“Lavoro” di Stefano Massini

Lavoro: nel terzo millennio come suona questa parola?

Si può parlare di lavoro in molti modi e il libro di Stefano Massini, edito dalla Il Mulino, intitolato “Lavoro” esplora i meandri di questo concetto da una prospettiva del tutto inedita.

Leggendo questo testo, sembra decisamente di essere seduti in una platea teatrale, di fronte un palco, sul quale Massini con maestria e semplicità racconta le varie sfaccettature di questa parola diventata nel tempo un vero e proprio concetto.

Stefano Massini, consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano, ha analizzato nei vari capitoli di questo il libro il significato intrinseco e profondo di questa parola, mantenendo uno stile simpatico, nonostante scriva di una cosa al quanto difficile.

Usando figure storiche conosciute dai più, siano esse realmente esistite e nate dalla penna di indiscutibili scrittori, rappresenta agli occhi di tutti un sentiero tanto impervio quanto suggestivo.

Citando personaggi che vanno da Cicerone a Prometeo, da Karl Max a Sant’Agostino, da Robin Hood al Dr. Jekyll e Mr Hyde, l’autore delinea l’idea e il senso del lavoro associandolo ogni volta ad un particolare aggettivo qualificativo.

“Una parola scura”.

Si delinea la considerazione che nel tempo il lavoro è stato oscurato da una patina opaca, riportando il pensiero umano dal disincanto all’aspetto critico e polemico, andando a coincidere in senso figurativo con una ferita scoperta e dolorante.

“Una parola complessa”.

Lavoro è un sostantivo che identifica tanto una azione che il suo prodotto o quel luogo in cui le azioni vengono svolte per arrivare a produrre un determinato elemento, più o meno aleatorio, con fatica e costi non solo economici ma anche fisici e mentali.

“Una parola vitale”.

Lavoro quindi sono” è un postulato molto concreto e fisiologico che identifica come ognuno di noi lavori per la necessità di procurarsi un sostentamento e pochi lo fanno per esclusivo piacere. Si esplicita così una delle tante corruzioni della parola lavoro, che perde il suo essere un naturale bisogno per diventare addirittura un valore di eccezione e, in certi casi, di eccellenza.

“Una parola ingombrante”.

Il lavoro, nel tempo, ha perso il suo essere strumento per sopravvivere ed è diventato quasi l’identificativo di uno status simbol, venendo percepito come un dovere con l’esclusiva funzione di maturare un reddito, svuotato del suo valore più intrinseco a livello relazionale.

“Una parola tecnica”.

E’ innegabile che la tecnologia sia diventato un elemento portante della nostra società da terzo millennio. A livello concettuale e fattivo la tecnologia ha assunto un ruolo (apparentemente) imprescindibile, radicale e irreversibile, per cui sembra quasi che senza più tecnologia non esista lavoro o tipologia di esso normalmente esercitabile. In modo del tutto speculare, l’inquietante presenza della tecnologia sempre più qualificata disarciona l’essere umano cosciente e pensante dalla funzione lavorativa, con la deificazione della macchina a scapito della manodopera umana.

“Una parola straniera”.

Nella nostra era di contaminazione lanciata al galoppo, ci si imbatte sempre più spesso in declinazioni di provenienza anglosassone di tutto ciò che è e riguarda il lavoro. Il rischio concreto di perderne i veri e tradizionali significati, con tutto quello che storicamente comportano, allenta il più profondo legame tra mestieri e territorio, snaturando gli uni e gli altri: work, job, flexibility on job, job on call, voucher work, job sharing, work in progress, task forces, think thank e così via.

“Una parola scordata”.

Si, perchè un tempo il mestiere era un crisma difficilmente scalfibile, un momento essenziale per essere e sentirsi uomini e donne liberi. Oggi il lavoro viene percepito come un obbligo, quasi un peso, un qualcosa di limitativo, sinonimo di sforzo, ingiustizia sociale e mal digerita sottomissione. Quando c’è.

In effetti, per quanto anacronistico possa sembrare, in una Repubblica fondata sul lavoro si assiste alla contrapposizione tra il lavoro e i diritti del lavoratore spesso considerati accessori, se non inutili in certi malaugurati casi. Un lavoro agognato per il quale, sfido a dire diversamente, si troverà sempre quello più disperato e disposto a scendere al compromesso peggiore, a scapito di sé stesso e della retribuzione, pur di lavorare.

Nella fitta giungla del lavoro, dei lavoratori, del senso di oppressione di chi lo ha e la disperazione di chi lo perde o la ricerca spasmodica per averne uno, appare chiaro come la sintassi del lavoro abbia perso la sua grammatica umana.

