mensa. I più grandi li scopri anche parlare delle situazioni politico sociali, intenti nell’immaginare i propri paesi diversi da come sono attualmente, se solo i potenti facessero una cosa piuttosto che un’altra.

Ci si scambia i numeri di telefono, ci si promette di rivedersi e qualcuno ci riesce davvero.

Si stringono in abbracci frenetici quando capiscono che il tempo a loro disposizione sta per finire, prima che ognuno rientri nelle proprie case, magari nell’altro emisfero.

Sanno che forse non potranno più rivedersi, ma sono tutti consapevoli di aver imparato molte più cose in queste due settimane che in un anno di scuola.

Un soggiorno dura due settimane per il tempo della terra, ma sono anni nel tempo del cuore.

Così ogni quindici giorni la macchina riparte, un aereo decolla e atterra a destinazione, i ragazzi arrivano in college che diventerà la loro casa, saranno accolti da chi li attende e li guiderà per i giorni a seguire, conosceranno gente, frequenteranno le lezioni, faranno le diverse attività quotidiane, si divertiranno e si stancheranno durante le escursioni e ogni sera si addormenteranno con il sorriso sulle labbra in vista del giorno successivo, pieno di novità ed emozioni.

Vivere una vacanza all’estero significa partire ragazzi e tornare un po’ più adulti, con amici sparsi nei vari paesi e tante nuove idee su di sé e sugli altri, rendendosi conto di quanto sia vario il mondo, andando oltre lo schermo di un cellulare o di un televisore, imparando a conoscerlo con gli occhi degli altri.

In pieno approccio sistemico.

Francesca Tesoro

Sistema Scuola: il Metodo Montessori

montessori1Dopo aver girato il mondo analizzando come è nato e come funziona lo Scautismo, torniamo momentaneamente sui banchi di scuola per capire meglio in cosa consiste il Metodo Montessori, un vero e proprio approccio sistemico all’educazione del fanciullo tutt’oggi innovativo e che mette al centro il ragazzo con le sue potenzialità, esigenze e attitudini.

Tra le prime donne medico in Italia, Maria Montessori è stata pioniera in molti campi, a cominciare dalla sua vita professionale, sempre protesa verso l’innovazione e libera da aspettative e pregiudizi, fino alla sua vita privata, all’insegna del progresso e dell’emancipazione femminile.

montessori2Il suo interesse per l’educazione dei bambini, a partire da quelli più disagiati, nasce proprio grazie al suo ruolo di scienziata, tanto che il metodo scientifico, fatto di evidenze riconoscibili a tutti e sperimentabili su larga scala, la guiderà sempre anche nelle sue scelte di educatrice, portando al successo in tutto il mondo il suo approccio educativo, ancora oggi tra i più ammirati anche all’estero.

Sfrondato e alleggerito dai limiti del tempo trascorso, infatti, il metodo Montessori è tuttora tra i più utilizzati al mondo, anche e soprattutto nelle scuole del Nord Europa, spesso più all’avanguardia delle nostre. Sono numerosissime le scuole dell’infanzia, primarie, secondarie e perfino le università che abbracciano questo metodo in tutto o in parte, o che ad esso si ispirano per la strutturazione degli ambienti didattici o dei programmi di studio.

montessori3Il primo passo per l’applicazione del metodo sta proprio nella costruzione dell’ambiente che circonda il fanciullo nel quale tutto è all’insegna della natura e della naturalezza, ma nulla è lasciato al caso. È significativo, infatti, che il nido e la scuola dell’infanzia ideata da Maria Montessori sia stata chiamata Casa dei Bambini, proprio per indicare un ambiente nel quale il bambino è il vero padrone in grado di muoversi in autonomia in base ai suoi tempi e ai suoi interessi e l’adulto educatore è soltanto una figura di supporto e, quando necessario, di supervisione.

