“Lo stagista inaspettato”: perché il lato umano è sempre la carta vincente

Robert De Niro e Anne Hathaway, diretti da Nancy Meyers, recitano fianco a fianco in questa classica commedia hollywoodiana datata 2015 sul mondo degli affari, frizzante e ironica, gradevole e sorprendentemente convincente.

Se non avete visto questo ve lo raccontiamo senza svelarvi immediatamente i ruoli.

Un’azienda e-commerce di abbigliamento promuove un programma per assumere nuovi stagisti. Una persona risponde ed entra in queso mondo aziendale frenetico e caotico, fatto di giovani e tecnologie avanzate, divenendo lo stagista personale del capo dell’azienda in questione.

Il boss è molto impegnato ed è totalizzato dalla sua azienda che ha ritmi estremamente veloci, al punto da tralasciare la propria vita privata e la famiglia.

Lo stagista è una persona di vecchio stampo, che ama vestirsi bene e con attenzione per fare colpo in un  ambiente super casual. Crede di dover imparare molto e decide con umiltà di (ri)cominciare dalla gavetta. Il suo arrivo nella nuova azienda desta qualche perplessità, non è ritenuto all’altezza ed è visto più come un freno che come un’opportunità, facendo oltretutto parte di un progetto al quale nessuno aveva creduto, soprattutto l’azienda.

Con il tempo però le cose cambiano.

I colleghi lo considerano, gli chiedono consigli, cercano di imitarlo, vogliono imparare da lui. Il capo si rende conto della grandiosa importanza di avere uno stagista che spinge ognuno dei colleghi a dare il meglio di sé,  ad andare oltre gli schermi dei computers per sentirsi coinvolti nel loro lavoro, anche dal punto di vista personale. Insomma, lo stagista diventa il punto di riferimento dell’azienda e non solo.

Sarà che Robert De Niro, capace di rendere plausibile l’improbabile, è lo stagista Ben Whittaker, che alla veneranda età di settant’anni decide di rimettersi in gioco forte della sua esperienza  e Anne Hathaway, bravissima nell’interpretare il capo Jules Ostin, è colei che ammette prima personalmente e poi professionalmente la valenza del fattore umano, ma questo film è una commedia molto profonda.

Una commedia costruita e che segue le reazioni e le relazioni umane che sono alla base dei rapporti personali, di lavoro e aziendali, mantenendo un forte equilibrio tra cuore, commedia e verità.

Il fattore umano di cui parla la pellicola è quello che spesso viene messo da parte nella realtà, che nella storia scritta dalla Meyers fa nascere una profonda amicizia tra Ben e Jules, una amicizia che non punta a secondi fini ma che pone l’accento sull’ascolto e la stima reciproca, sentimenti che normalmente in campo aziendale non sempre vengono ritenuti importanti, ma che invece sono un aspetto fondamentale perché le cose funzionino al meglio.

Ciò che il film fa emergere chiaramente è l’importanza delle persone e della loro umanità che nel mondo del lavoro possono diventare un motore per elevare tutto ciò che gli sta intorno. L’umanità, che spesso viene tralasciata e ritenuta un elemento di debolezza, è invece l’elemento di forza che lo stagista attempato riesce a trasmettere al giovane capo che ha creato la propria azienda da sola e dal nulla, diventando in poco tempo l’elemento fondamentale, il consigliere, il supporto umano tanto dal punto di vista personale che professionale.

Stuzzicati da questo film, abbiamo anche intrapreso una ricerca di questi “stage senior” scoprendo che in realtà non esistono, forse perchè l’idea di stage è direttamente collegata all’epoca dello studio o al momento della primissima formazione lavorativa. Eppure è un peccato perchè si comincia ad invecchiare quando nella vita non si hanno più obiettivi da raggiungere e ritenere che le persone un po’ in là con l’età siano pesi della società (civile e aziendale) non è il massimo, visto che sono loro a detenere la saggezza e l’esperienza.

A ben vedere, nelle precedenti recensioni avevamo già affrontato l’argomento del Fattore Umano, ma non potevamo non recensire un film così gradevole quanto veritiero, per ricordarci che le aziende sono fatte di persone e le persone hanno il solo peso.

Anche nel 2018, dove la frenesia e la necessità di raggiungere traguardi e obiettivi che creano guadagni, spesso mettono da parte ciò che veramente conta. Le persone.

Francesca Tesoro

“L’ottava regola. Dall’efficacia all’eccellenza” di Stephen R. Covey

Dopo aver analizzato “Le sette regole per avere successo”, ci siamo cimentati con un altro testo immediatamente successivo e strettamente collegato al bestseller internazionale di Stephen R. Covey: “L’ottava regola. Dall’efficacia all’eccellenza”, Franco Angeli Editore.

ottava regola

Anche questa volta, prima di analizzare la struttura del saggio, ci siamo soffermati su suo titolo originale: “The 8th Habit: from Effectiveness to Greatness” e ciò che ci ha colpito, oltre alle considerazioni già fatte in precedenza sull’assonanza tra i termini “abitudine” e “regola”, è la parola “greatness”. Sorprende quasi come un termine così colloquiale e di uso tanto comune possa diventare un vero e proprio termine tecnico durante la lettura di questo testo, assumendo tutte le sfumature di significato che lo caratterizzano: dalla grandezza alla forza, fino alla vera e propria eccellenza di fatto di leadership.

Ma come ci si può abituare all’eccellenza? Come non considerare questo stato unicamente come l’happy ending al termine di una lunga carriera di lavoro costellata di esperienze e successi e abituarci, invece, a vivere la nostra personalissima eccellenza giorno dopo giorno al servizio dell’azienda, come una disciplinata e creativa forma mentis?

ottava regola

All’inizio ci è quasi (rispettosamente) sembrato che questa volta Stephen Covey si fosse lasciato prendere la mano e avesse peccato di presunzione, o meglio di troppa fiducia verso il prossimo, tratto che, senza dubbio lo distingueva come comunicatore, come coach e, oggi si direbbe anche come influencer. Tuttavia, come già accennato, la struttura sistematica e, allo stesso tempo, strettamente analitica del testo, corredato di schede riepilogative, box di esercizi e numerosissimi racconti di esperienze acquisite sul campo, rendono questo saggio un meraviglioso manuale per imparare a pensare all’eccellenza, visualizzandola come un modo di porsi, di comunicare e, quindi, di essere, e non come un obiettivo da raggiungere fuori da noi stessi: un percorso di vita, ancora prima che di lavoro, verso il concetto più alto di saggezza.