Perdendo lei è come se si fosse perso tutto quel senso di speranza nel futuro, accrescimento personale, familiare e professionale, nonché la voglia di migliorare se stessi ed ambire sempre più in alto, per essere delle persone migliori.

Massini conclude il suo libro con l’inquietante paradigma che tutti noi abbiamo almeno sentito una

volta per televisione, dove le persone di Taranto dicevano dell’Ilva “Uccide, certo, ma ci dà da vivere”.

Un frammento contraddittorio e disperato dell’idea del lavoro, che prima aveva un senso, rappresentava qualcosa di veramente importante e custodiva un vago sentore di origini preziose, ma che oggi è più vicino ad un ricordo lontano e sbiadito.

Francesca Tesoro

“Welfare aziendale in un gioco in cui nessuno perde e tutti guadagnano” a cura di Bruno Di Cola, Nicola Ferrigni e Mauro Pacetti

«Più denaro in busta paga o servizi all’individuo e alle famiglie?». Dare una risposta a questa domanda è l’obiettivo che Bruno di Cola, Nicola Ferrigni e Mauro Pacetti si pongono nel testo intitolato “Welfare aziendale in un gioco in cui nessuno perde e tutti guadagnano”, Gangemi, in cui viene illustrata e approfondita la ricerca condotta dalla Uilcom nel 2013.

Il campione intervistato è considerevolmente ampio ed eterogeneo, operante in molteplici e diversi settori e i risultati sono presentati in modo meticoloso e funzionale: la classificazione avviene in base al sesso, alla classe d’età e all’area geografica di provenienza degli intervistati.

L’analisi dei dati risulta fluida grazie alla divisione in capitoli tematici e brevi paragrafi che mantengono viva l’attenzione del lettore, differenziando di volta in volta gli argomenti commentati, mentre la lettura è accompagnata dalle immagini, dai grafici e dai titoli coloratissimi che offrono brevi ma piacevoli pause.

L’indagine della Uilcom rivela uno scenario in cui le aziende si muovono a fatica nel quadro delle politiche di welfare aziendale, mostrando difficoltà a integrare il cosiddetto welfare di primo livello, quello pubblico.

Le performance peggiori coinvolgono gli aspetti legati al telelavoro e ai turni agevolati: oltre la metà del campione, infatti, dichiara l’assenza di tali facilitazioni all’interno dell’azienda.

Di Cola, Ferrigni e Pacetti scelgono di dedicare al punto di vista femminile un intero capitolo che, coerentemente con lo spirito eclettico e colorato del testo, si intitola: “chi dice donna dice… welfare?”. L’ironia del titolo contribuisce ad ammorbidire un argomento piuttosto spigoloso, infatti la disparità di genere che le donne vivono ancora all’interno dei luoghi di lavoro, soprattutto per ciò che riguarda i percorsi di carriera, è una realtà ancora difficile da contrastare. Il 60,1% della componente femminile intervistata ritiene che la donna sia costretta a rinunciare o a rimandare la maternità per il lavoro. Il lavoro delle donne, considerato accessorio fino ad alcuni decenni fa, è oggi indispensabile per garantire un reddito sufficiente al nucleo familiare, oltre che per ottenere l’indipendenza economica, ma spesso accade che le lavoratrici madri siano ritenute inaffidabili a causa delle assenze legate alla cura della famiglia e dunque escluse da percorsi formativi e di carriera.

I curatori del testo sottolineano come un buon sistema di welfare aziendale fornirebbe un determinante contributo alla riduzione delle disparità di genere, offrendo alle lavoratrici un’azione concreta ponendo le basi per una reale condizione di pari opportunità, oltre che per un concreto sostegno alle cure familiari.

Nel volume è presentato il fenomeno nei suoi tratti generali, vengono approfonditi i singoli aspetti attraverso i vari capitoli tematici, si spiega come il sistema di welfare possa diventare un elemento strategico per la conciliazione e, allo stesso tempo, lo strumento più efficace per aumentare l’occupazione femminile e migliorare la qualità del lavoro di donne e uomini.

In conclusione, il libro di Di Cola, Ferrigni e Pacetti è da considerarsi uno strumento utilissimo per informarsi sul mondo del welfare aziendale.

Cecilia Musulin

“Così è… probabilmente” di Giulio D’Agostini e Dino Esposito

Il saggio, l’ingenuo e la signorina Bayes è il sottotitolo di questo libro, dallo stile leggero e diretto, nonostante tratti temi non proprio di facile comprensione, almeno per me!