L’ambiente di apprendimento Montessori è caratterizzato da materiali e attività ideate per stimolare e favorire l’interesse dei ragazzi in ogni materia e in ogni campo, permettendo prima di tutto ai bambini di dedicarsi individualmente ai compiti che loro stessi scelgono, favorendo l’auto-correzione degli errori e unendo l’aspetto meramente cognitivo dello studio con quello fisico e più strettamente pratico legato all’attività che si sta svolgendo, in modo equilibrato. Solo così il fanciullo scopre le proprie potenzialità e propensioni, autodisciplinandosi, perché tutto attorno a lui è costruito a sua misura, e mettendosi alla prova nella concentrazione e nell’impegno prima individuale e, successivamente, di gruppo classe.

montessori4Il pensiero pedagogico di Maria Montessori raccomanda, dunque, di creare un ambiente scientificamente idoneo a favorire non solo lo sviluppo cognitivo del bambino, dal punto di vista didattico, ma anche le sue abilità sociali e morali. Proprio per questo è importante che non solo le aule, ma l’intero edificio scolastico siano accoglienti e confortevoli, per far comprendere ai ragazzi che è possibile apprendere con piacere, senza ricorrere né a punizioni, né a premi. Ogni progresso, così come ogni battuta d’arresto, fanno parte di un percorso ben preciso e ben chiaro nella mente degli educatori che dovrebbero guidare tenendo per mano e non trascinando, rispettando così i tempi e l’individualità del singolo. L’obiettivo è favorire l’equilibrio mente-corpo, la creatività, la curiosità e l’intelligenza intesa nel senso etimologico del termine come capacità di leggere dentro le cose, facendole proprie.

I docenti, quindi, anche in qualità di lavoratori, sono guida ed esempio per i bambini. Sono presenti per semplificare e non per complicare concetti ed esercizi e danno l’esempio di autocontrollo, autodisciplina ed ascolto aperto dei loro ragazzi. Mostrano l’utilizzo dei materiali e spiegano, ponendo gli allievi di fronte alla possibilità di una vera e propria relazione educativa e non di un rapporto a senso unico tra insegnante e alunno.

montessori5Sono proprio questi i concetti base che caratterizzano l’approccio sistemico del metodo Montessori: scienza, equilibrio, autoregolazione. Relazione tra ambienti, persone e materie di studio nel rispetto delle individualità che compongono il gruppo. Concetti che favoriscono il fanciullo nel suo cammino verso l’età adulta e nella scoperta di se stesso in qualità di animale sociale e che dovrebbero rispecchiare i futuri equilibri degli ambienti di lavoro a favore della produttività, del progresso e dell’amore per la civiltà.

www.fondazionemontessori.it

Alessandra Rinaldi

Sistema Scuola: Scautismo, un movimento che rende i ragazzi protagonisti

Dopo aver analizzato dettagliatamente come è composto il Sistema Scuola  nel nostro Paese, avendo dato voce a ciascuno dei protagonisti che lo vivono quotidianamente, continuiamo il nostro viaggio in questa realtà che abbraccia mondo del lavoro, della cultura e della civiltà nel senso più profondo del termine, esaminando alcuni esempi di sistemi educativi, sia scolastici, sia parascolastici, che mettano al centro i ragazzi e siano caratterizzati da un approccio sistemico collaudato e ben definito.

La prima metodologia alla quale ci siamo dedicati, sempre attuale e innovativa, nonostante le sue origini risalgano ormai ai primi del Novecento, è lo Scautismo, una realtà che, da sempre, si focalizza sullo sviluppo sano ed equilibrato dei ragazzi, sia come singoli individui, sia come componenti di un gruppo forte e coeso.

Premesso che nel mondo ci sono oltre 38 milioni di bambini, ragazzi e adulti, donne e uomini, che, in 216 paesi e territori del mondo sono scout, che cos’è lo Scautismo?

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Si tratta di un movimento educativo non formale, promosso e composto da giovani, che si propone come obiettivo la formazione integrale della persona secondo i principi ed i valori definiti dal suo fondatore Lord Robert Baden-Powell, e risulta essere, ancora oggi, la più numerosa forma di associazionismo trasversale presente al mondo e con la maggior diffusione territoriale.

