The founder: tratto da una storia vera

The Founder, è un film uscito nelle sale nel gennaio del 2016, tratto da una storia vera e che il regista John Lee Hancock ha saputo e voluto adattare al grande schermo molto bene, senza preoccuparsi eccessivamente di mettere in scena tutta la malignità di un uomo realmente vissuto, nonostante il seducente, familiare e pacato volto di Michael Keaton ad interpretarlo.

Nell’America degli anni cinquanta, come fa un uomo ultracinquantenne, a trasformarsi da venditore di frullatori per milkshake, anche un po’ sfigato, ad imperatore di fast food con un fatturato di milioni di dollari?

Attraverso, una perseveranza fuori dal comune, figlia anche di una decisa ma latente spietataggine, dovuta ai troppi insuccessi ed agli innumerevoli fallimenti che lo hanno condotto in giro per il paese tentando e non riuscendo nella vendita di frullatori per gli innumerevoli drive-in tanto in voga in quel periodo.

Fino alla telefonata con l’ufficio dove lavora e la richiesta da parte di un drive-in di San Bernardino in California per acquistare otto frullatori di quelli che nessuno voleva comprare prima e tutto cambia con la scoperta di un mondo. Ray Kroc (Micheal Keaton) parte con la sua auto per attraversare l’intera America e ritrovarsi di fronte al drive-in questione: un locale all’incrocio tra due strade, una fila immensa, una signora gentile che gli dice di non preoccuparsi per l’attesa perchè sarà breve. La sua incredulità aumenta quando nel giro di pochi secondi e per la modica cifra di 35 centesimi, gli viene servito il pranzo appena ordinato, il tutto nella cordialità più spumeggiante del giovane impiegato che riesce anche a consigliargli dove mangiarlo. E Ray mangia quel panino seduto su una panchina, con le patatine e la bibita nel sacchetto di carta, guardandosi esterefatto intorno, dove gente di tutte le età mangia i panini, assaporandoli come se fossero i più buoni sulla faccia della terra riuscendo, addirittura, a condividere la seduta di una stessa panchina.

Esterefatto, finalmente incontra uno dei due fratelli che hanno inventato questo sistema a cui deve presentare i frullatori da vendere e scopre la cucina del locale.

Piccola, concentrata, efficiente, dove la parola d’ordine è velocità, nella quale ognuno dei lavoratori ha un ruolo preciso e dove tutto è precisamente fatto su misura, dalla quantità di senape alla cipolla, alla bibita nel bicchere, con l’hamburger che corre velocemente lungo il suo percorso ed è assemblato dalla griglia al bancone in trenta secondi.

Ray, estasiato, aiuta addirittura in quel frangente i due fratelli a trovare la quadra sulla cottura delle patatine e decide di invitarli ad una cena per conoscere la loro storia.

I due fratelli (Nick Offerman e John Carroll Lynch) raccontano così come è nata la loro idea, frutto di periodi passati senza soldi e difficoltà per mettere in tavola la cena e di come abbiano avuto l’intuizione di aprire un chiosco, quel chiosco che nel 1940 è il primo Barbeque McDonald. Parlano del successo iniziale e dell’arrivo dei classici problemi dei drive-in, dalla clientela alla lentezza del servizio, dagli errori nella consegna degli ordini alle spese per il personale o i materiali.

In quel tempo l’87% dei prodotti alimentari venduti da asporto erano hamburger, patatine e bibite e la loro hanno intuizione geniale: togliere tutto quello che rallenta, dal personale alle vettovsaglie, dai juebox ai distributori di sigarette, per riconfigurare una attività e rischiarsela tenendola chiusa per mesi. Ricordano di come l’hanno disegnata su un campo da tennis, provando spazi e posizioni, movimenti e passaggi, creando un assurdo balletto degli hamburger, fino a trovare quelli perfetti e vincenti.

Parlano con entusiasmo del primo esperimento di cibo espresso, partito con un fallimento – secondo loro -, perchè la gente non era abituata a scendere dalla macchina per mangiare un panino ma ad aspettare le cameriere che portavano i loro vassoi sui pattini, alla seconda grande inaugurazione, anche quella diventata una scena desolante e surreale.

Parlano della voglia di mollare tutto per ricostituire il classico drive-in e della scoperta di essere diventati famosi grazie ad un bambino che, quando stavano pensando di chiudere tutto, chiede alla finestra di servizio i panini formato famiglia facendogli notare le prime macchine che arrivavano nel parcheggio perchè si era sparsa la voce del nuovo modo di mangiare panini.