ottava regola

Diretto, ma profondo, a tratti toccante, a tratti divertente, pur restando un libro estremamente tecnico e scientifico, lo stile di Covey resta confidenziale e riconoscibile, come quello di un maestro che si mette alla scrivania dopo una lezione e lascia qualcosa di scritto ai propri allievi, con lo scopo di farli sentire a proprio agio e non solo all’altezza della situazione, quasi come Socrate, secoli fa. Insomma le regole contano e si possono e devono studiare e imparare, ma sempre facendole proprie grazie ai percorsi dell’esperienza, come in un diario personale, perché, come scrive Covey: la leadership è una scelta, non una posizione.

ottava regola

L’esigenza di questa ottava regola, come spiega l’autore, nasce dai profondi, continui e velocissimi mutamenti del mondo del lavoro, sempre più influenzato dalla tecnologia anche oggi, che vedono nelle sette regole una base necessaria per entrare in gioco e un punto di partenza proprio verso l’eccellenza come dimensione di entusiasmo e di voglia di mettersi continuamente in discussione, esperienza dopo esperienza, guardando alla saggezza come a un valore inestimabile.

ottava regola

Questa ottava regola è trova la tua voce e ispira gli altri a trovare la loro, la vera essenza della leadership costruttiva. Infatti, dopo essere riusciti a trovare la propria voce, non c’è niente di meglio che mettersi al servizio del coro per armonizzare e modulare la melodia del successo. Per ottenere questo risultato che, a sua volta, è una nuova base di partenza, occorre iniziare un percorso di riflessione e consapevolezza improntato non più solo sulla comunicazione efficace, ma anche altruistica nei confronti di chi dipende da noi leader, attraverso la condivisione di valori comuni e strategie. Essere un modello di umanità positiva è, secondo Covey, il modo più alto di essere leader, perché porta a una competizione costruttiva che altro non è che imitazione. Ecco perché Covey prende spesso nuovamente in prestito il mondo dell’infanzia e anche della scuola per molte sue lezioni. La saggezza è empatia, ma anche autorevolezza verso gli altri e autoconsapevolezza di sé stessi.

ottava regola

Il testo si conclude con alcune utili appendici che focalizzano concretamente alcuni consigli su come affrontare alcuni momenti di cambiamento del contesto e del clima aziendale. A questo proposito è stata interessante l’analisi dei vari tipi di intelligenza che risiedono in ognuno di noi e di come, valorizzare la cosiddetta “intelligenza spirituale” dia benefici concreti anche sull’intelligenza pratica, mentale ed emotiva, come un unicum indispensabile nel curriculum di tutti noi.

Alessandra Rinaldi

La felicità di Wile E. Coyote di Gian Maria Zapelli

Oggi vi parliamo di questo volume edito dalla FrancoAngeli/Trend che ci ha davvero sorpreso. Ammetto di averlo scelto sullo scaffale per la sua copertina e per il suo riferimento a Wile E. Coyote, amato personaggio dei cartoni animati nato alla fine degli anni quaranta del secolo scorso, eternamente considerato un fallito  – e abbiate il coraggio di alzare la mano se almeno una volta non lo avete pensato anche voi! – che mette tutte le sue energie negli infiniti tentativi di catturare l’acerrimo e velocissimo nemico Beep Beep, immaginando una lettura veloce e leggera.

In realtà questo libro, sottotitolato Essere fragile e invulnerabile, tutt’è tranne ciò che mi aspettavo, perché l’autore Gian Maria Zapelli, che da più di venti anni realizza eventi formativi e di coaching volti allo sviluppo delle capacità e dei sentimenti necessari in contesti di incertezza e cambiamento, è riuscito a scrivere un volume davvero illuminante.

Seguendo e facendosi guidare da Wile E. Coyote, ci si ritrova a leggere una serie di suggerimenti di altissimo profilo psicologico e pratico che mettono in luce strategie di relazioni con sé stessi e con la realtà che ci circonda, partendo dal presupposto che le nostre debolezze sono ciò che ci caratterizzano come persone e che, soprattutto, possono e dovrebbero essere usate e viste non come un minus ma come un trampolino di lancio.

Noi donne e uomini del terzo millennio, inseriti in un contesto sociale dove tutto ciò che ci classifica come umani in grado di vivere e provare emozioni, ci rende deboli e vulnerabili, dovremmo tenere questo manuale di sopravvivenza alle nostre vulnerabilità sul comodino,  mettendo in pratica ciò che leggiamo.

Sono proprio le nostre fragilità a porci nella condizione di costruire una solidità attraverso l’impegno e il coraggio e sono sempre loro ad essere, paradossalmente, congeniali a renderci protagonisti in questa epoca di vulnerabilità.

Ciò che emerge dalle righe del libro, grazie a Wile E. Coyote e altre figure carismatiche eroiche o simpaticamente assurde, sono le strategie che possono aiutarci a governare il nostro benessere attraverso la capacità di essere fragili, per realizzare quei traguardi che necessariamente ci chiedono di affrontare un mondo indeterminato e imprevedibile.

Ma perché proprio lui?

Wile E. Coyote, perdente invincibile, rappresenta uno straordinario e formidabile esempio di fragilità invulnerabile, espressione di una grandezza eccezionale con capacità organizzative e creative sopra la media che, grazie al modo fantastico in cui usa il coping – le strategie che vengono poste in essere per far fronte ad eventi stressanti e faticosi -, riesce ad affrontare i continui fallimenti – catturare Beep Beep – senza mai perdere di vista il suo obiettivo.

Le sue qualità, la sua ingegnosità nell’ideare sempre nuove trappole, il persistere per raggiungere il suo scopo, dimostrano come la sua vulnerabilità sia al tempo stesso la sua forza, rendendo la sua vita una incessante esperienza di scoperte, creatività, coraggio e mai di reali sconfitte.

Wile E. Coyote è invulnerabile perché è sopra ogni cosa infrangibile, si schianta, precipita, diventa spesso quanto un foglio schiacciato da massi enormi, ma resta sempre integro, in forma e determinato a riprovarci. Ogni volta che non riesce a catturare il suo nemico, non si sente sconfitto, ma fa tesoro di quel fallimento per migliorare la sua tecnica, impegnandosi ed entusiasmandosi, convincendosi che l’idea successiva sarà la migliore, senza rimanere incastrato nelle sue convinzioni e negli schemi che lo circondano – e vi ricordo semplicemente che nella realtà un coyote corre il doppio della velocità di un roadrunner -.

Ecco allora un altro paradosso, la vulnerabilità vista come una fragilità, è invece essa stessa a fornire la possibilità di espandersi, aprirsi a nuove idee, nuove soluzioni, nuove strategie rimaste intentate  fino a quel momento.