Il libro “Così è… probabilmente” di Giulio D’Agostini e Dino Esposito edito da Il mio libro appare molto simile a una sceneggiatura che lascia correre l’immaginazione, fermando la mente del lettore su concetti di straordinaria importanza scientifica spiegati e ragionati in maniera impeccabile.

Provare, anzi, leggere per credere.

Il volume inizia con una breve descrizione che contestualizza tutti i dialoghi seguenti nell’ufficio di Alberto, dirigente di azienda, con Giorgio e Laura, suoi giovani collaboratori, che, sull’orlo di una crisi di nervi, cercano una soluzione ad un problema aziendale legato alla sicurezza.

L’interazione dei personaggi e i loro ragionamenti sulla probabilità, disegnano un divertente quadretto, disquisendo aspetti importanti legati al decision making.

Attraverso voli pindarici che vanno dalla trasmissione dei virus, al sorteggio delle palline, passando per il poker, il gioco delle scatole ed esperimenti empirici, chiudono il cerchio con il famoso Teorema di Bayes.

Quello che emerge da questo libro non è quanto possa essere giusto o sbagliato il valore della probabilità, ma l’importanza del valore conferito ad una determinata cosa e quanto si creda in essa, quale che sia la motivazione per cui si è giunti a tale convinzione, perché per assegnare un valore di probabilità ci si deve comportare secondo modelli morali, consistenti e coerenti.

Sembra una astrazione ed invece è un dato di fatto che tutti i giudizi di plausibilità, probabilità o, ancora, di vero somiglianza sono alla base delle azioni umane.

Ecco allora che prende corpo l’idea che le decisioni si costruiscono e non si prendono e che il teorema di Bayes diventi, in un certo senso, la trasposizione numerica del dato empirico che “spinge” una persona verso una ipotesi o un’altra.

Inconsciamente siamo abituati ad usare e valutare l’utilità di modelli che servono per orientarci e organizzarci.

Attraverso l’esperienza cerchiamo di connettere il passato al futuro, interrogando i dati con gli strumenti che abbiamo a disposizione per trovare le soluzioni più congeniali, così gli accadimenti del passato diventano filtro per i possibili modelli futuri. Alcuni vengono valutati inidonei per proseguire nel loro intenti, altri hanno bisogno di modifiche, altri ancora vengono investiti del significato di verità.

In fondo, il giudizio delle decisioni non riguarda tanto il risultato, ma l’uso appropriato che si fa delle informazioni in nostro possesso, in base alle competenze che si posseggono. E sapete perché? Perché le probabilità fisiche assumono il significato di quanto noi crediamo in qualcosa solo se siamo sicuri del loro valore. Sembra un cane che si morde la coda, vero?

Sappiate che ci sono dei valori di probabilità sui quali ognuno è libero di pensarla come vuole. Poi, ci sono altre probabilità che sono logicamente connesse alle altre.

Il teorema di Bayes diventa allora una delle connessioni che impone in modo coerente la teoria delle probabilità.

In effetti questo teorema, oltre ad essere matematicamente semplice, una volta che viene assimilato, corrisponde alle regole del buon senso e ha la capacità di insegnare a persone razionali e non dogmatiche a mutare il loro grado di convinzione alla luce dei nuovi dati.

Allora, quando bisogna prendere delle decisioni diventa importante fare un’analisi accurata di quante e quali probabilità ci siano di commettere errori e prevedere la conseguenza di essi. Soprattutto a livello aziendale, dove essere miopi e guardare solo al “domani o dopodomani” dell’azienda per massimizzare gli utili, senza pensare a situazioni strutturate nel tempo, può diventare probabilmente un problema.

La ragione della centralità del ragionamento probabilistico è che le decisioni non dipendono soltanto dagli eventi ipotizzati e dalla loro utilità in senso lato, ma traggono origine in modo cruciale da quanto crediamo che le diverse ipotesi possano verificarsi.

Di conseguenza se calcolassi male le probabilità, le mie decisioni potrebbero essere sbagliate.

Per fortuna, in quanto esseri umani dotati di coscienza pensante, nel prendere decisioni seguiamo risvolti morali e valori etici che vanno oltre semplicistici calcoli matematici e i comportamenti non etici che abbiamo oggi, ci seguiranno nel futuro.

Anche la migliore persona del mondo, davanti ad una decisione particolarmente difficile usa e sceglie il principio di precauzione ed è altrettanto giusto che quando in ballo ci siano decisioni importanti, si rifletta bene.

In campo aziendale (e questo Alberto, seduto alla sua scrivania con un occhio al cellulare e uno alla lavagna usata per schematizzare i ragionamenti, lo spiega benissimo) massimizzare l’utilità attesa va bene, ma le cose si complicano quando nel “gioco” ci sono altri “giocatori” con le loro priorità e probabilità. In questo caso bisogna considerare anche quello che loro, avversari o concorrenti, hanno nelle loro menti affinché non vada tutto perduto.

