Donatello Aspromonte: le Start-Up italiane e il ruolo del Mentor

Dopo aver analizzato con Roberto Saliola la crescita economica di Roma e del Lazio nel primo trimestre di quest’anno, allarghiamo i nostri orizzonti, occupandoci del variegato e vivace mondo delle Start-Up italiane e soffermandoci, in particolare, sui dati statistici relativi a questa prima parte del 2019 e sulle criticità di queste realtà.

A guidarci in questo interessante viaggio sarà Donatello Aspromonte, esperto di tematiche finanziarie, Mentor di Start-Up innovative e vicepresidente di Manageritalia Executive Professional, il quale ha risposto alle nostre domande sul ruolo del Mentor come figura istituzionale e di supporto ai giovani imprenditori, aiutandoci ad analizzare correttamente i dati che vedono questo settore in crescita, tenendo, però, conto dei fattori di reale innovatività dei progetti, con riferimento ai concetti di scalabilità e replicabilità di questi.

Non sempre, infatti, i numeri in crescita indicano la reale capacità del Paese di favorire la nascita di Start-Up innovative, ed è proprio qui che il supporto del Mentor svolge un ruolo fondamentale affinchè i tanti e validi progetti appena nati superino positivamente le fasi iniziali di ingresso nel mercato, concretizzando la creazione di prodotti e posti di lavoro.

Come si distingue, dunque, una realtà davvero “start-up friendly”, da una non ancora matura? E come ovviare a tutte le difficoltà, valorizzando i progetti originali e validi dei tanti giovani che si avviano verso questi percorsi? A questo e molti altri interrogativi ha risposto per noi Donatello Aspromonte, delineando linee guida utili a tutti gli addetti ai lavori e non, illustrandoci, tra l’altro, un interessante progetto realizzato da Manageritalia in concerto con le Università italiane, per far sì che, già negli anni della formazione, gli studenti, aspiranti startupper, siano informati e aggiornati in merito.

Qual è la situazione delle Start-Up a Roma e nel Lazio durante il primo trimestre 2019?

Se parliamo di dati statistici, la situazione è questa: le start-up innovative iscritte nel registro delle imprese 30 giugno 2019 sono 10.426, in aumento di 351 unità rispetto a fine marzo e di circa 500 unità rispetto al 2018. Circa il 25% del totale delle start up innovative è ubicato in Lombardia, mentre il Lazio si colloca in seconda posizione, con una percentuale dell’11%.

La situazione quindi è positiva?

Non proprio: ritengo che una lettura poco attenta dei dati statistici possa portare a conclusioni fuorvianti.

Cosa intende?

Intendo dire questo: nel contesto internazionale la definizione di start-up porta con sé due concetti fondamentali, ossia la scalabilità e la replicabilità. Una start-up, per definirsi tale deve avere un progetto di innovazione caratterizzato da una crescita potenzialmente rapida, innestato in un business model che sia facilmente scalabile e replicabile. Se manca uno di questi requisiti non c’è una start-up, ma semplicemente un nuovo progetto di impresa.

E in Italia?

In Italia, invece non è così: da un punto di vista normativo, per essere una start-up innovativa occorre rispettare una serie di requisiti formali, ad esempio quello di inserire nel proprio oggetto sociale le attività di sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti e servizi ad alto valore tecnologico o di assumere personale laureato o con dottorato di ricerca. Per cui esistono dei progetti di impresa che, pur non essendo né scalabili né replicabili, vengono considerati a tutti gli effetti delle start-up, semplicemente perché rispettano requisiti burocratici e normativi.

Quindi il fatto che il numero di start-up innovative cresca non è un indicatore valido della capacità del Paese di favorire la nascita di start-up innovative, giusto?

Esatto. Il fatto che il numero di start-up innovative – nell’accezione normativa italiana – cresca, non comporta necessariamente che l’Italia sia un Paese “start-up friendly” ossia un Paese che favorisca la nascita delle start-up; e difatti non lo è, anche analizzando le utile classifiche dei Paesi dove è più facile creare una start-up, che colloca l’Italia alla 27° posizione, in una classifica nella quale nei primi 10 posti troviamo i soliti noti (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada Germania, Olanda). È un dato di fatto che molte start-up create da giovani italiani siano state costituite ad Amsterdam o a Londra. C’è poi anche un discorso legato alla dimensione economica ed organizzativa delle start-up italiane: su oltre 10.000 start-up innovative iscritte, meno della metà hanno dipendenti e il valore medio dei dipendenti non supera le 4 unità, mentre il valore della produzione medio è di circa 150.000 euro; bastano questi dati per fotografare la dimensione del fenomeno nel nostro Paese, molto lontano dai numeri delle start-up di altri Paesi.

Quali sono le altre problematiche che le start-up italiane incontrano?