Possiamo investire il nostro tempo a riflettere su cosa sia meglio fare e quale sia il modo migliore di farlo o riesaminare ciò che facciamo e, perché no, dubitare di noi stessi; possiamo essere persone che fanno del proprio autocontrollo un modus vivendi  che ci blocca ed incanala in determinate strade; ma ciò di cui abbiamo veramente bisogno è il desiderio, quella motivazione che ci spinge con slancio ed energia e ci permette di affrontare la fatica, di dubitare, frenare, arginare la (contro)forza di volontà che vorrebbe lasciarci incastrati in determinati schemi.

Dobbiamo saperci aprire alle emozioni negative, viverle e non nasconderle dal momento che, per quanto assurdo possa sembrare, è attraverso loro che riusciremo a trovare la strategia più efficace.

Vi chiedete come sia possibile? L’ho fatto anche io e, leggendo le pagine del libro, ho trovato la risposta: essere fragili va bene, ma trasformando la nostra fragilità in condizione di evoluzione, successo o felicità, ci si ritrova a disegnare grandi strategie di successo.

Lo dice anche Zapelli, l’autore di questo fantastico libro, mettendo a paragone quelle figure carismatiche eroiche o simpaticamente assurde di cui parlavo prima: Cenerentola, Superman, Penelope e Lebowsky (…il grande!).

Li conoscete sicuramente!

Cenerentola è una orfana sopraffatta dalla matrigna e dalle sorellastre, resa serva che però, nella sua fragilità riesce a vivere una notte magica e far innamorare un principe. Superman è un solitario e solo è arrivato sulla terra, minacciato e impaurito dalla kryptonite, eppure è un supereroe.

Penelope fa delle sua incoerenza l’arma per sopravvivere e resistere agli attacchi dei Proci che le infestano casa, disfacendo ogni notte ciò che aveva tessuto di giorno.

Lebowsky, personaggio del film anni novanta dei fratelli Coen, è un uomo pigro e nullafacente che è molto più solido eticamente di quanto non si creda.

Pigrizia, solitudine, sopraffazione e incoerenza, non sono aspetti socialmente ritenuti negativi e che rendono vulnerabili le persone? Si, ma sono anche ciò che hanno permesso ai rispettivi personaggi di trovare la strategia vincente per raggiungere il loro obiettivo. Non siete convinti? Bene: Cenerentola ha sposato il principe, Penelope ha riabbracciato Ulisse, Superman salva il mondo e Lebowsky ha riavuto il suo tappeto.

Alla fine resta una domanda:  Wile E. Coyote riuscirà a catturare Beep Beep?

Francesca Tesoro

Come effettuare la valutazione del personale nelle aziende di oggi

È una domanda che oggi si pongono molti addetti ai lavori e non solo: come si effettua la valutazione del personale nelle nostre aziende 4.0? Quali criteri e quali comportamenti applicare? Dobbiamo inventare nuovi approcci o addirittura decidere che il processo valutativo non sia più idoneo a garantire lo sviluppo dei risultati aziendali e il loro consolidarsi nel tempo? E quanto riesce davvero a contribuire allo sviluppo della singola persona?

Nel caos che caratterizza il nostro correre verso prestazioni sempre più’ elevate, quale valore può dare un processo che definisce una fotografia del passato nell’istante presente verso un futuro sempre più breve?

valutazione

Da sempre la valutazione del personale è un tema tanto importante, quanto spinoso, non solo per la Direzione del Personale ma anche per le Persone coinvolte.

Il tema della valutazione del personale può avere diversi obiettivi che permettono di ottimizzare le procedure e stabilire i presupposti per far crescere un’azienda in termini di performance: solo l’azienda in grado di diagnosticare cosa determina una performance efficace riesce a migliorarsi costantemente e sviluppare le prestazioni delle proprie persone.

I due obiettivi principali per effettuare una valutazione del personale sono:

–        gestire le risorse umane – per costruire un sistema premiante devo conoscere le prestazioni più efficaci e garantirne il riconoscimento;

–        sviluppare le risorse umane – se capisco cosa determina una buona prestazione posso tutelarne il buon utilizzo e contemporaneamente investire in formazione per ottenere risultati migliori da ogni risorsa aziendale.

Quindi definire un processo di valutazione è finalizzato a:

  1.  migliorare le prestazioni orientandole verso una sempre migliore partecipazione dei singoli al raggiungimento degli obiettivi aziendali;
  2.  rendere esplicito, trasparente e analitico il processo di valutazione informale presente in ogni organizzazione superando i difetti di genericità e ambiguità dei sistemi informali di valutazione;
  3.  valorizzare al meglio le risorse umane facendo emergere sia le esigenze e le condizioni per un miglior impiego del personale, sia le eventuali esigenze ed opportunità di formazione;
  4.  orientare i comportamenti organizzativi verso obiettivi prevalenti o modalità nuove di lavoro;
  5.  definire occasioni formalizzate di scambio di informazioni e valutazioni sulle condizioni di lavoro e su tutti gli aspetti di micro – organizzazione.

valutazione

Produrre schede di valutazione del personale, formare i managers e i collaboratori a questo processo, decidere cosa valutare e quali criteri di misura applicare, implica costruire un sistema culturale complesso e diffuso all’interno dell’intero contesto aziendale.

Il sistema di valutazione deve quindi:

–          discendere da una strategia gestionale

–          essere coerente con lo stile e cultura aziendale

–          essere articolato e correlato ad ogni iniziativa verso le persone

–    essere diffuso, gestito coerentemente, governato nei processi fondamentali dell’azienda.

La valutazione delle prestazioni concentra la sua attenzione sulla prestazione del collaboratore, intesa come il contributo da lui fornito all’organizzazione, ciò che ha fatto, quale titolare della posizione, utilizzando le sue competenze.

valutazione

La prestazione può essere valutata sotto due diversi aspetti:

  • i risultati ottenuti dal lavoratore in relazione agli obiettivi assegnati (il “cosa è stato fatto”);
  • i comportamenti organizzativi tenuti e agiti dal collaboratore (il “come è stato fatto”) che possono riguardare vari aspetti, quali la leadership, la capacità di lavorare in gruppo, la capacità di problem solving, l’orientamento al cliente, l’orientamento alla qualità, la capacità innovativa.

Una valutazione del personale ha una serie di fasi:

  1. Definire cosa valutare, basandosi su una corretta descrizione dei ruoli e delle responsabilità aziendali.
  2. Fare un’analisi di contesto e di cultura aziendale affinché il processo non sia scollegato dal sistema aziendale di riferimento.
  3. Formare i “valutatori” ed i “valutati” affinché reciprocamente si sviluppi una cultura della valutazione della prestazione non della persona.
  4. Individuare i metodi di valutazione e formare in tal senso le persone coinvolte nel processo
  5. Raccogliere i dati sulle valutazioni delle prestazioni e fare un’analisi dei dati aggregandoli aziendalmente per studiarne la relazione con i risultati aziendali
  6. Condividere i valori con la direzione e successivamente con le persone affinché si percepisca il valore del processo
  7. Prendere decisioni sulle valutazioni individuali collegandole ad azioni di sviluppo professionale e/o economico.