Kroc immediatamete ci vede lungo e propone ai due fratelli una affiliazione, per esportare il loro microsistema di cibo espresso in tutta l’America.

I due fratelli all’inizio non ci credono abbastanza, Ray li tartassa, li convince, li accompagna e li asseconda in questo processo di allargamento del piccolo Barbeque McDonald ex drive-in trasformandolo nella nuova chiesa americana, aperta sette giorni su sette, alla portata di tutti con sedi da costa a costa del continente.

Mac non è convinto e non vuole crederci fino in fondo, Dick invece è persuaso del contrario e decidono di stringere un contratto con il lungimirante Ray per creare una nuova azienda, unica, originale e totalmente innovativa senza eguali in tutto il settore della ristorazione.

Tuttavia, ben presto, Kroc diventa estremante ambizioso al punto da mettere da parte tutto e tutti – compresa la propria famiglia – e i fratelli McDonald, troppo ancorati alle loro idee originali e non abbastanza pronti a sostenere i cambiamenti proposti dal tenace socio, impauriti dal non poter mantenere i loro altissimi standard di qualità, si lasciano sfuggire l’occasione.

Così Ray Kroc, spicca il volo facendo proprio e usando l’efficiente sistema dei fratelli McDonald, spietatamente e in modo disgustoso, appropriandosi di qualcosa di geniale per niente suo, diventando per il mondo, l’inventore e l’imperatore del fast food più famoso della storia e che ancora oggi ritroviamo in qualsiasi angolo della terra, ma solo dopo aver rotto quel famoso contratto nel modo più infimo possibile: creando una società parallela, autonoma ed esterna al sistema della ristorazione contro la quale i due fratelli non possono fare più nulla, arrivando addirittura a perderne il nome.

Da quel momento in poi, Ray altro non è che la dimostrazione lampante del capitalista spietato nella sua lungimiranza e nella sua perseveranza, pronto a tutto pur di arrivare al suo obiettivo e di fare profitti perchè “un contratto è come un cuore e può essere infranto”, anche se questo significa passare sul cadavere del proprio matrimonio e togliere la sedia da sotto le gambe di chi aveva inventato il sistema di cibo espresso.

L’unico merito di Kroc è stato quello di aver inventato un concetto, quello di vittoria, perchè il mondo degli affari è un mondo spietato dove ogni momento è visto e vissuto come una guerra.

Perché è una questione di logica. Se si incrementa l’offerta, la domanda arriverà, ci vuole brillantezza per arrivare lontano – dice lo stesso protagonista – , nonostante tutte le fermate inattese che si possono ritrovare sulla propria via.

Ci sono molti segnali che bisogna saper cogliere, saper scegliere e soprattutto mettere in pratica.

Niente al mondo può sostituire la perseveranza, neanche il talento o il genio o l’intuizione, che addirittura diventano meri luoghi comuni. Il mondo è pieno di cretini istruiti e proprio in questo mondo la perseveranza e la determinazione sono onnipotenti e utili a far raggiungere i propri obiettivi. Non è una formula magica, ma è dentro di noi che possiamo costruire il nostro futuro, cambiando la nostra vita e modificando il nostro atteggiamento mentale, per raggiungere la serenità e il successo – recita un disco trovato in una camera di un desolato motel, ascoltato in un momento di depressione del protagonista all’inizio della pellicola.

Ray Kroc rappresenta un animale sociale, utilitaristico, con la parlantina da imbroglione e il sorriso da venditore sempre pronto e vincente, sua arma preferita per aggredire i suoi soci per spodestarli, capace di trasformare la loro forza e disperazione in guadagno per sé stesso, consapevole che senza di loro avrebbe fallito, anticipando le mosse di quelli che sono diventati presto degli avversari.

Niente a questo mondo può sostituire la perseveranza, per cui, siate voi il Ray Kroc della situazione e mai i fratelli Mac e Dick McDonald che avevano inventato un impero e si sono ritrovati con un pugno di mosche in mano.

Francesca Tesoro

“A los trabajadores” por Adriano Olivetti

La simplicidad y determinación con la que Adriano Olivetti se comunica con los trabajadores y empleados de su empresa se expresa plenamente en el texto “A los trabajadores”, Adriano Olivetti, Ediciones comunitarias en las que se incluyen dos discursos: el de Ivrea de 1954 y el de Pozzuoli de 1955 celebrada para la inauguración de la nueva planta.

