Sistema Salute: come (non) raccontare l’HIV

Di recente abbiamo quasi tutti sentito parlare di Valentino T., arrestato nel 2015 e accusato di aver infettato più di trenta donne contattate in chat; o di Claudio P., il cosiddetto “untore” che ha contagiato più di duecento donne conosciute in rete. Ho deciso di riferirmi a questi due casi per evidenziare come i media, e più in generale, le istituzioni siano riuscite a plasmare ed imprimere una determinata immagine del malato di HIV. Tralascerò dunque qualsiasi giudizio sulla colpevolezza dei due soggetti.

Il virus dell’HIV ha una storia alquanto controversa: molti sono stati i dibattiti sulla sua origine e altrettanto numerosi gli scontri riguardo le modalità di trasmissione. Fin dalla prima ondata di contagi, risalente circa alla fine degli anni Novanta, la malattia ha portato con sé una forte componente discriminatoria e di condanna morale, soprattutto nei confronti di chi veniva considerato parte di una delle tre “categorie a rischio”: omosessuali, tossicodipendenti e prostitute. Nel tempo, le stime sulle infezioni hanno mostrato che anche tra gli eterosessuali il numero di contagi è aumentato, e anche se oggi se ne parla poco, la situazione italiana resta critica. Come possiamo giustificare questo silenzio? E che ruolo giocano i media rispetto a tematiche quali l’educazione e la responsabilità sessuale? Bisogna spingersi oltre la semplice cronaca. I giornali infatti, attraverso l’uso di un linguaggio superficiale, in grado di far presa sui sentimenti delle persone, hanno trasmesso l’idea del sieropositivo come figura sociale “deviante”, raccontando storie spesso imprecise che non rendono seriamente conto di alcune problematiche.

Se prendiamo in considerazione gli articoli su Valentino e Claudio, innanzitutto, notiamo che in quasi nessun articolo della stampa tradizionale si fa riferimento alla terapia: i due ragazzi non erano in cura, infatti. Sotto il profilo scientifico, la questione del regime terapeutico continua a essere tralasciata come se si trattasse di un aspetto secondario, dimenticando che, ad oggi, chi segue le cure riesce a non essere più infettivo. Cosa significa? Il virus resta nel corpo ma, grazie a specifici cocktail di farmaci, esso perde la sua capacità di contagiare, rendendo di fatto la persona non infettiva – o undetectable. Continuando a tacere sulle reali dinamiche inerenti all’HIV e all’AIDS, di fatto, si è rimasti legati a un immaginario – quello dei primi anni Novanta – caratterizzato da toni drammatici e apocalittici. Neppure le campagne informative del Ministero della Salute hanno mai reso noti i reali avanzamenti compiuti dalla biomedicina, insistendo al contrario su aspetti di natura morale e stereotipata che a poco sono serviti, e che anzi hanno contribuito a marginalizzare i malati veri e propri. Bisogna altresì riconoscere a onlus e associazioni come LILA, Plus Onlus, Anlaids, NPS Italia – per citarne alcune –, che negli anni hanno saputo fare informazione in modo accattivante, il merito di aver combattuto il pregiudizio, creando i presupposti per un discorso libero e socialmente rilevante.

Se scaviamo nelle vecchie pubblicità o nei messaggi di prevenzione del Ministero della Salute, possiamo notare come sia stato veicolato un messaggio ben preciso, utilizzando un linguaggio mediamente colloquiale che ha insistito sui concetti di vita sana e pratiche sane, riconducibili in ultima analisi ai valori approvati dalla società o dalle istituzioni religiose. Basti pensare alle molte pubblicità in cui si sottolineava l’importanza di mantenere una “normale vita di coppia” – ma “normale” per chi? Penso anche alle modalità con cui il preservativo è stato presentato come mezzo utile a proteggersi dall’HIV, dedicando scarsa attenzione alla varietà di malattie che possono essere contratte in un rapporto. E ancora: la famosa pubblicità dell’alone viola, che molti ricorderanno, in cui un’aura violacea avvolgeva i malati di HIV, classificandoli quindi come un’alterità da evitare.