La valutazione del personale risponde ad una domanda chiara.

Qual è il contributo di una persona, in una determinata posizione e con specifiche competenze, ai fini del risultato finale?

valutazione

Per poter rispondere dobbiamo considerare che nel processo di valutazione del personale possono coesistere valutazioni diverse:

  1. Valutazione delle prestazioni, confronto tra i risultati ottenuti dalla persona e gli obiettivi prefissati.
  2. Valutazione del potenziale, analisi sulle caratteristiche possedute da una persona ma non ancora espresse in un determinato ruolo. Tramite questa modalità di valutazione si vuole comprendere quali sono le capacità potenziali della persona. Questo tipo di analisi è molto utile per poter prevedere eventuali cambi di ruolo e promozione, ma allo stesso tempo è molto complessa in quanto ha come obiettivo la previsione di risultati futuri.
  3. Valutazione delle competenze, esame del patrimonio di conoscenze, capacità e comportamenti espressi e della loro coerenza rispetto agli obiettivi analizzati.

Armonizzare queste tre dimensioni unisce e rende complementare la proiezione dell’Azienda su un unico asse temporale, partendo dalla storia, proseguendo nel suo presente e costruendo la proiezione verso un futuro solido, sostenibile e capace di sviluppare opportunità di crescita in ogni situazione, sia essa di successo che di fragilità che, ancor più, di criticità.

Valutare per individuare nuove capacità di sviluppo in ogni componente aziendale e in questo modo rendere reale il rapporto tra individuo e azienda, tra persone e verso se stesso: una sfida che coinvolge ognuno di noi, in ogni età e dimensione professionale quale condizione di crescita e soddisfazione nel lavoro e nella vita.

Maria Tringali

 

 

 

“Tutta la vita davanti” oggi: la Giungla dei call center dieci anni dopo

locandinaSono trascorsi ormai dieci anni dall’uscita di “Tutta la vita davanti”, il geniale e irriverente film di Paolo Virzì liberamente tratto dal libro “Il mondo deve sapere” di Michela Murgia (recentemente ripubblicato da Einaudi), nato dall’esperienza di un blog in cui l’autrice raccontava le sue disavventure come dipendente di un call center.

La pellicola, che riunisce un cast di stelle nostrane, come Massimo Ghini, Sabrina Ferilli, Micaela Ramazzotti, Isabella Ragonese, Elio Germano e molti altri, racconta la storia di Marta, studentessa fuori sede neolaureata in filosofia con lode e tanto di bacio accademico che, nell’attesa di ottenere un posto come ricercatrice, si mette alla ricerca di un lavoro che le permetta di mantenersi. Grazie al rocambolesco incontro con Sonia, una coetanea ragazza madre che le chiede aiuto per badare alla figlioletta Lara, Marta inizia a lavorare alla Multiple, un’azienda che commercializza un inutile elettrodomestico servendosi di un call center di ragazze giovanissime che procaccia clienti con ogni mezzo. È così che comincia per Marta, abituata a dedicarsi a ragionamenti filosofici ben più elevati, una discesa negli inferi del telemarketing più becero, a tratti divertente, a tratti grottesco.

call center

Il bizzarro elenco di maccheroniche tecniche motivazionali della Multiple è lungo: dalla canzone che dà la carica prima dell’inizio del turno, ai messaggini d’incoraggiamento sui cellulari da parte dei capi, fino ai gadget regalati all’impiegato del mese e al pubblico ludibrio nei confronti di chi ha venduto di meno, Marta si ritrova, suo malgrado, a primeggiare entrando nelle grazie di Daniela, la responsabile del personale, e di Claudio, il capo dell’azienda. Marta continua a lavorare mantenendo un certo distacco, sicura che, prima o poi troverà qualcosa di meglio, ma il mobbing e la violenza psicologica, e non solo, ai quali assiste ogni giorno sul luogo di lavoro, totalmente privo di garanzie sul piano sindacale, la porta a sfogare i suoi dubbi etici con Giorgio, un rampante sindacalista che approfitta delle confidenze di Marta. E, mentre in una Multiple ormai allo sbando, si scatena la caccia alla spia, l’esperienza di Marta si avvia verso un epilogo che ci lascia con un amaro sorriso di speranza sul volto.

ragonese

Il fatto che questo film sia sostanzialmente tratto da una storia vera ci fa facilmente comprendere come molti degli episodi raccontati, che avvengono all’interno della Multiple, siano forse più che liberamente ispirati alla realtà e rispecchino parecchi veri contesti lavorativi del settore.

Ma cosa è cambiato davvero oggi, rispetto a dieci anni fa nel mondo dei call center? O forse sarebbe più corretto chiedersi: è cambiato qualcosa dal 2008 a oggi? Come si percepisce il telemarketing e il mestiere di operatore di call center dal punto di vista di dipendenti e di consumatori?

ferilli ramazzotti

A giudicare dalle notizie di cronaca delle ultime settimane, la situazione non sembra molto cambiata. Numerose notizie di poche settimane fa danno testimonianza, soprattutto nel sud Italia, di telefonisti pagati pochi centesimi l’ora con contratti decisamente precari e costretti a turni massacranti, senza pause neppure per i più banali bisogni. Nonostante le vertenze, gli esposti e l’attenzione dei media, nulla sembra cambiare concretamente, soprattutto ora che alla forza lavoro dei call center nostrani si è aggiunta la “concorrenza” degli operatori, outbound o inbound, che chiamano o rispondono anche dall’estero.

“Tutta la vita davanti”, dunque, resta, ancora oggi, un film attualissimo nella spietata analisi di un sistema che ha subito l’evoluzione del progresso, ma che, di fatto, è rimasto brutalmente indietro rispetto all’attenzione verso il lavoratore e il cliente.

telefono

Lasciando da parte i numerosi casi raccontati dalla cronaca in questi anni, in cui le tecniche di vendita sono perfino sfociate in reati penali ai danni dei consumatori, il modo di percepire questo mestiere da parte della società è ormai tristemente avvezzo al precariato generalizzato che attanaglia ogni settore. Prima il libro e poi il film del 2008 hanno avuto il pregio si squarciare il velo su una realtà all’epoca sconosciuta ai più, scuotendo le coscienze, ma purtroppo, all’atto pratico, la situazione di oggi sembra essere talmente più drammatica della peggiore fantasia, da non stupire quasi più, neppure quando diventa cronaca. Questo senso di assuefazione dell’opinione pubblica è, senza dubbio, dovuto ai dieci anni intercorsi di crisi economica che ancora ci serra, alla disoccupazione altalenante e alla confusione politica anche a livello europeo. Le società e i titolari fantasma, i contratti precari, i centralinisti in nero e gli stipendi eccessivamente bassi sono i nodi scomodi che hanno sempre portato alla ribalta della cronaca i call center dal punto di vista del mondo del lavoro, ma neppure questi riflettori sembrano riuscire a cambiare le cose ancora oggi.

