Luca Mollica: l’IIT e l’Approccio Sinergico

 

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Ottima scienza, ma non solo. Nella ricerca scientifica con una forte vocazione aziendale, a metà fra il mondo accademico e quello dell’impresa, la buona competitività, le collaborazioni in approccio sinergico, i progetti start-up e le applicazioni a livello industriale inquadrano uno scenario complesso ed estremamente ramificato. Per capire cosa significa “fare ricerca” oggi, non è più possibile rivolgersi esclusivamente ai grandi scienziati del passato, come Albert Einstein o Rita Levi Montalcini. La domanda che ci si pone attualmente di fronte ad un nuovo progetto è: questo tema è interessante, ma soprattutto è utile? In una realtà in movimento ed orientata per ragioni strategiche verso la settorializzazione, il Dott. Luca Mollica ci restituisce la sua esperienza come ricercatore: una storia che promuove l’eccellenza di un centro fondamentale della ricerca italiana, IIT, Istituto Italiano di Tecnologia, ma non solo. E’ anche un invito, tanto per i settori di competenza quanto per i singoli che operano all’interno del sistema, a non concentrarsi solo sulla produzione di dati ma a mantenere sempre una visione d’insieme, sublimata da conoscenze trasversali. Perché questo è positivo per l’approccio sistemico? Perché ammette la curiosità come motore propulsore, alimenta la conoscenza, stimola la creatività e crea nuovi orizzonti professionali. In definitiva, consente di recepire informazioni derivanti da altri sistemi, restituendo alla fine una misura del campo in cui si lavora ed in cui si vive. E’ la possibilità di tracciare una mappa e dire: io sono qui.

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Come nasce e qual è la mission di IIT? 

IIT è nato da un progetto governativo del 2003 che prevedeva in Italia la nascita di un istituto dedicato al trasferimento tecnologico dalla ricerca di stampo accademico all’impresa con finalità e ricadute applicative.
L’Istituto Italiano di Tecnologia nasce come fondazione di diritto privato e ha una struttura ramificata sul territorio: tra questi il quartier generale che risiede a Genova, due centri a Milano, uno a Roma, uno a Torino, uno a Napoli, uno a Ferrara ed uno a Trento. La mission di questi istituti per l’eccellenza scientifica è di trasferire risultati del lavoro di ricerca scientifica che si svolge al loro interno verso progetti ad alto impatto tecnologico con una potenziale industriale.
Sebbene sia un ente statale (afferente al Ministero del Tesoro), IIT ha una struttura di tipo aziendale che si richiama a quella degli istituti “Max Planck” tedeschi. In senso più’ generale IIT vuol porsi all’interno della struttura della ricerca scientifica e tecnologica del paese come un istituto in grado di assumere competenze che siano allo stesso tempo in costante dialogo ma ortogonali come finalità con quelle dell’Università da un lato e del CNR dall’altro, come già accade in altri paesi la cui ricerca ha un ruolo di primo piano a livello globale (USA e Germania).
Relativamente alla mia attività e al mio settore faccio parte di una rete di ricercatori che si chiama Compunet che ha lo scopo principale di usare tecnologie di simulazione numerica per affrontare problemi ad alto impatto scientifico e tecnologico, riguardanti principalmente le bioscienze e le scienze dei materiali. Compunet è una rete diffusa su tutta Italia, con sede principale a Genova ma ramificata su tutto il territorio, e prevede al suo interno contratti per il dottorato di ricerca o per l’attività post-dottorale di ricerca che abbiano come obiettivo di sviluppare questa tipologia di progetti. Inoltre la rete si configura come una sorta di dipartimento trasversale per avere non solo risorse ma anche competenze di calcolo. Per fare un esempio, io mi occupo di interazione tra farmaci e proteine, ma sono affiancato (tra gli altri) da un collega che si occupa di Scienze dei Materiali dal punto di vista computazionale: due filoni della chimica fisica che però parlano a mondi fra loro completamente diversi.