Torniamo ora all’immagine dell’untore evocata dai mass media, a proposito delle vicende di Valentino e Claudio: chi erano gli untori? Si trattava di coloro che, durante la peste di Milano del 1630, erano sospettati di diffondere il batterio ungendo persone e cose. Utilizzando questo termine, dunque, si rimanda implicitamente alla peste e viene plasmata un’idea ben precisa di malato. Strategia efficacissima se si vuole diffondere il terrore e dar vita a una seconda “caccia alle streghe”. Non è in ogni caso la prima volta che i media si riferiscono all’HIV associandolo alla peste: negli articoli risalenti agli anni Duemila, si parlava, ad esempio, di «Male oscuro», «Peste del Duemila». Perché proprio la peste? Di solito, tale metafora viene utilizzata per malattie che hanno un forte impatto sulla popolazione e, generalmente, porta con sé l’idea di una punizione divina; inoltre, vengono definite delle “pestilenze” quelle epidemie che modificano il corpo – che, nel caso dell’AIDS, può accadere a causa delle infezioni opportunistiche –, rinforzando di fatto un’immagine negativa del virus.

Negli articoli che riguardano Valentino e Claudio si è parlato molto del numero di ragazze conosciute in chat – «Duecento rapporti non protetti», come riportato da Il Messaggero. È stata riproposta, di fatto, l’immagine del sieropositivo “anormale”, che ha solo rapporti occasionali e le cui pratiche sono tendenzialmente condannabili.

Di certo non è semplice rispondere, rinvenendo un nesso causale chiaro, al perché delle azioni di questi due ragazzi. Volendo rintracciare i nodi critici legati all’esperienza di un sieropositivo, sicuramente bisogna far presente che, purtroppo, la biomedicina ad oggi non risponde a tutti gli interrogativi e alle esigenze di un malato – ragion per cui sono numerosi i gruppi di auto-aiuto a cui le persone sieropositive si rivolgono per cercare conforto e supporto. Proprio l’ambiente medico è terreno di scontro di racconti – e non-racconti, i racconti negati – con cui provare a interpretare la propria condizione, e laddove il medico non è in grado di affrontare le dinamiche socioculturali della malattia sembra che il ruolo del counselor risulti molto più efficace. Non si può tuttavia negare che, a fronte di racconti istituzionali e mediatici in grado di imporsi, l’esperienza di un sieropositivo è spesso caratterizzata dalla marginalità. Marginalità che può portare a una mancanza di fiducia pressoché totale nei confronti dei sistemi istituzionali, al punto da indurre alcuni soggetti a sposare teorie e pratiche che mancano di fondamenti scientifici dimostrabili – penso alle tesi dello scienziato Peter Duesberg, ad esempio, che ha negato la correlazione HIV-AIDS. Spesso questo si traduce in azioni scellerate, nell’interruzione dell’assunzione dei farmaci, nell’isolamento, nella menzogna; credo in ogni caso che, da un punto di visto antropologico, queste persone stiano cercando di rispondere a interrogativi fondamentali: perché mi è successo questo? Perché proprio a me? Perché non sono normale? Le “scelte” di Valentino e Claudio riflettono, evidentemente in negativo, il fallimento del sistema medico e istituzionale. Provando ad azzardare un’ipotesi, il contagio volontario di più persone potrebbe corrispondere al tentativo di assimilare alla propria condizione quella degli altri. Volendo semplificare: se io non sono normale, vi rendo simili a me, annullando le differenze. L’analisi dei fatti dovrebbe risalire a monte di queste vicende, tuttavia, cosicché possano essere chiarite da una prospettiva più ampia. La sofferenza provocata ingiustamente da questi due soggetti forse origina da dinamiche di natura culturale che continuamente riaffermano dicotomie pericolose ed escludenti.