film

A ciò si aggiunge la crescente diffidenza dei consumatori contattati o l’insoddisfazione di quelli che si rivolgono ai call center per richiedere informazioni o risolvere problemi, a causa delle attese o della poca preparazione degli addetti, non propensi a formarsi, né a preoccuparsi dei loro risultati, viste le loro condizioni di lavoro. Di sicuro, per non fare confusione, è necessario distinguere tra i call center adibiti alla vendita e le help line che rispondono alle chiamate degli utenti. Concentrandoci sul telemarketing, l’aggressività delle tecniche di vendita e la poca trasparenza sono le piaghe che i consumatori percepiscono e lamentano quotidianamente. Inoltre, ascoltando le testimonianze dei lavoratori, costretti a condizioni di lavoro ai limiti della dignità, che neppure dieci anni di inchieste e proteste sono riuscite a migliorare, si comprende come siamo ancora ben lontani da una vera evoluzione in questo settore.

platone

Chissà se, prima o poi, proprio come nel mito della caverna di Platone, che Marta racconta alla piccola Lara per addormentarla, prima o poi le aziende, insieme ai lavoratori e ai consumatori stessi, spezzeranno le reciproche catene e riusciranno a uscire dal buio e dalle ombre che ancora circondano le dinamiche di lavoro dei call center, capendo che anche nel telemarketing può e deve esserci un’etica, sia per chi lo fa, sia per chi lo subisce.

Alessandra Rinaldi

 

“La maestra e la camorrista. Perché in Italia resti quello che nasci” di Federico Fubini

fubiniDove andreste, se aveste una macchina del tempo? Se la vostra risposta è nell’Italia rinascimentale delle grandi famiglie di signori e mecenati, potete essere soddisfatti (o forse no), perché confrontando, ad esempio, la Firenze attuale con quella del Quattrocento, i nomi delle famiglie più ricche e illustri e di quelle più povere e umili sono rimasti gli stessi, quasi come se così tanti secoli non fossero passati affatto. Se ne sono accorti alcuni ricercatori della Banca d’Italia e, a partire dall’analisi sul campo di questo studio dai risultati desolanti, il giornalista Federico Fubini ha posto le basi per il suo nuovo libro, “La maestra e la camorrista. Perché in Italia resti quello che nasci”, una magistrale inchiesta sulla scarsissima mobilità sociale del nostro Paese, edita da Mondadori.

fubini

Dalle strade di Firenze, dove tutto sembra immutato rispetto ai tempi de’ il Magnifico, se si esclude la possibilità di imbattersi in artisti come Brunelleschi e Donatello, alle scuole di Mondragone, uno dei comuni più difficili della provincia di Caserta, Federico Fubini analizza, con l’acume che lo contraddistingue, come la fiducia delle nuove generazioni verso un futuro più florido sia direttamente proporzionale alle condizioni economiche e culturali nelle quali i giovani crescono e si formano, fin dalla nascita. Partendo da questa considerazione, tuttavia, e in seguito a un interessante percorso coi ragazzi di un Istituto Professionale della cittadina, Fubini dimostra come la possibilità di dare inizio a un’inversione di tendenza verso un concetto di meritocrazia sostanziale stia proprio tra i banchi di scuola.

fubini

In un Paese politicamente confuso, economicamente allo sbando e culturalmente povero, a dispetto dei tesori storici e artistici che possiede, l’immobilismo sociale, infatti, è un’aggravante che paralizza le nuove generazioni in classi sociali spesso più drammaticamente granitiche di quelle medievali: i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e quella piccola borghesia di risparmiatori nati dal boom economico che annaspa e vede i propri figli incapaci di raggiungere un benessere superiore o, peggio, fuggire all’estero in cerca di attenzione e gratificazione, ancor prima che di uno stipendio.

fubini

Lucido, ma ottimista, Fubini mette a confronto alcune scuole lungo tutto lo stivale prima di dedicarsi ai ragazzi di Mondargone e si accorge sin da subito che la fiducia verso l’avvenire e verso il prossimo cambia drasticamente già a seconda del luogo di nascita, oltre che delle condizioni socio economiche e culturali. Rispetto a quelli di Milano o di Roma, un pericoloso miscuglio tra tristi realtà e drammatici luoghi comuni sull’impossibilità di realizzare i propri sogni, popola la mente dei disillusi teenager di Mondragone. Fubini lo capisce e decide di metterli e mettersi alla prova. In questa inchiesta che va ben oltre le statistiche, l’autore presenta a quegli studenti meno fortunati una serie di personaggi dalle vite sorprendenti, tutte accumunate da un successo tanto imprevedibile, quanto inaspettato, ma sempre meritato. Ognuna delle storie che Fubini fa raccontare ai ragazzi evidenzia come non conti il punto di partenza, neppure per quel che riguarda natali e conto in banca, bensì il punto di arrivo e il percorso, spesso perfino rocambolesco, che ha condotto ciascuno degli intervistati al proprio traguardo personale. Fubini dimostra così che il potere dell’esempio di chi ce l’ha fatta fa presa perfino su ragazzi che provengono e vivono quotidianamente situazioni difficili dalle quali sembra impossibile prendere le distanze, immaginando un futuro diverso.

fubini

Fubini racconta anche di se stesso, cercando di spiegare, con un interessante excursus della recente Storia economica d’Italia, il perché di questo immobilismo sociale, nonostante il progresso e le potenzialità del nostro Paese, ma non è facile capire se le caratteristiche patrimoniali italiane così pietrificate siano una causa o una conseguenza della situazione attuale e forse non è neppure così importante. Per cambiare le cose, secondo l’autore, si possono mettere in atto soluzioni pratiche e concrete utili a prescindere dalla storia e, perfino, dalla geografia del nostro Paese. La protagonista di queste soluzioni può e deve essere innanzitutto la scuola che, col suo potere di allargare le menti anche di chi è stato meno fortunato degli altri, deve poter dare prospettive concrete e non solo titoli di studio. Da qui deriva la necessità di modernizzare il nostro sistema scolastico, dai programmi, agli insegnanti, guardando a molti esempi virtuosi in tutto il mondo che non sono impossibili da imitare, per quanto adattati alla nostra indole e cultura mediterranea. Solo cambiando il nostro modo di percepire passato, presente e futuro, si potrà garantire una base di partenza più simile possibile per tutti e quindi orizzonti sempre più lontani, fuori e dentro il cuore dei nostri ragazzi.