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IIT è una realtà in evoluzione. Come definirebbe in poche parole il proprio ruolo all’interno dell’Istituto e del progetto di ricerca “Compunet”?

IIT rappresenta un work in progress: io sono arrivato a Genova quando la struttura dipartimentale era più basata sulla sede genovese, mentre ora si sta avviando verso una fase di transizione. In Compunet ho la fortuna di lavorare in senso trasversale con il compito di creare la massima visibilità, efficacia e capacità di creare networking con altri gruppi, dalla collaborazione individuale a quella istituzionale.
In questo momento la struttura di IIT sta cambiando ed estendendosi, in quanto è prossima la creazione del polo tecnologico a Milano, Human Techopole (HT), che si estenderà su tutto il territorio dell’area milanese dell’ex-Expo. Questo progetto, che dovrebbe durare trentacinque anni nella sua fase di crescita e stabilizzazione, si concentra su tutto ciò che compete la crescita e lo sviluppo delle tecnologie volte a migliorare le condizioni di vita umane: cibo, salute, nuove tecnologie, nuovi materiali e robotica.

In che modo coesistono competenze così diverse in termini di collaborazione interna ed esterna all’Istituto? Quali sono i suoi punti di forza?

All’interno di IIT esistono diverse competenze. Per quanto riguarda il mio settore di afferenza, la molteplicità tematica deriva dalla storia del Dipartimento a cui faccio capo, detto in origine D3 (Drug, Discovery and Developement) che si configurava come realtà unica assieme a due altri assi tematici (oltre alla sezione computazionale), ovvero la chimica di sintesi e la farmacologica.
Oggi queste realtà sono state rese in parte indipendenti fra loro per ragioni in larga misura strategiche, ma queste competenze sono tuttora in costante collaborazione: in un mondo altamente specializzato come quello della ricerca scientifica la comunicazione è essenziale.
In termini di collaborazione esterna gioca un ruolo importante cercare il collaboratore “giusto”, ossia in grado di complementare le proprie competenze su filoni di ricerca effettivamente appealing sia dal punto di vista scientifico che economico: IIT in tal senso si configura come un partner che può offrire il meglio per la disponibilità sia tecnologica che finanziaria.
Esiste all’interno di IIT una grande capacità di creare buona scienza e applicazioni di ottimo livello, ma non solo: IIT ha una capacità unica in Italia di creare start-up. Di una di queste in particolare sono anche collaboratore: si chiama BiKi (Binding Kinetics) Technologies ed è nata formalmente un anno fa con lo scopo di fornire alle aziende un software (BiKi per l’appunto) che permette di manipolare informazioni relative alla struttura delle molecole e di creare dei modelli previsionali per mezzo di interfacce intuitive e veloci. Inoltre ove necessario e’ in grado di fornire anche il miglior know-how disponibile per lavorare in tal senso in modo ottimale.

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L’approccio sistemico in tre parole: crescere, velocizzare, semplificare. Dove e perché questi concetti costituiscono un vantaggio?