Sono diversi, ma quelli secondo me più importanti sono due. Il primo problema è legato alla mancanza di competenze manageriali da parte degli startupper. Sempre più spesso, infatti, i giovani hanno idee veramente brillanti ma non hanno le esperienze necessarie per “metterle a terra”, per sviluppare percorsi progettuali di esplorazione delle potenzialità di mercato della propria idea ed è proprio la mancanza di un serio accompagnamento delle start-up nelle primissime fasi di vita a determinarne l’insuccesso. Purtroppo gli incubatori-acceleratori privati riescono a soddisfare poche richieste di assistenza e preferiscono puntare su start-up con una certa storicità, mentre quelli di derivazione pubblica – soprattutto a carattere regionale – a cui viene demandata la fase di pre-seed, mostrano i segni del tempo, intrappolati in procedure burocratiche e amministrative eccessive.

E il secondo problema?

Il secondo problema è legato alla difficoltà che le start-up riscontrano nel reperire equity, ossia capitale di rischio. Purtroppo il sistema del venture capital italiano non è ancora sviluppato; consideri che, in base ai dati del secondo trimestre 2019, la Gran Bretagna ha messo a segno investimenti di venture capital per 3,2 miliardi, con circa 234 round di finanziamento, mentre la Francia ha raccolto investimenti per 1,4 miliardi con 131 round, seguita dalla Germania (1,3 miliardi di investimenti e 119 round) e dalla Svezia (1,3 miliardi 3 e 58 round). L’Italia è dodicesima con investimenti pari a 100 milioni con 26 round piazzati. Il raffronto tra i diversi Paesi mostra l’arretratezza del nostro Paese su questi temi. A questo si aggiunge anche che le organizzazioni di business angeling ancora non raggiungono le dimensioni di quelle presenti in altri paesi europei. E questo penalizza gli startupper italiani, che si vedono costretti a spostarsi in altri paesi dove la raccolta dei capitali risulta essere alla portata.

E gli incentivi pubblici riescono a sortire qualche effetto?

Esistono diverse misure agevolative e strutture a supporto dell’innovazione: solo per citarne qualcuna, penso alla misura Smart&Start di Invitalia o all’operatività di Invitalia Ventures, alle agevolazioni fiscali per chi investe in start-up innovative o al fondo nazionale innovazione del MISE fino ai voucher per l’innovation manager. Tutte misure utili, ma il problema è un altro.

Quale?

Occorre una visione unica, un’unica cabina di regia, in grado di coordinare gli sforzi di tutti gli attori coinvolti, sia pubblici che privati. Occorre fare squadra, per creare il giusto ambiente in grado di favorire la nascita e la crescita di nuove imprese. Per questo ritengo che l’idea di costituire un Ministero dell’Innovazione, in grado di coordinare l’operato dei soggetti che operano con e per le start-up, possa essere utilissimo, a patto di non replicare i fallimentari tentativi del passato recente.

In un contesto come questo, qual è il ruolo del Mentor?

La presenza di un bravo mentor, soprattutto nelle fasi iniziali del percorso imprenditoriale è fondamentale. Talvolta il problema è che gli startupper sono troppo innamorati della loro idea iniziale, talmente presi che tendono a rigettare qualunque proposta di cambiamento. Avere una buona idea è sicuramente una pre-condizione fondamentale per creare una start-up di successo, ma potrebbe non bastare.

In cosa consiste il suo lavoro di mentorship?

È un percorso articolato, ma semplificabile nel modo seguente: guidare lo startupper a porsi le domande giuste, supportandolo nella definizione e nella validazione di un business model efficacie, oltre che nella definizione di un piano finanziario sostenibile e alla ricerca di fonti di finanziamento adeguate.

Parliamo del progetto che state lanciando nelle Università italiane.

Per scovare le innovazioni abbiamo deciso di andare lì dove è più probabile trovarle, ossia nelle università. Abbiamo creato un format progettuale – denominato Hackathon UniversItalia – che è un progetto in partnership tra ManagerItalia Lazio Abruzzo Molise Sardegna Umbria e le principali università italiane. A partire da Settembre 2019 e per tutto il 2020, in maniera itinerante, organizzeremo delle full-immersion di tre giorni, delle vere e proprie “maratone dell’innovazione”, con una partecipazione ampia e trasversale di studenti, makers, imprenditori, professionisti, docenti universitari, etc: una sorta di community locale per l’innovazione, composta da persone che si mettono in gioco per individuare soluzioni disruptive su tematiche ed ambiti specifici. Abbiamo iniziato il 16 Settembre con la presentazione del progetto presso l’Università di Perugia, per poi continuare nelle sedi delle altre Università partner sparse su tutto il territorio nazionale.

A cura di Maria Tringali

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