Alessandra Rinaldi

“Conoscenza, apprendimento, cambiamento. La gestione dei programmi di knowledge e change management” di Gabriele Gabrielli

Scorrendo i precedenti contenuti presenti sulla nostra piattaforma, ricorderete di recensioni che parlano del fattore umano nel sistema aziendale, tanto dal punto di vista del leader e di chi voleva rendere le imprese degli ambienti familiari – pensiamo ad Olivetti – quanto di quello strettamente più legato ai più ampi discorsi delle risorse umane.

Oggi vi presenteremo il libro di Gabriele Gabrielli “Conoscenza, apprendimento, cambiamento. La gestione dei programmi di knowledge e change management” edito dalla FrancoAngeli.

Questo volume, completato dalla prefazione di Pier Luigi Celli, fa parte della collana PRL – Persone, Reti, Lavori, diretta dallo stesso Gabrielli e da Laura Borgogni e può essere paragonata ad un vero e proprio laboratorio di ricerca, di sperimentazione e di formazione nel quale, attraverso la sperimentazione, le riflessioni, le ipotesi e le ricerche operative, si vuole creare il pensiero manageriale moderno.

Questo libro si pone l’obiettivo di far capire che la conoscenza non è il mero obiettivo finale del manager e dell’impresa e che da sola a poco serve. Ciò che fa la differenza, come scrive Celli nella prefazione, è il sapere, cioè la capacità di unire le competenze multiple e multidisciplinari che si accumulano e che vanno unite in modo sistemico con la nostra conoscenza ed esperienza, differente da individuo ad individuo. Integrando correttamente tutti questi fattori e predisponendosi mentalmente al fatto che la conoscenza non ha nulla di rituale e standardizzato, ci si renderà conto che diventerà un vero e proprio stile di vita, integrando coerentemente passione e intelligenza.

Partendo dalla considerazione necessaria che viviamo in una epoca di grandi cambiamenti, a volte molto repentini, e che spesso questi processi di cambiamento vanno a toccare non solo gli ambiti professionali ma anche quelli emotivi ed umani, il volume, mette nero su bianco le logiche e gli strumenti che guidano e supportano i programmi di  knowledge e change management. 

La loro conoscenza profonda e sistemica e la capacità di reazione ad essi, punta al non mettere da parte gli interessi e le ragioni che coinvolgono gli individui, per aiutare significativamente coloro i quali hanno sulle proprie spalle responsabilità manageriali.

Così, se nella prima parte del libro vengono affrontati il tema della conoscenza e quello del cambiamento da un punto di vista strettamente teorico, grazie al contributo di numerosi ed autorevoli professionisti e studiosi, nella seconda parte sono narrate le storie di alcune delle più grandi imprese internazionali ed italiane  – PosteItaliane, Finmeccanica, Colgate-Palmolive, SwissRe – che hanno incentrato le loro azioni manageriali proprio sull’assioma  knowledge e change management.

Quello che emerge è che la conoscenza, ricchezza inesauribile, necessariamente deve essere associata alla responsabilità prima etica e poi economica del manager nel creare una condizione organizzativa e sociale tale per cui nessun sia escluso, auspicando la massima partecipazione di tutti al processo aziendale. Perché?

Perché in un momento storico in cui tutto subisce una trasformazione che si incunea in ogni interstizio sociale, riuscendo a modificare la capacità di scelta, di pensiero, degli atteggiamenti, delle pratiche, dei comportamenti sociali e lavorativi, la tecnologia prende il sopravvento come longa manus del controllo, gli individui sono sempre meno considerati – creando una vera e propria stress economy parallela – e le aziende spostano il focus delle loro azioni strategiche e organizzative  più all’esterno che all’interno, quando dovrebbero fare al contrario.

Infatti, primariamente un manager dovrebbe essere a conoscenza –knowledgedi tutte le competenze, risorse e capacità di cui dispone, trasformandole nel vantaggio competitivo della propria azienda. Le specializzazioni, le innovazioni, le efficienze  sono, innegabilmente, i fattori fondamentali che cerano il successo di una impresa e fanno la differenza tra il successo e il fallimento dell’organizzazione.

Il secondo aspetto è invece legato alla capacità di saper “cambiare pelle”-change management– insieme agli altri e mai da soli, sapendo guardare alla realtà che cambia, non dimenticandosi del fattore umano che si ha tra le mani e delle dinamiche di gruppo che convivono nelle realtà aziendali, perché gestire il cambiamento, non significa seguire una scaletta prefissata, ma è piuttosto la capacità di essere “fermamente elastici”, sapendo costruire il futuro dal proprio passato ed essendo competenti nella comunicazione e nello sviluppo di un sentimento nuovo legato all’azienda che cambia, aiutando le persone a sentirsi all’altezza del cambiamento.

I processi di  knowledge e change management analizzati in questo libro, sia dal punto di vista teorico che da quello tecnico-pratico, ci permettono dunque di fare alcune considerazioni.

Knowledge e change management:

 

  • devono andare di pari passo con la formazione e la comunicazione che dovranno essere sempre più intersecate tra loro per dare vita a progetti comuni;
  • dovranno (ri)creare l’equilibrio e la compatibilità tra il vecchio e il nuovo, perché il raggiungimento dei risultati organizzativi è strettamente legato all’attività congiunta delle persone e alle sinergie di funzioni, scopi e competenze presenti nell’azienda;
  • devono essere progettuali ed intenzionali, fortemente strutturati, formalizzati e calati nella realtà organizzativa obiettivo del cambiamento stesso perché siano compresi appieno e portati avanti in modo unitario;
  • non devono mai dimenticare la crescente importanza della ridefinizione delle politiche di sviluppo del settore HR.

Insomma, se pensavate che fare il manager significasse stare comodamente seduti ad una scrivania direzionale sulla quale poter anche poggiare i piedi e “dirigere il traffico” della vostra azienda, avete sbagliato mestiere.

Francesca Tesoro

Legge di Bilancio 2018: lavoro e sostegno alle imprese

Nelle pagine digitali di Sistema Generale spesso abbiamo affrontato temi legati al lavoro e, visti i tempi ormai maturi, abbiamo pensato di concentrarci nuovamente su questo aspetto.

Questa volta però lo faremo, dati alla mano e più tecnicamente.

Infatti  dal 1° gennaio di questo anno, è in vigore la Legge di Bilancio 2018, comprensiva del bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e quello pluriennale per il triennio 2018-2020.

Tale combinata legislativa, contempla argomenti che vanno dal lavoro al turismo passando per le politiche volte al sostegno della famiglia e alle imprese.