L’approccio sistemico consiste nell’interpretare correttamente i bisogni del cliente, delle aziende o dei collaboratori (sia interni che esterni), in modo da approntare la strategia migliore in funzione del progetto.
Spesso nel recente passato si sono utilizzate tecnologie lente, onerose o poco funzionali semplicemente perché rappresentavano la migliore offerta disponibile al momento (ad esempio per un rapporto qualità/prezzo vantaggioso).
Il nostro approccio è molto più semplice, ad esempio nell’ambito delle collaborazioni di cui si è parlato poc’anzi: ovvero, si è preferito utilizzare una tecnologia più semplice, rispetto al miglior stato dell’arte possibile attualmente, ma applicata “intelligentemente” in modo tale da estrarre informazioni utili anche senza un’estrema finezza di analisi o preparazione o di approccio sperimentale o di calcolo. Questo perché l’efficacia e la velocità d’uso di un metodo corrisponde alla semplicità d’uso da parte dell’organizzatore.
Cerchiamo inoltre preferenzialmente collaboratori che sappiano dare un feedback sul nostro operato: l’industria, che è un grande contributore in quanto potenziale primo utilizzatore, e l’accademia, dove l’utilizzo avviene con ritmi leggermente più bassi e con priorità differenti ma con maggiore cura di dettagli significativi per valutare la bontà dei nostri metodi.
Crescere è in linea di principio facile, in questo mondo della ricerca, sebbene poi le condizioni per farlo possano rivelarsi strada facendo avverse. Nel caso di una start-up, per esempio, crescere significa avere più contratti di anno in anno, in modo da avere una rete di contatti (il famoso networking!), denaro da investire nelle persone che possono lavorare nell’azienda e un accrescimento del know-how. Parlando più personalmente e della dimensione del singolo, invece, penso che ‘crescere’ significhi avere la capacità di creare un nuovo network collaborativo tale da ampliare l’orizzonte culturale e creare di volta in volta qualcosa di nuovo, rivolgendosi a quanti più problemi possibili, simili fra loro, ma mai uguali a quello di partenza.

Un suggerimento che darebbe a chi si affaccia al mondo della ricerca oggi.

L’IIT ha una importante componente educazionale, composta di studenti di dottorato e tesisti, che si rivela essere una risorsa fondamentale per la crescita. Muovendomi da una critica sistemica e del presente stato di salute della ricerca, in questa realtà al giorno d’oggi il rischio soprattutto per un nuovo arrivato è l’eccessiva settorializzazione, ovvero diventare un generatore di dati: questo aspetto ricade in primis sugli studenti (in tesi di laurea o all’interno di un dottorato di ricerca), sottraendo loro capacità critica e visione d’insieme, tagliando le ali alla loro curiosità perché “il tempo e’ sempre troppo poco, si deve fare in fretta”. Meglio sarebbe riuscire a progettare, pensare e studiare prima di farsi influenzare troppo dalla pressione della produzione … certo senza perderla di vista!
Il consiglio che do a chi si avvicina al mondo della ricerca è prima di tutto capire che cosa vuol dire fare ricerca oggi, in un’epoca di trasformazione epistemologica ed economica. Il suggerimento è di impegnarsi in un tema complesso, con la fortuna di avere un supervisore/tutor cosciente della difficoltà del progetto che non pretenda un risultato troppo rapidamente; inoltre penso sia importante riuscire a ritagliarsi sempre un tempo per ragionare sulla sua natura del problema “out of the box”, in maniera più completa possibile. Un esempio posso trarlo dalla mia esperienza: io mi occupo di simulazioni al calcolatore di biomolecole e loro interazioni e di spettroscopia molecolare e, nonostante sia un chimico fisico di formazione, ho però scelto di conseguire un dottorato di ricerca in biologia cellulare e molecolare: durante questo periodo di formazione ho capito che, ottenendo informazioni da altri sistemi e da altri settori scientifici, riuscivo a comprendere esattamente la vastità e complessità del campo in cui mi sto tuttora muovendo.
IIT ha una forte necessità di interfacciarsi con una realtà estremamente applicativa: è il modo contemporaneo di fare ricerca, l’arte per l’arte, ovvero fare qualcosa “per la bellezza del gesto”, nel mondo di oggi non ha più senso. Esiste un commitment che pretende risposte precise e con una certa finalità, sia nell’incipit di un progetto, sia nella richiesta di un finanziamento per la ricerca. Non è più sufficiente solo l’interesse, si rende necessaria l’utilità, ovvero se il target è appealing.

“Thinking out the box”: ci racconti un’esperienza positiva del percorso che l’ha portata a comprendere l’importanza di un approccio trasversale.