Olivetti habla de una participación común en la vida de la fábrica, de los objetivos morales del trabajo, de los negocios que creen en la humanidad del trabajador. Su discurso no tiene la intención de hacerlo usar el rol de empresario amigo de los empleados, sino más bien presentarlo como un líder consciente de sus responsabilidades y decidido a enfrentarlos.

Paralelamente al compromiso de crear empleo para tratar de acercar las condiciones de trabajo del Sur a las del Norte, Olivetti persigue otros objetivos cuyos principios surgen de las páginas en las que se transcriben sus discursos. Se estudió la arquitectura de la fábrica de Pozzuoli, respetando las necesidades técnicas de producción, como si fuera un edificio de alto valor residencial con sus departamentos inundados de luz, embellecidos por la vista del mar y el contorno de fuentes y espacios verdes. Todo esto no excluía la presencia de comedores, bibliotecas, colonias, servicios sociales idénticos a los de Ivrea en términos de calidad y extensión.Un aspecto interesante destacado por este libro es la capacidad con la que Olivetti adapta los métodos de enfoque y los temas tratados a los interlocutores. De hecho, el emprendedor es consciente de que los trabajadores de Pozzuoli pueden sentirse intimidados por el progreso industrial, que ha afectado casi exclusivamente al norte de la península italiana y es desconocido para ellos, y por lo tanto enfoca su discurso en las cualidades de los hombres del Sur aún atados a la tierra. y guardianes “de una reserva de intenso calor humano”.

Olivetti tiene cuidado de enfatizar que, lo mejor que puede, se ha asegurado de que en la fábrica construida en Pozzuoli los trabajadores perciban el respeto por la naturaleza y la belleza y encuentren algo que pueda golpear, aunque sin darse cuenta, su alma. Lo que queda impresionado después de la lectura de estos textos, gracias a los cuales uno tiene la sensación de sentir que las palabras fluyen directamente de la voz de Olivetti, es que la principal preocupación del emprendedor es nunca perder la atención y el respeto por La vida y la dignidad de los trabajadores.

El objetivo final de su trabajo es construir una fábrica que no solo sea “humana” sino que se perciba como un ser vivo animado por múltiples impulsos. La implementación del proyecto Olivetti implica mucho esfuerzo pero, una vez más, la memoria y la guía del Padre Camillo permanecen con sus indicaciones precisas: “Puede hacer cualquier cosa, excepto despedir a alguien por la introducción de nuevos métodos porque el desempleo involuntario Es el mal más terrible que aflige a la clase obrera”.

Cecilia Musulin

Traduzione di Sara Trincali

Miyamoto Musashi: “Il Libro dei Cinque Anelli”

La filosofia nel lontano mondo orientale l’abbiamo già incontrata nella recensione di “Sun Tzu L’arte della guerra” ed oggi torniamo a parlare di questo fantastico settore, mai troppo distante da noi, proponendovi Il Libro dei Cinque Anelli edito dalla Oscar Mondadori scritto diversi secoli fa da Miyamoto Musashi.

Probabilmente lo conoscerete in pochi, sicuramente ne avrete sentito parlare almeno una volta nella vostra vita, ma sapete bene che a noi piace leggere le cose in modo differente e, in questo caso forse più che in altri, bisogna partire proprio dall’autore e dal principio.

Miyamoto Musashi, nacque nel 1548 in un villaggio della provincia di Mimasaka, figlio di una famiglia proveniente dal clan Arima di Kyushu, vassalli del castello di Takeyama, nel pieno di quello che storicamente è conosciuto come l’epoca del “medioevo giapponese”.

In quel tempo, era molto forte la rivalità tra i clan giapponesi intorno all’autorità dell’imperatore per la conquista dei nuovi territori da una parte e la lotta sanguinaria contro i tentativi di invasione da parte delle bellicose popolazioni confinanti, periodo nel quale si enfatizzò il ruolo dei guerrieri che agivano nel mondo povero e contadino, ma fonte di estrema ricchezza e potere. Era il tempo dei Samurai e dei Ronin, fedeli combattenti implacabili dei signori i primi, guerrieri rinnegati al servizio di sé stessi i secondi.

Trovatosi ben presto orfano di madre e abbandonato dal padre, Miyamoto, fu affidato ad uno zio materno che gli insegnò i rudimenti della scherma, arte nobile del tempo, con lo scopo di domare il suo temperamento estremamente aggressivo e violento. Eccezionalmente capace con l’arte della spada e, soprattutto, abilmente violento nello sferrare colpi da maestro già all’età di tredici anni nonostante ne dimostrasse molti di più, Musashi, divenne presto un guerriero samurai conosciuto e temuto, perennemente errante in un pellegrinaggio senza meta alla ricerca di avventure e affermazione personale, ricercato dai grandi signori terrieri che guerreggiavano tra loro per averlo nelle rispettive corti come se fosse un trofeo vivente da mostrare.