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La particolarità dello Scautismo è l’essere un vero e proprio stile di vita che impegna i bambini dagli otto anni in poi, promuovendo la loro educazione fino alla maggiore età e oltre, attraverso un metodo che cresce con il crescere del bambino, fatto di fantasia e simbolismo, gioco e condivisione, avventura e vita all’aria aperta, di vita comunitaria e di servizio agli altri, senza mai discostarsi dal principio educativo dell’imparare facendo, della fraternità e dell’essere di esempio agli altri attraverso il trapasso delle nozioni.

Al centro dello Scautismo c’è sempre il ragazzo, che per ogni fase della propria crescita, vive la metodologia scout nel contesto delle unità di appartenenza che rispecchiano la maturità personale e sociale del singolo, calando su di esso gli strumenti appositamente individuati per favorire lo sviluppo psicofisico del singolo in un contesto di vita comunitaria a stretto contatto con gli altri e con la natura, sotto la guida di capi adulti volontari e formati.

Il metodo Scout prevede la divisione in fasce d’età chiamate Branche.

Dagli otto agli undici anni le bambine e i bambini vivono l’appartenenza al Branco o al Cerchio, come Lupetti o Coccinelle dove, attraverso i racconti del Libro della giungla riadattato dallo stesso Baden-Powell o quelli appartenenti al libro Sette Punti Neri scritto da Cristiana Ruschi Del Punta, vivono la loro crescita in un ambiente fantastico che li guida e li conduce all’adolescenza.

Attraverso questi racconti ed il loro simbolismo, vengono forniti al bambino una serie di spunti ed insegnamenti pedagogici che lo accompagnano fino al passaggio nella branca successiva, divenendo e rimanendo una parte fondamentale di sé, ispirandoli ed invogliandoli, seppur nel rispetto della loro età, a porsi come esempio per i più piccoli, a condividere esperienze di vita, a coltivare i propri talenti.

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Dai dodici ai sedici anni le ragazze e i ragazzi vivono l’esperienza del Reparto, come Guide o Esploratori, i quali suddivisi in sottogruppi monosessuali e trasversali chiamati Squadriglie, fanno esperienza di vita comunitaria e a contatto con la natura, in stile avventuroso, specializzandosi secondo le proprie abilità ponendole al servizio di tutti gli altri, secondo i valori della scoperta, dell’essere competenti e responsabili, tanto di sé quanto di chi gli viene affidato.

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Con lo scadere dell’adolescenza, gli Esploratori e le Guide, vengono accolti nel Clan come Rovers e Scolte, creando come amava definirla Baden-Powell “una fraternità all’aria aperta”. I ragazzi divenuti ormai adulti in questa branca sono chiamati a vivere pienamente il servizio verso gli altri, il cammino e la vita di comunità, che li condurrà al momento più importante per uno scout, la Partenza o l’Uscita, che segnano il termine del loro cammino come educandi.

A tale punto della propria vita Scout, il singolo può scegliere liberamente se aderire pienamente al Patto Associativo e diventare a propria volta un educatore, pronto a svolgere il proprio servizio in modo pieno e volontario, oppure può decidere di dedicare la sua vita ad altre forme di volontariato.

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Divenuto ormai adulto, il bambino o il ragazzo che aveva iniziato e decide di continuare a giocare il gioco dello Scautismo, diventa un Capo, ponendo se stesso al servizio della Comunità Capi che lo accoglie e che lo guida nello svolgimento delle attività con i ragazzi e nell’iter di formazione personale, per diventare un capo formato e competente.

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La bellezza dello scautismo sta nel fatto che, pur identica per tutti i ragazzi del mondo, è vissuta nei diversi contesti culturali e religiosi, perché i suoi principi ispiratori restano, nonostante siano passati più di cento anni, universali e sono sintetizzati nella Promessa, nella Legge Scout e nel Motto che rendono milioni di persone Fratelli e Sorelle in tutto il mondo, passando oltre qualsiasi differenza. Attraverso la Promessa e la Legge Scout il ragazzo non solo “entra a far parte della grande famiglia degli Scouts”, ma si impegna di fronte al mondo, forte della fiducia che sente riposta in lui e della libertà con cui aderisce a questo ideale, per giocare un ruolo responsabile nella vita, mettendo in gioco il suo onore, pronto a camminare lungo questa strada impegnativa, con la consapevolezza che l’importante non sarà mai l’essere arrivato ma fare del proprio meglio.