Il racconto dell’HIV, volendo andare al cuore del problema, ripropone implicitamente una convenzione socioculturale fortissima: il sesso è tabù. Il discorso sulla sessualità, da un punto di vista istituzionale e mediatico, continua a essere un “problema morale”. In uno spot recente, messo in onda dal Ministero della Salute, l’attrice Giulia Michelini viene ripresa davanti allo specchio; la situazione lascia intuire che si sta preparando per un appuntamento. Prende in mano dei profilattici e subito si sentono delle voci di dissenso, così l’attrice li lascia cadere tutti e ne tiene solo uno. Le voci approvano, come sollevate. È importante sottolineare che non si parla solo di HIV nel video ma più in generale delle malattie sessualmente trasmissibili, tuttavia notiamo come vengano costantemente espressi dei giudizi sui comportamenti sessuali. È necessario che il discorso sulla sessualità venga rimodulato, insistendo meno sulla moralità delle pratiche per concentrarsi sulla responsabilità relazionale. Superata la sterile problematica morale si potrebbero indagare aspetti più interessanti, quali il diritto alla sessualità e al piacere. E forse, così facendo, eviteremmo di ricadere nella classica dicotomia “sano-malato”, “normale-promiscuo”.

Proponendo l’immagine del sieropositivo-untore, infatti, si rischia di elidere la componente intersoggettiva che caratterizza il discorso sulla responsabilità e sulla tutela della propria salute sessuale. Un ragazzo sieropositivo mi spiegò molto chiaramente il suo pensiero: «La responsabilità è al 100% mia e al 100% tua». A tal proposito credo che i programmi di educazione sessuale nelle scuole possano rivelarsi fondamentali. In Italia, l’educazione alla sessualità purtroppo non è ancora un insegnamento obbligatorio, e le istituzioni non sembrano particolarmente interessate ad affrontare la questione. È chiaro, tuttavia, che se fosse possibile integrare nei sistemi scolastici dei percorsi di educazione alla salute sessuale e al piacere, si potrebbe mutare la percezione del rischio, ridurre i contagi ed evitare di relegare ai margini i malati. La sfida per il futuro è dunque questa: decostruire il tabù della sessualità e ampliare il discorso sulla salvaguardia delle pratiche sessuali, insistendo sul tema della responsabilità e del benessere.

Alice Gattari

Sistema Salute: mediare la malattia, Antropologia e Sieropositività

Che cos’è la malattia? Generalmente la definiamo come un’alterazione nel funzionamento del nostro organismo che si contrappone al benessere, ovvero allo stato di salute. Comprendere, però, che cosa sia l’esperienza di malattia o di salute, significa non solo indagare gli aspetti legati alla sfera medica, ma anche considerare le dinamiche sociali, culturali, politiche ed economiche che influenzano il vissuto del malato, applicando concretamente un vero e proprio approccio sistemico al tema della salute pubblica.

Mi sono interessata all’antropologia medica – e in particolare al tema dell’HIV/AIDS – poiché volevo comprendere come, concretamente, la malattia potesse condizionare la dimensione socio-culturale delle persone. Mi sono dunque chiesta: come vive oggi un sieropositivo? Ho iniziato un lavoro di ricerca nella primavera del 2017, rivolgendomi a varie associazioni che operano nell’area dell’Emilia-Romagna. Attraverso alcune onlus ho avuto la possibilità di incontrare sia operatori, sia persone che vivono con l’HIV, alle quali ho chiesto di raccontarmi le loro storie, i loro problemi e le loro impressioni. Ho organizzato le interviste – o meglio, “chiacchierate informali” – in diversi bar di Bologna, proprio per infrangere la barriera ricercatore-intervistato.

Mi interessava principalmente comprendere se e come la vita di una persona sieropositiva cambiasse dopo aver ricevuto la diagnosi. Parlando con i miei interlocutori ho appreso che molti aspetti della quotidianità subiscono un mutamento radicale, proprio a causa della malattia: le relazioni, il lavoro, le abitudini, e infine la percezione del proprio sé. Siamo abituati a pensarci come studenti, professori, lavoratori – categorie sociali ben precise, insomma; ma cosa succede quando ci ammaliamo? Molte delle persone sieropositive con cui ho parlato mi hanno confessato di sentirsi unicamente come “individui malati”, diversi dagli altri, cioè le persone sane. Evidentemente, bisogna interrogarsi sulle ragioni di questa presunta diversità.

Non è forse la società stessa in cui viviamo a esigere classificazioni rigide e nette? Il rischio è che la malattia si sovrapponga all’identità di una persona, fino a escluderla completamente dalle reti sociali convenzionali.