Potrei raccontare di come sono arrivato in IIT. Dopo la tesi di laurea su un argomento afferente alla Scienza dei Materiali (superconduzione di materiali inorganici), durante il periodo di servizio civile presso l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano, mi sono appassionato alle bioscienze. In seguito ho lavorato al San Raffaele per sette anni, dove ho cominciato ad occuparmi di spettroscopia molecolare e di simulazioni al calcolatore.
Quest’ultima esperienza era una sfida in cui si partiva da zero: il mio capo dell’epoca, la dottoressa Giovanna Musco, ricevette uno “starting grant”di Telethon per l’avviamento della attività di un laboratorio di ricerca. Quando ho cominciato quindi, in laboratorio eravamo io, il mio capo ed un tecnico e non avevamo altro che due scrivanie ed un bancone per lavorare! In breve tempo abbiamo cominciato a crescere, il gruppo si è ampliato, ci siamo spostati in un’area più grande ed abbiamo ottenuto risultati decisamente molto buoni. Dopo sette anni terminavo la mia esperienza e ho deciso di andare in Francia (a Grenoble) per occuparmi sempre di spettroscopia molecolare; nel frattempo avevo cominciato a lavorare alla modellistica molecolare, quindi mi dividevo tra misure e modelli numerici per interpretarle, dedicando a questi ultimi sempre maggior tempo fino a farne la mia attività principale o quasi unica di ricerca. Dopo quattro anni mi sono rivolto all’IIT ed ho fatto domanda per fare parte di Compunet: il mio era un curriculum vitae “ibrido”, in quanto avevo competenze trasversali, e pensavo di esserne svantaggiato. Tuttavia, quando sostenni il colloquio notai invece un forte interesse verso il rapporto tra la mia attività sperimentale del passato e la mia attività computazionale del presente, e verso il metodo che avrei utilizzato per lavorare sui dati: quando fui assunto, compresi dunque che il valore aggiunto non stava nella specializzazione ma nella capacità di mettere in relazione due mondi professionalmente distanti, ponendo le domande giuste al sistema e bussando alla porta del vicino che sa porre domande migliori delle tue. In sostanza sono arrivato sulla scorta di un disegno che vuole il sincretismo come filosofia dell’Istituto. Ed e’ una filosofia di vita e di fare ricerca che adotto sempre in ogni cosa di cui mi occupo, nel mio lavoro ma non solo.

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A quali progetto si sta dedicando in questo momento? Quali sono gli obiettivi futuri?

Attualmente mi sto concentrando su due diversi aspetti della chimica fisica delle biomolecole: la prima è la capacità di interpretare i dati sperimentali di velocità ed energetica di rilascio di molecole dalle proteine di interesse farmacologico. Nel 2015 e nel 2016 abbiamo pubblicato due lavori in cui abbiamo mostrato la capacità di implementare ed utilizzare un modello di calcolo del rilascio delle molecole in modo tale da ottenere un ranking corretto.
In tal senso è degna di nota una curiosità relativa alla comunicazione alla comunità scientifica mondiale dei nostri dati: essa incontra soprattutto all’inizio una certa qual “resistenza” da parte del pubblico accademico, che considera in qualche misura troppo semplici i nostri metodi, nonostante portino a dei risultati, mentre la committenza (potenziale o reale) industriale apprezza proprio la rapidità di utilizzo a dispetto del minor grado di complicazione. Questo schema è legato ovviamente alla natura dei due ambienti.
Il secondo tema su cui sto lavorando è la capacità di “parlare” direttamente ai dati sperimentali. Normalmente gli scienziati, sperimentali, teorici e “in silico” (modelli al calcolatore), non comunicano se non in modo qualitativo: lo scienziato sperimentale ottiene un risultato, mentre il teorico ottiene un risultato che potrebbe spiegare il dato sperimentale.
L’obiettivo che mi sono posto (e che tento di proseguire da anni in varie forme) è quello di riuscire quantitativamente a mettere in relazione il modello con il dato sperimentale, attraverso tecniche di simulazione, ovvero estraendo dalla modellistica un valore quanto più vicino ai dati sperimentali. È una questione complessa ma molto utile perché consente di essere estremamente analitici e di trovare il giusto collante fra le due parti.

 

Giorgia Less

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