“Una volta scout, sempre Scout”

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Francesca Tesoro

Sistema Scuola: Insegnanti e Territorio

territorio 1Continua la nostra indagine sul campo circa il mondo della scuola come sistema composto da tanti organi che formano un unico corpo che deve essere il più sano e forte possibile. Dopo aver affrontato i punti di vista di studenti, generazioni di insegnanti e personale non docente, torniamo ad ascoltare gli educatori per capire quanto la scuola di oggi, sempre più propensa verso tecnologia e progresso, sia effettivamente integrata e ancorata sul territorio su cui sorge e opera. Come ogni organismo vivente, infatti, non può prescindere dalle condizioni ambientali in cui nasce e proprio a queste deve adattarsi, se vuole vivere ed evolversi, altrettanto dovrebbero fare i singoli istituti scolastici. La conoscenza e la consapevolezza del background che li circonda è fondamentale affinché ogni sistema scuola funzioni e sappia ascoltare e valorizzare ogni suo prezioso componente.

I testimoni di oggi sono Ilaria e Laura, due insegnanti di ruolo di scuola dell’infanzia e primaria nel pieno della loro carriera lavorativa, che operano in due piccole realtà del centro Italia, tra il Lazio e la Toscana, non lontano dai rispettivi Capoluoghi di Regione. Anche questa volta, per garantire la loro riservatezza, le chiameremo con nomi di fantasia, senza specificare luoghi e istituti scolastici di provenienza, riportando, tuttavia, fedelmente, quanto raccontato dalle insegnanti nelle interviste che seguono.

Dalle risposte che Ilaria e Laura hanno dato alle nostre domande si deduce che l’analisi dell’attaccamento effettivo al territorio da parte degli istituti scolastici può essere fatta da due punti di vista: esaminando il fattore ambientale naturale, da una parte, e quello antropico e culturale, dall’altra. I bambini e i ragazzi di oggi, infatti, vengono sensibilizzati dalla scuola, non senza impegno e fatica, a prestare maggiore attenzione e rispetto, sia verso l’ambiente naturale che li circonda e nel quale la loro scuola sorge fisicamente, sia verso il contesto umano che caratterizza le loro origini come cittadini, e quindi studenti, su un determinato territorio. Le principali difficoltà di integrazione verso questi obiettivi, oltre alla solita ingombrante burocrazia, sono non solo le situazioni familiari complicate di molti ragazzi difficili da coinvolgere nelle varie attività, ma anche l’alto numero di studenti provenienti da altri Paesi e quindi portatori di altre culture e tradizioni, presenti in un numero sempre maggiore e che, quindi, non è possibile ignorare. Al di là degli aspetti politici, la vera sfida della scuola del futuro, dunque, in ogni luogo e grado, è proprio far sentire tutti studenti e cittadini allo stesso livello e sullo stesso piano ragazzi che provengono da situazioni molto diverse tra loro e che hanno bisogno, assieme ai loro stessi insegnanti, di percepire la scuola come un faro in mezzo alla nebbia dei nostri tempi difficili.

 

Cosa rappresenta oggi per te la scuola? Come mai hai intrapreso questo mestiere e quali soddisfazioni ti sta dando? Quali speranze, invece, sono state disattese?