A tal proposito, alcuni dei miei interlocutori mi hanno raccontato di aver avuto non poche difficoltà a stabilire nuove conoscenze. Come ci si deve comportare? Bisogna confessare la malattia? Quale reazione aspettarsi da parte di altre persone? Quando si è malati, soprattutto nel caso dell’HIV – patologia segnata da molti pregiudizi – è realmente difficile trovare risposte a queste domande. I sieropositivi si sentono – e spesso lo sono ancora – vittime di atteggiamenti stigmatizzanti che aumentano il loro senso di “diversità”, e che li spingono, talvolta, ad adottare comportamenti particolari. Molti di loro, infatti, decidono di soffermarsi a delle conoscenze superficiali, senza mai approfondire i rapporti, così da non doversi sentire obbligati a confessare il proprio stato sierologico; altri invece decidono di chiudersi nel silenzio. Un silenzio estremamente carico di significati: esso può infatti rappresentare la paura di ammettere le proprie “colpe”, o addirittura il timore di restare soli.

La malattia, dunque, cambia la vita delle persone sieropositive su più livelli. Tenendo gli altri allo scuro, diventa possibile attuare anche delle particolari strategie di occultamento della propria condizione. In questo senso, i farmaci subiscono un processo di “sottrazione mimetica”. Vale a dire: l’assunzione delle pillole previste dalla terapia viene spesso tenuta nascosta, pur essendo per i sieropositivi un elemento imprescindibile della loro quotidianità; per tale ragione, alcuni degli intervistati mi hanno rivelato di aver adottato particolari strategie, con l’obiettivo di “normalizzare” quest’aspetto della malattia: al collega di lavoro uno dirà che sta assumendo semplici vitamine, all’amico si parlerà di integratori e con un conoscente si farà attenzione a non destare sospetti. È bene ricordare che, rispetto alle pesantissime terapie degli anni Novanta, oggi i farmaci prescritti garantiscono la possibilità di condurre una vita “normale”; inoltre, grazie ai progressi degli ultimi anni in campo biomedico e farmaceutico, la malattia può divenire cronica, rendendo il soggetto non più infettivo. L’aspetto della cura – intesa come azione che, oltre all’aspetto medico, investe le dinamiche sociali e culturali della malattia – in ogni caso presenta non pochi problemi, proprio a causa del pregiudizio che da più di trent’anni condiziona la storia di questa patologia.

In conclusione, questi sono alcuni degli aspetti, a volte ritenuti collaterali, che caratterizzano l’esperienza di malattia di un sieropositivo. Come gestire le relazioni sentimentali, come affrontare la vita lavorativa, come combattere il pregiudizio, come comportarsi nei confronti dei farmaci, come poter esprimere un proprio giudizio riguardo l’efficacia della terapia; sono tutte questioni che diventano fondamentali per una persona che vive con l’HIV. Temi che, tuttavia, non sempre vengono affrontati negli ambienti ospedalieri. Molte delle persone con cui ho parlato si sono rivolte a strutture esterne all’ospedale, così da potersi confrontare in merito ai loro problemi, anche quelli non strettamente legati alla sfera medica – c’è, infatti, la necessità di discutere realmente tutti gli aspetti investiti dalla malattia. Alcuni vorrebbero aver la possibilità di confrontarsi sulla terapia e sull’efficacia dei farmaci, anche e soprattutto dal loro punto di vista; altri vorrebbero poter parlare di aspetti che riguardano la sfera sociale, relazionale e culturale – aspetti che, se non si è parte di un gruppo di auto-aiuto o di un’associazione, non vengono quasi mai affrontati. Ai fini di un approccio sistemico che coniughi tutti questi aspetti, diviene, perciò, fondamentale la figura dell’antropologo, che grazie alle sue conoscenze è in grado di supportare il paziente, valorizzare le sue esperienze e intercettare le criticità che caratterizzano la sua condizione di malattia. In questo modo è possibile creare le premesse per un dialogo più efficace tra medico e paziente, garantendo a entrambi la possibilità di far valere le ragioni sia della scienza medica, sia del vissuto quotidiano, così da poter raggiungere il miglior compromesso, e quindi una miglior efficacia terapeutica.

Alice Gattari