Documenti storici del tempo riportano delle sue gesta indicibili durante più di sessanta battaglie ed incontri, senza mai una sconfitta e prima ancora che compisse i trent’anni. A quell’età abbandonò i duelli per studiare l’applicazione della sua straordinaria ed unica strategia al combattimento tra gli eserciti e, nei successivi vent’anni, si persero quasi le tracce delle sue imprese.

All’alba dei cinquant’anni tornò ad essere conosciuto al mondo, non più per i combattimenti, ma per la sua opera artistica che spaziava dalla calligrafia alla pittura e scultura, dalla poesia alla saggistica, ma soprattutto alla forgiatura della tsuba, ovvero le else delle spade, di cui si dice, leggendariamente, che ve ne siano ancora in uso alcune nell’odierno Giappone. Ormai anziano e quasi al termine della sua Via, all’età di sessant’anni e autoconfinatosi nella caverna di Reigendo, meta ancora oggi di pellegrinaggio da parte dei suoi seguaci, scrisse sotto forma di lettera ad un suo allievo il Gorin-no-sho (al secolo Il Libro dei Cinque Anelli) e il Dokko-do un insieme di diciannove precetti conosciuti come La Via Che Bisogna Percorrere Da Soli, documenti ancora questi studiati spasmodicamente e alla base della cultura giapponese.

Il Libro dei Cinque Anelli, considerato insieme a pochissimi altri, un classico e fondamentale trattato dell’arte della guerra, è datato intorno al 1645 secondo quanto scritto dallo stesso autore ed è formato da cinque capitoli, ognuno dei quali riporta il nome di uno degli elementi che secondo l’autore costituivano il mondo: terra, acqua, fuoco, aria, vuoto.

Nel primo, il Libro della terra, sono esposte le concezioni strategiche ed esistenziali dell’autore il quale scrive delle diverse vie che un uomo può scegliere di intraprendere nella propria vita, come la via della religione, quella della letteratura, dell’arte del tè o del tiro con l’arco. La scelta della via da seguire dipende dalle proprie inclinazioni e chi sceglie la via della strategia, della guerra e il cammino del guerriero è chiamato a rispettare la mentalità del bushi, cioè del guerriero e dell’essere essenzialmente pronto alla morte. In questo capitolo Musashi introduce la sua personale tecnica di combattimento con la spada, ritenuto fondamentale e con la sola finalità di trionfare in qualsiasi modo sull’avversario o sugli avversari. L’autore parla di una strategia efficace in tutte le occasioni, figlia di un addestramento particolare, senza il quale non la si può padroneggiare.

Il Libro dell’acqua è il secondo capitolo ed ha un taglio estremamente pratico e applicativo. Musashi, spiegando ed addentrandosi nella spiegazione tecnica del suo stile, insegna come la sua strategia e la sua mentalità siano basati, fondamentalmente, sull’acqua, elemento in grado di conformarsi perfettamente al ercipiente nel quale si trova.

Tanto nella vita quotidiana che nella strategia che scegliamo di applicare alla nostra vita, dobbiamo essere semplici e diretti, di larghe vedute, essendo in grado di affrontare le varie situazioni senza tensioni e senza vivere uno stato di estrema rilassatezza.

È necessario concentrare la mente sull’obiettivo, senza pregiudizi né preconcetti, perché bisogna essere in grado di calmare la mente, senza permetterle di indugiare neppure per un attimo, rimanendo presenti a sé stessi e concentrati sul momento del presente.

Diventa fondamentale l’insegnamento del non esitare sulla propria debolezza o sulla parzialità, con una mentalità aperta affinché la mente si accosti alla saggezza e alla gentilezza, coltivandole. Per evitare che gli altri prendano il sopravvento su di noi, bisogna saper percorrere tutte le vie delle arti e delle abilità individuali e, quando come guerrieri saremo in grado di praticare le arti, allora solo in quel momento, avremmo acquisito la saggezza e la gentilezza come qualità strategiche.

La parte centrale dell’opera è il Libro del fuoco nella quale emergono le possibilità di applicazione del kenjutsu – l’uso della spada –non solo alla pratica dei combattimenti ma anche in altri campi.