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Ilaria: La scuola è un luogo salubre e sereno in cui i bambini si aprono a nuove esperienze, lontano dai genitori. Imparano a vivere in una nuova “Società”, diversa dalla famiglia. Mi è sempre piaciuto insegnare. Fin da ragazzina aiutavo i miei compagni di scuola a fare i compiti, poi, crescendo, affiancavo i ragazzi nello studio e nella preparazione di interrogazioni ed esami. Lavorare nella fascia d’età 3-6 anni è molto gratificante. Diventi una figura fondamentale per i bambini, quasi una seconda mamma e per me che non sono mai diventata madre… beh, mi riempie il cuore di gioia! Mi sento utile e gratificata; vedo i loro progressi di giorno in giorno, crescono imparando i sani principi che spero li accompagnino per tutta la vita. Spesso però, purtroppo, i bambini, diventando adulti ed entrando in contatto con insegnamenti sbagliati, prendono strade non sempre “raccomandabili”, ma io credo ancora e molto nel mio lavoro e non mollo. Lotterò sempre per insegnare solo “cose giuste e belle”, come dico ai miei bambini, affinché diventino degli adulti sereni ed equilibrati.

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Laura: Oggi la scuola è un grande punto di riferimento per i ragazzi, soprattutto la scuola primaria dove si apprendono le basi. Tutto sembra dissolversi con troppa facilità oggigiorno: gli affetti, le famiglie, tuttavia la scuola resta ancora una struttura presente, per quanto sgangherata. La cittadina in cui lavoro io potrebbe essere vista come una “zona di confine”. L’istituto in cui opero è tra i primi in Italia per numero di stranieri, oltre che di alunni BES (Bisogni Educativi Speciali) e DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) e quindi l’integrazione è per noi una sfida quotidiana e va oltre la didattica. Molti dei nostri bambini trovano stabilità e serenità solo all’interno delle aule, perché fuori le situazioni di vita sono difficili persino per gli adulti che si trovano ad affrontarle. Ho intrapreso questa carriera perché ci ho sempre creduto, anche se inizialmente non ho fatto studi di indirizzo. Quello coi bambini è uno scambio continuo. Noi docenti insegniamo la didattica, ma dai ragazzi impariamo qualcosa di più profondo sulla nostra natura umana, sia nelle classi, sia nei singoli rapporti che si instaurano. È stato proprio questo a spingermi a fare di questa passione una professione, acquisendo tutti i titoli e le competenze che mi avrebbero permesso di sviluppare la mia professionalità. Sono stata precaria per moltissimi anni in scuole private e, oggi che sono docente di ruolo in un istituto statale, ho raggiunto maggiore equilibrio, ma di sicuro ogni giorno a scuola è diverso dall’altro. Quando entri in aula ci sono tante difficoltà da affrontare, è stancante e le delusioni sono quotidiane, ma quel che resta dentro è sempre il riscontro che si ha dai ragazzi, dalle esperienze che si fanno insieme e che si condividono. La delusione più grande però, soprattutto rispetto al “mondo esterno”, è il mancato riconoscimento della nostra figura di insegnanti. In troppi criticano il nostro operato, senza sapere cosa significhi fare il docente. Non ci si improvvisa insegnanti, si studia e ci si tiene continuamente aggiornati, andando anche oltre le nozioni che si passano ai ragazzi. Ma, nonostante ciò, spesso subiamo giudizi ingiusti e ingiustificati che non fanno bene agli studenti e all’intero sistema.

 

Quali difficoltà e criticità pratiche incontri quotidianamente nel tuo percorso?

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Ilaria: Abbiamo a che fare quotidianamente con tanta burocrazia. Deleghe dei genitori, verbali per i collegi, programmazioni, infortuni, autorizzazioni alle gite, privacy, piano sicurezza, aggiornamento delle graduatorie, ricostruzione della carriera, domande di trasferimento… A volte non mi sembra di fare l’insegnante, ma di lavorare in un ufficio pubblico tra le scartoffie. Un’altra piaga è la continua mancanza di fondi anche per i beni di uso quotidiano (come carta igienica, sapone per le mani, carta assorbente), figuriamoci, poi, per corsi di aggiornamento o materiali di largo consumo quali colori, fogli di carta, materiale didattico in generale, fotocopiatrice, e così via. A tutto ciò si aggiunge una diffusa mancanza di rispetto per il nostro lavoro. Troppo spesso il nostro ruolo è sottovalutato. Chi non fa questo mestiere pensa che noi lavoriamo solo cinque ore al giorno, che abbiamo tanti giorni di ferie, che cantiamo e giochiamo tutta la giornata, insomma che sia una passeggiata. È vero che all’interno del plesso scolastico io sto per cinque ore al giorno, ma a casa lavoro ancora per cercare informazioni e materiali e strutturare le lezioni che affronterò poi in classe. Per quanto riguarda le ferie non possiamo scegliere il periodo per usufruirne e, qualora riuscissimo a prenderle durante l’anno scolastico, (per un massimo di sei giorni), dobbiamo supplicare il Dirigente che ce le accordi e trovare noi stesse una sostituta, perché non devono esserci carichi economici per la scuola.