Durante la conferenza stampa di lancio della nuova manovra di bilancio ad ottobre 2017, il Governo ha presentato la previsione degli investimenti in favore delle politiche per i giovani, specificando l’utilizzo di 300 milioni per il 2018, 800 milioni per il 2019 e 1,2 miliardi nel 2020, prevedendo inoltre come strutturale lo sgravio fissato al 50% per incentivare le occupazioni dei giovani. L’obiettivo è quello di garantire ai giovani la possibilità di entrare nel mondo del lavoro, dipendente o autonomo che sia, abbreviando il lasso temporale tra il raggiungimento del titolo di studio e il primo impiego, passando per la stabilizzazione dei contratti di apprendistato, senza sottovalutare il passaggio del concetto di “giovane” dagli under 30 agli under 35 (anche se solo per il 2018).

Una previsione importante dunque, per rimettere in piedi il nostro paese permettendo ai giovani di potersi costruire una propria strada lavorativa qui senza il bisogno di emigrare altrove.

Legge di Bilancio 2018 

Prima di tutto, spieghiamo cos’è la legge di bilancio.

Si tratta di un documento contabile preventivo previsto dalla Costituzione all’art.81, con il quale viene comunicato al Parlamento la previsione delle spese pubbliche e delle entrate previste per l’anno successivo, non introduce nuove tasse e spese ma anticipa le coperture finanziarie necessarie per gli interventi legislativi dell’anno successivo.

Ora, analizziamo la Legge di Bilancio 2018 concentrandoci sugli aspetti collegati al mondo del lavoro e delle imprese rimandando, per chi volesse, alla lettura dell’intero testo normativo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

Lavoro e Formazione 

Sono riconosciuti sgravi contributivi pari al 50% per i datori di lavoro privati che assumono lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato, per un periodo massimo di trentasei mesi. Tale sgravio che spetta per i giovani non occupati già a tempo indeterminato con il medesimo o con altro datore di lavoro under 30, si estende anche agli under 35 purchè assunti entro il  31 dicembre 2018.

Lo sgravio contributivo sale al 100% per quei datori di lavoro privati che assumono gli studenti già entrati negli ambienti aziendali grazie all’alternanza scuola-lavoro o ai periodi di apprendistato.

Per  coltivatori diretti e gli imprenditori agricoli professionali under 40 invece è stato previsto l’esonero contributivo.

Permangono le dispense contributive stabilite nel 2017 per l’assunzione delle donne, dei soggetti over 55 e dei lavoratori in cassa integrazione.

Aspetto di grande novità è poi la previsione delle agevolazioni per favorire l’assunzione di lavoratori in procedura di ricollocazione, per i quali è previsto uno  sgravio contributivo parziale e l’introduzione di incentivi per le cooperative che assumono donne e rifugiati.

Sono inoltre stabiliti la promozione e il coordinamento delle politiche per la formazione, il cofinanziamento del Programma Erasmus, la proroga al 31 dicembre 2019 per l’istituto sperimentale dell’APE volontaria con l’ampliamento dei beneficiari dell’Ape sociale, le assunzioni straordinarie nelle Forze di Polizia e Vigili del fuoco, nonché il rinnovo dei contratti della Pubblica Amministrazione.

Sostegno alle Imprese

Con la manovra 2018 vengono destinati 330 milioni di euro per il periodo 2018-2023 al sostegno dei finanziamenti agevolati per gli investimenti delle micro, piccole e medie imprese.

Viene previsto un credito di imposta  del 40% fino a un massimo di 300.000 euro per la formazione del personale dipendente nel settore delle tecnologie rientranti nel Piano Nazionale Impresa 4.0.

E’ istituito il Fondo Imprese Sud dal valore di 150 milioni di euro per la crescita delle piccole e medie imprese e altri duecento milioni di euro sono invece stati destinati alla garanzia del credito gestito dal Medio Credito Centrale – Banca del Mezzogiorno.

Previsto inoltre uno stanziamento per il Fondo per la crescita sostenibile per le grandi imprese in difficoltà finanziarie, con l’intento di fornire un sostegno economico concreto per agevolare la continuazione delle attività produttive e mantenere stabili i livelli occupazionali.

E’ stato poi istituito un Fondo per lo sviluppo del capitale immateriale, della competitività e della produttività, per finanziare progetti di ricerca e innovazione da realizzare in Italia dal valore di 5 milioni di euro per l’anno 2018, 125 milioni di euro per il 2019 e 175 milioni di euro per il 2020. L’Ente Nazionale per il Microcredito sarà beneficiario di un contributo annuale di 600 mila euro a decorrere dal 2018 per la creazione della nuova auto imprenditorialità e del lavoro autonomo per garantire l’accesso agli strumenti di micro finanza. Infine, è stato deciso di rifinanziare con 7 milioni di euro per il periodo  2018-2020 la quota delle risorse stanziate per l’ICE – Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane destinandoli all’Associazione delle camere di commercio italiane all’estero per sostenere la promozione del Made in Italy e attrarre investimenti di partner stranieri.

Insomma, le ottime previsioni per un 2018 favorevole ci sono. Vedremo cosa ci racconteranno i dati di fine anno.

Francesca Tesoro

“Le 7 regole per avere successo” di Stephen R. Covey

Per comprendere la reale profondità di “Le 7 regole per avere successo”, il testo cult di Stephen R. Covey, l’autore recentemente scomparso, che ha venduto oltre quindici milioni di copie in tutto il mondo ed è stato pubblicato in Italia dalla Casa Editrice Franco Angeli, siamo partiti dal suo titolo originale: “The 7 Habits of Highly Effective People”.

7regole

La traduzione letterale del termine habits, ancor prima di regole, è abitudini, una parola solo apparentemente connotata da quell’accezione negativa che il caotico mondo di oggi le ha riservato, perché rappresenta alla perfezione come, per far sì che un cambiamento diventi una regola, bisogna trasformarlo in un’abitudine, ovvero qualcosa che è entrato a far parte profondamente del nostro essere individui e che ha reso un comportamento nuovo parte integrante della nostra personalissima zona di conforto.

Anche effective people è una locuzione interessante da analizzare rispetto al termine con cui, riassumendo un concetto probabilmente più complesso, viene tradotta nella nostra lingua: successo. Ancora prima di sviscerarne il significato, il quid in più dell’accezione originale è proprio nel termine people che focalizza l’attenzione sull’aspetto “umano”, piuttosto che sul “successo” di per sé, quasi fosse un’entità astratta. Sono le persone, infatti, ad “avere successo” e ciò grazie a un insieme di fattori che ha il proprio fulcro nell’efficacia, da effective, delle relazioni umane, esaltando fino all’estremo questo concetto (highly).