Musashi scrive dell’importanza del predisporsi in rapporto con l’ambiente e con i fini del trionfo facendo che nulla possa ostacolarci, al punto da avere sempre una via di fuga in caso di necessità.

Importante diventa il rapporto con il nemico, qualsiasi esso sia, perché non diventi elemento di sopraffazione ma, addirittura lo si conosca al punto tale da riuscirlo a prevenire o anticipare e, applicando questa strategia su larga scala, significa saper vagliare l’avversario, conoscendone la mentalità per poterlo attaccare inaspettatamente.

Nel Libro dell’aria Musashi sembra interrogare il lettore nell’arco dei secoli se l’abilità tecnica sia sufficiente a garantire la vittoria e, l’uso della spada e la sua scelta nel combattimento, diventa una parafrasi del fatto che tutto dipende da come ci applichiamo a ciò che affrontiamo. Non bisogna ragionare in termini di forza o debolezza del colpo che si infligge, ma bisogna comprendere ed essere pronti a colpire e basta, senza esitazione e senza bloccarsi.

L’ultimo capitolo, il Libro del vuoto, anche se lievemente differente nella struttura, tratta sempre in modo concreto la questione del combattimento. Nella concezione dell’epoca, il vuoto era il non-esistente e non era l’incomprensibile. Musashi, filosoficamente, non ammette un limite alla conoscenza ma, allo stesso tempo, ritiene che il vuoto non può essere oggetto di conoscenza ed è dove non c’è alcuna forma o corpo. Appare, questa idea del vuoto qualcosa di profondamente incomprensibile, soprattutto a noi occidentali che non siamo abituati a vivere la nostra vita attraverso una visione filosofica totalizzante, ma è conoscendo l’esistente che si può conoscere il non-esistente. Il senso di questa profonda visione filosofica è che con una mente salda e libera dobbiamo applicarci costantemente, senza alcun segno di cedimento e diventa necessario, dunque, studiare i due aspetti più importanti che ci compongono, il cuore e la mente e, solo in questo modo, ci sarà possibile conoscere il vero vuoto.

Se invece osservassimo le cose intorno a noi secondo i principi generali del mondo, noteremo (solo) l’esistenza di preconcetti e distorsioni che ci discosterebbero dalla Vera Via. Allora il nostro scopo é quello di cercare di conoscere il nucleo e prendere come punto di riferimento la realizzazione della vera via, cercando di migliorare sempre noi stessi e quello che ci circonda.

Ma perché la filosofia orientale, soprattutto quella legata al leggendario mondo dei Samurai, diviene strumento di formazione?

Il Giappone dei Guerrieri è sempre stato, nell’immaginario comune, un argomento quasi favolistico intriso di magia e leggenda, ispiratore di filosofie orientali che sono arrivate in occidente, che hanno gettato le basi per numerose pratiche sportive esportate oltre l’area geografica cino-giapponese e che sono diventate vere e proprie strategie di formazione.

I suoi precetti relativi al combattimento e alla riuscita in qualsiasi impresa forniscono lezioni preziose a chiunque affronti circostanze impegnative, ai militari come agli uomini d’affari, agli atleti come, globalmente, a tutti i “guerrieri” della vita di ogni giorno ed è proprio per questo che Il Libro dei Cinque Anelli è considerato un caposaldo della formazione per i manager in America, Giappone e Germania.

La cultura dei Samurai, sviluppatasi in un periodo di più di settecento anni ed esemplificata nel libro ceh vi abbiamo presentato oggi, influenza ancora oggi ogni aspetto del modo di pensare e di agire dei giapponesi.

Molti di loro, infatti, più o meno consapevolmente, conformano i propri atteggiamenti al pensiero e al modo di agire di Musashi, compreso il sacrificio per gli ideali e il costante allenamento per raggiungere la perfezione.

È per questo che, ripetutamente nell’arco della storia della formazione ed oggi più che mai, le classi dirigenti e le persone ai ruoli di comando, ricevono direttamente ed indirettamente formazioni strutturate seguendo gli antichi precetti filosofici dei guerrieri di tempi lontani. L’idea del sacrificio, dell’eccellenza da raggiungere, della lungimiranza sugli altri, sono tutti concetti ai quali, ormai, siamo abituati negativamente, mentre invece dovrebbero essere filosoficamente interpretati come nell’antichità, perchè non dovremmo mai dimenticare che la mente dovrebbe accostarsi alla saggezza e alla gentilezza, coltivandole e dovremmo mettere in pratica quanto scritto secoli fa anche se al posto dell’armatura siamo vestiti nel rispetto dei dress code moderni.

Francesca Tesoro