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Laura: A livello strutturale gli edifici scolastici della nostra zona e dell’Italia intera sono in situazioni disastrose e spesso pericolose. Abbiamo solai che ci crollano in testa, fognature allo stremo e aule senza neppure il necessario. Ma anche tutto ciò che riguarda la didattica e la programmazione non tiene conto realmente delle difficoltà che gli insegnanti hanno in cattedra, ogni giorno. Spesso le problematiche esterne che hanno i ragazzi e le loro famiglie non ti permettono di seguire alla lettera i programmi del Ministero, perché la scuola è vita e deve trasmettere anche i mezzi per affrontare le difficoltà o oltre alle materie di studio. Forse è proprio questo scollamento la maggior criticità dei nostri tempi.

 

Quali sono, invece, i passi in avanti fatti, secondo la tua esperienza, e quali le aspettative future?

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Ilaria: Noto che faticosamente la scuola cerca di stare al passo con i tempi, soprattutto nell’aggiornamento degli insegnanti per l’utilizzo delle nuove tecnologie. Ora che mi trovo a lavorare lontano dalla mia città d’origine sto frequentando diversi corsi per la scuola digitale, ma negli anni passati, quando ha lavorato vicino casa, questo non è mai avvenuto. Forse perché dove mi trovo ora si è capito quale sarà il futuro della scuola e si è riusciti a guardare oltre e ad essere più lungimiranti. Ormai i bambini nascono con una mentalità volta all’informatica e al digitale e la scuola dovrebbe utilizzare questo canale informativo per insegnare ai propri alunni.

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Laura: Devo essere sincera: nella mia carriera di insegnante ho visto più passi indietro, che in avanti. Si prova a fare tanto, un po’ di tutto per l’esattezza, ma l’“essenziale” manca sempre e, alla fine, anche quel poco che si è fatto, si dimentica. Un tempo i programmi erano meno corposi, ma si andava di più al cuore dei concetti, senza contare che, i ragazzi di oggi hanno una soglia di attenzione molto più bassa ed è difficile coinvolgerli organizzando in modo sistematico il lavoro con tanti alunni, ognuno con la propria particolarità. Forse sarebbe meglio sfrondare i programmi, lasciando le basi e una più ampia libertà ai docenti di organizzarsi anche in base alle esigenze delle singole classi per non lasciare indietro nessuno. L’informatizzazione c’è, ma non è la LIM, ad esempio, che fa la differenza all’interno delle classi. Ormai tutti i ragazzi hanno uno smartphone a disposizione e spesso sono loro a insegnare qualcosa a noi in questo senso.

 

Raccontaci un aneddoto che è rimasto particolarmente impresso nel tuo cuore di donna e insegnante e perché.

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Ilaria: Ci sono così tanti episodi che mi sono rimasi nel cuore, che sarebbe difficile sceglierne solo uno. Sarebbe un torto a tutti quei bambini che, ognuno a loro modo, hanno contribuito alla mia crescita come insegnante ed educatrice. Naturalmente ci sono anche ricordi spiacevoli, momenti di difficoltà, spesso legati alla precarietà di questo mestiere, ma a restare maggiormente impressi sono sempre i sorrisi dei bambini.