Alberto Giorgio e Laura sono riusciti a convincermi che quello di cui loro parlano, è molto vicino all’approccio sistemico che secondo me dovrebbe essere usato in tutto quello che facciamo perché più è complessiva la nostra visione di una determinata cosa, più ci crediamo, più è possibile che quella cosa accada proprio come l’abbiamo programmata. È una questione di probabilità.

Dite di no? Io credo di sì, perché “Così è… probabilmente”.

Francesca Tesoro

“Il welfare in azienda. Imprese smart e benessere dei lavoratori” di Luca Pesenti

Negli ultimi anni si sta addensando un crescente consenso circa l’idea che l’impresa possa funzionare in modo più efficiente se riesce a “leggere” i bisogni che emergono intorno e dentro il suo perimetro. Tale sillogismo parte dalla considerazione che il lavoratore diviene il punto di congiunzione più rilevante tra l’azienda e il mondo esterno, ovvero il primo stakeholder di cui ogni impresa dovrebbe prendersi cura. Questo è il principale concetto espresso da Luca Pesenti nel suo libro “Il welfare in azienda, imprese smart e benessere dei lavoratori”, Vita e Pensiero.

L’autore, attraverso un’interessante sintesi di dati relativi alla situazione italiana e alla sua comparazione con quella di altri paesi europei, mostra come nel nostro Paese non si sia verificato il processo di innovazione e ricalibratura delle politiche capace di adeguarle alle nuove esigenze.

Il sistema di welfare italiano si conferma inadeguato a fronteggiare i nuovi rischi legati all’indebolimento del modello di benessere sociale e alla crisi della crescita economica.

Perciò, mentre aumentano i bisogni, il sistema economico crea sempre meno ricchezza e, di conseguenza, sempre meno risorse spendibili dal sistema welfare per far fronte ai nuovi bisogni.

Nel definire puntualmente tutte le caratteristiche del contesto in cui il nuovo welfare aziendale si sviluppa, Pesenti cita alcuni autori che si concentrano su tematiche e concetti innovativi creando i presupposti per dirottare il welfare aziendale verso nuove e inaspettate direzioni. È il caso, ad esempio, del tema dell’Industry 4.0 su cui si orientano Annalisa Magone e Tatiana Mazali raccontando le interrelazioni fra uomo e macchina, tipiche dell’ambiente cyber-fisico e capaci di aumentare il grado di innovazione e diminuire i costi di produzione.

Il libro di Pesenti è caratterizzato da uno stile ampio e discorsivo in cui i frequenti tecnicismi inducono il lettore a soffermarsi con attenzione sugli argomenti che si susseguono e, allo stesso tempo, conferiscono al testo un taglio piuttosto specialistico. Questo aspetto è sapientemente bilanciato dall’autore attraverso un capitolo dedicato alle fasi necessarie per la realizzazione di un piano di welfare.

Spesso i libri offrono spunti teorici che richiedono ulteriori approfondimenti operativi.

Il testo di Pesenti invece si presenta come uno strumento di orientamento, quasi una guida, che spiega in modo schematico ma esaustivo tutti i passaggi da realizzare e le variabili a essi collegate.

Una costante del libro è il riferimento all’importanza dell’analisi dei bisogni, all’ascolto della popolazione aziendale come prerequisito fondamentale per l’elaborazione di un buon piano di welfare.

Si tratta di un tema molto sentito perché nelle future imprese smart, caratterizzate da ampie basi tecnologiche che richiedono la massima specializzazione delle professioni, le condizioni complessive di benessere del lavoratore diventeranno sempre più rilevanti per le sorti dell’impresa stessa. In quest’ottica Pesenti sostiene che un presupposto importante per l’efficace realizzazione di questa nuova tipologia aziendale sia la capacità di costruire piattaforme definite smart welfare. Si tratterrebbe di un welfare intelligente disegnato a partire dai reali bisogni della popolazione aziendale, personalizzato e non standardizzato.

La prospettiva di un vero e proprio menu di servizi fra cui i lavoratori possano scegliere quelli più adatti alle loro esigenze, appare molto allettante ma ancora piuttosto utopistica, considerando che le ricerche mostrano una scarsa attenzione per la lettura dei bisogni, effettuata solo dal 23,8% delle aziende che offrono uno o più servizi di welfare ai propri dipendenti.

Il libro di Pesenti costituisce una base, un solido punto di partenza per innescare il processo che potrebbe trasformare l’utopia in realtà.

Cecilia Musulin