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Laura: C’è un episodio che mi è rimasto particolarmente impresso e che ancora porto nel cuore. Il primo anno, nell’istituto in cui mi trovo adesso, ho avuto una quinta classe molto problematica. C’era una bambina, Anna, che piangeva tutti i giorni in classe e non c’era verso di capirne il motivo. Verso la fine del primo quadrimestre abbiamo capito che la mamma stava male e il papà non riusciva a prendersi giorni di ferie per accudirla, così lei rimaneva spesso sola con questa mamma allettata e sotto farmaci. Verso la fine dell’anno l’intera famiglia ha deciso di trasferirsi per cercare l’aiuto dei parenti lontani. Il giorno dopo che Anna è partita ho trovato nel mio registro un bigliettino a forma di cuore con scritto: “Grazie di avermi ascoltata” e mi sono commossa. Mi era sembrato di non essere riuscita a fare molto per lei, ma anche quel poco evidentemente era stato importante.

 

La scuola in cui operi è ben inserita nel contesto territoriale in cui si trova? Secondo te riesce a rispondere alle esigenze dei ragazzi e dei colleghi insegnanti legate al territorio di appartenenza? Quali sono le iniziative che agevolano l’interazione tra scuola e territorio nella vostra regione?

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Ilaria: La scuola in cui opero è ben inserita nel territorio in cui si trova. Frequentemente il Comune organizza eventi e attività che coinvolgono scuole e famiglie. Tutti i mesi, ad esempio, la biblioteca comunale presenta iniziative davvero molto interessanti per fasce d’età e gratuite o con una piccola offerta e sappiamo quanto sia importante avvicinare i ragazzi alla lettura. Si tratta sempre di eventi cittadini legati alla stagionalità, presentazioni di libri, organizzazioni di convegni, tavole rotonde e così via. Il tutto per sensibilizzare i ragazzi al rispetto del territorio da tutti i punti di vista e alla conoscenza della loro cultura e tradizione.

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Laura: Nel nostro istituto ciò che fa veramente la differenza nell’integrazione territoriale è il lavoro “sul campo” dei docenti. Abbiamo dedicato ore e ore a parlare coi bambini, spiegando loro che tutti hanno gli stessi diritti, anche se hanno una religione o tradizioni diverse e questo significa educare alla convivenza civile e vivere a pieno il proprio territorio, rispettandolo e valorizzandolo. Se facciamo dieci moltiplicazioni in meno chissenefrega! Tutti lavoriamo per l’inserimento sociale dei ragazzi e siamo uniti in questo. Arrivano anche alcune iniziative dal Ministero che potrebbero agevolare questi processi, ma non sono sempre di grande valore e questo è un gran peccato. Molto è lasciato alla nostra iniziativa e alla nostra sensibilità di insegnanti e ci sentiamo poco supportati in questo.

Alessandra Rinaldi

 

Sistema Scuola: anche il personale non docente è fondamentale

Dopo aver affrontato il punto di vista degli studenti e quello degli insegnanti nei precedenti articoli, paragonandoli alle due metà di un cuore, oggi vi mostreremo l’intero corpo della scuola.

Per dare vita a questo articolo, sono personalmente riuscita ad entrare in diverse scuole della mia città, parlato con i diretti interessati e alla fine ne ho scelta una, di cui ovviamente non vi dirò il nome, ma che diventerà lo scenario di questo nostro viaggio virtuale.

La cosa che più mi ha sorpreso parlando con le persone che ho incontrato è che tutti avevano l’idea della scuola come una piramide che contenesse più o meno tutti i settori, ognuno dei quali preordinato o sottoposto ad un altro. In realtà, parlando loro ho esplicitato una visione di scuola differente, più simile ad un puzzle e vi spiego anche perché.

Per quanto possa essere giusta l’idea gerarchica insita in una istituzione scolastica, credo più nella parità di ogni singolo “pezzo” che combinato con gli altri, crei un unico disegno. Ovviamente tutti noi abbiamo familiarità con i puzzle e siamo consapevoli che se mancasse anche un solo pezzettino, per quanto la mente umana sia perfetta e riesca a soccombere a quella mancanza visuale, resterebbe un vuoto.

Partiamo dal presupposto che se dicessi scuola, chi legge penserebbe immediatamente all’edificio scolastico e poi ai corridoi, agli odori, al brusio o agli schiamazzi, alle persone che ha incontrato almeno una volta nella propria vita solcando l’ingresso.

Ma la scuola, non è solo l’edificio nel quale abbiamo vissuto diversi anni, non è fatto solo di studenti o di professori. È composto da tutta una serie di altre persone ed “aree” che sono necessarie al buon funzionamento di tutto il sistema e senza ogni singolo ricompreso in queste aree, le cose non funzionerebbero davvero.

Abbiamo parlato di aree, ma quali sono?

Il sistema scuola di ogni singolo istituto funziona perché c’è una combine tra l’area amministrativa, l’area organizzativa, l’area didattica e il Dirigente Scolastico.

II Dirigente Scolastico è una figura scolastica di spicco. È colui che gestisce in maniera unitaria l’istituzione scolastica, ha il compito di promuovere e sviluppare l’autonomia gestionale e didattica, è garante del diritto all’apprendimento degli alunni, della libertà di insegnamento dei docenti ed anche della libertà di scelta educativa delle famiglie. Essendo il  legale rappresentante dell’istituzione scolastica, è responsabile della sua gestione, delle sue risorse finanziarie e di quelle strumentali, nonchè dei risultati del servizio ed è titolare delle relazioni sindacali. Dirige, coordina e valorizza le risorse umane, organizza l’attività scolastica secondo i criteri di efficienza e di efficacia formative.

L’area amministrativa è composta da:

  • il Direttore dei Servizi Generali Amministrativi il quale svolge e sovraintende i servizi generali amministrativo-contabili, curandone l’organizzazione, ricoprendo funzioni di coordinamento, promozione delle attività e verifica dei risultati da raggiungere;
  • l’Assistente Tecnico, figura di supporto trasversale e  necessaria ai docenti e agli studenti;
  • l’Assistente Amministrativo, che con la propria professionalità collabora nella conduzione della scuola, svolgendo tutto quanto ciò di amministrativo e contabile è previsto, sia dal punto di vista delle relazioni interne che esterne;
  • il Collaboratore Scolastico, con compiti di accoglienza e di sorveglianza nei confronti degli alunni, addetto ai servizi generali e alla gestione degli spazi scolastici, senza dimenticare la dimensione di collaborazione con i docenti.

L’area didattica è composta primariamente dallo staff del Dirigente Scolastico, che ha il compito di coadiuvarlo nella gestione e nella organizzazione del sistema scolastico interno. A questi si affiancano tutti i componenti del personale docente, suddivisi nei vari dipartimenti, alcuni con compiti di coordinamento degli stessi, comprendendo, laddove previsti, anche i referenti responsabili dei progetti legati alla alternanza scuola lavoro.

L’area organizzativa è invece composta da:

  • referenti per i progetti riguardanti gli studenti sia dal punto di vista esterno che interno, stabiliti di volta in volta nei progetti dell’offerta formativa;
  • referenti che si preoccupano di gestire l’orientamento degli studenti e delle famiglie tanto in entrata quanto in uscita;
  • referenti con il compito di organizzare e seguire il recupero e il potenziamento scolastico;
  • referenti del settore legato alla prevenzione e protezione di tutti i soggetti scolastici;
  • dal Consiglio di Istituto, organo collegiale obbligatorio che rappresenta tutte le componenti dell’Istituto e cioè docenti, studenti, genitori e personale non docente. Può essere parificato ad un vero e proprio consiglio di amministrazione che provvede a stabilire, deliberare ed adottare il programma annuale, i mezzi finanziari  per il funzionamento amministrativo e didattico, si preoccupa dell’adozione e delle modifiche del regolamento interno dell’istituto.

Insomma, credere che la scuola sia fatta solo di studenti e professori diventa davvero riduttivo.

La scuola è un microcosmo dove si vivono relazioni paritarie e non, dove i giovani studenti imparano ad essere uomini e donne scegliendo cosa fare del proprio futuro, è un luogo dove si incontrano tante figure professionali collaterali, ognuna delle quali fondamentale perché l’ingranaggio non si blocchi.

A questo ci avevate mai pensato?

Francesca Tesoro