7regole

Anche solo grazie a questa prima analisi intuitiva, comprendiamo come il testo di Covey non sia un semplice manuale, ma un vero e proprio percorso che, partendo dalle persone, ne analizza i modi di essere e di percepire ciò che li circonda, portandole a fare quel salto di qualità necessario per rendere i cambiamenti interiori delle vere e proprie nuove abitudini, arrivando al tanto agognato successo in qualsiasi campo. Nello specifico, grazie alla sua grande esperienza e ai suoi studi spesso fuori dagli schemi, tutti condotti sul campo, l’autore ha reso questo libro un vero e proprio caso editoriale tra i più innovativi del panorama della letteratura manageriale nel mondo ancora oggi.  

Ma quali sono le sette regole di Stephen Covey per avere successo?

Il cuore dell’analisi dell’autore parte dai principi comuni a tutti gli uomini che rappresentano i paradigmi coi quali ciascuno di noi si confronta ogni giorno nel proprio percorso di vita e di lavoro, ponendo al centro dell’esigenza di crescita e cambiamento la necessità del cosiddetto “salto di paradigma”, trasformando il nostro modo di affrontare problemi e difficoltà, in particolar modo nelle relazioni lavorative. Come rendere, dunque, il cambiamento una regola o abitudine? L’autore definisce le regole come un incrocio di conoscenza, capacità e desiderio. La conoscenza è il paradigma della teoria, la capacità della tecnica, il desiderio della motivazione. Per trasformare il cambiamento in abitudine bisogna, secondo Covey, sviscerare nel profondo e in egual misura tutti e tre questi aspetti.

covey

Le Sette Regole, nello specifico, sono l’”approccio integrato, sequenziale e coerente per lo sviluppo dell’efficacia personale e interpersonale” e ci conducono, seguendo il percorso naturale della vita e dell’evoluzione umana, “dalla dipendenza all’indipendenza e infine all’interdipedenza”. Proprio come un neonato che, dalla dipendenza totale dalla mamma, impara pian piano ad essere indipendente, capendo il valore dell’autonomia, così l’adulto, e in particolar modo il manager che, oltre alla responsabilità della propria persona, ha anche la responsabilità di altri lavoratori, di progetti e di prodotti, impara come il percorso verso il successo passi attraverso la collaborazione, la coesione e la fiducia verso gli altri, senza perdere il controllo di se stessi. Il paradigma del noi, come lo definisce l’autore: un “noi” più grande e forte del proprio “io” che dà luogo alle Sette Regole enunciate da Covey come un sistema unico e coerente destinato a ripetersi con naturalezza se assecondato da ciascuno:

  1. Sii proattivo: prendi l’iniziativa
  2. Comincia pensando alla fine: cammina visualizzando la meta
  3. Dai precedenza alle priorità: è la volontà a fare la differenza
  4. Pensa vincere/vincere: se vinci tu, vincono gli altri
  5. Prima cerca di capire… poi di farti capire: l’ascolto prima di tutto
  6. Sinergizza: canalizza l’energia positiva
  7. “Affila la lama”: la spirale dell’autorinnovamento

Tralasciando l’analisi di ogni singola regola, ciascuna sintetizzata in un nostro slogan, ma in realtà tutte profondamente legate l’una all’altra, ciò che rende davvero interessante questo testo e che lo restituisce fruibile anche al di fuori dei contesti manageriali è il buon senso e il linguaggio semplice che lo caratterizzano. Inoltre sono degne di nota la ricchezza di tavole ed esempi, tratti per lo più da contesti di vita quotidiana o di formazione in aula vissuti dallo stesso autore, grazie alla sua lunghissima esperienza di vita, assieme ai consigli pratici e agli esercizi da condividere col proprio team di lavoro e non solo.

sette nani

Le Sette Regole per sviluppare l’efficacia sono un vero e proprio viaggio di quelli dove la meta conta almeno quanto il percorso e si basano sui principi universalmente riconosciuti da tutti di ricchezza interiore ed esteriore vista nel nostro ruolo sociale. L’obiettivo è quello di creare e conoscere il centro di noi stessi per affrontare al meglio i problemi della quotidianità, dalla vita privata, al lavoro, diventando degli individui in continua crescita e in equilibrio tra radici e rinnovamento.

Alessandra Rinaldi

Sistema Scuola: Università all’estero? Vi racconto la mia esperienza

La scelta di frequentare o completare l’Università all’estero è una tendenza in rapida e recente crescita in Italia: dati del MIUR rivelano come nel 2015 il 3,1% degli studenti italiani abbia intrapreso un percorso universitario oltre confine, a fronte di un 2,9% dell’anno precedente. Nel 2006 la percentuale era dell’1,5%. Secondo la società di consulenza Omni Admissions, il 42% degli studenti che partono hanno scelto il Regno Unito, il 26% gli USA, il 32% un Paese europeo. All’interno di questi dati, diversi sono i profili, l’età e le motivazioni.

Il mio progetto di conseguire un Master nel Regno Unito è giunto in una fase particolare, forse insolita, della mia vita. Non ero una diciottenne fresca di banchi di scuola, piuttosto lontani i ricordi delle versioni di greco e latino, gli struggimenti adolescenziali, quel fecondo caos emotivo e intellettuale che giocava a creare immagini del mio futuro come ombre cinesi.

università

Avevo, invece, qualche anno in più speso tra autoconsapevolezza e disillusione. Dopo una laurea triennale in Scienze Politiche e una Specialistica in Relazioni Internazionali alla LUISS, il mio bagaglio di amore per gli studi sociali e internazionalistici, di conoscenze e di incertezza uscivano tutti rafforzati. Cosa ero brava a fare, con cosa mi ero misurata, fuorché digerire stoicamente manuali e sfoggiare analisi di politica internazionale?

Mi sono districata nella giungla degli uffici di supporto alla ricerca di lavoro dell’Università, delle candidature di lavoro, CV e lettere motivazionali per qualche anno, collezionando tre, quattro stage e un breve contratto di consulenza nel settore della Cooperazione Internazionale. Dovunque ho lavorato, la percezione che non ci fosse alcun interesse nel farmi restare oltre il presente contratto. È iniziato un periodo di confusione, progressiva chiusura in me stessa. Congiuntura economica, circostanze socio-culturali del mio paese, seri problemi familiari che mi hanno investito in quegli anni, o semplicemente io che non ero nel posto (settore) giusto? La confusione cresceva, alimentata dal cambiare e cambiare lavoro, che rendeva difficile (impossibile) consolidare competenze e capire cosa volessi, potessi, dare.

Dovevo specializzarmi. L’illuminazione, e la voglia di mettermi in gioco arrivarono nelle lunghe pause di un lavoro meccanico e routinario (facevo nientemeno che i controlli di sicurezza in aeroporto in quel periodo). Sarei ripartita da ciò che ho sempre amato fare: scrivere. La curiosità di varcare i confini, della mia mente, del Paese, di ciò che conoscevo, un partner con la cittadinanza americana. Misi insieme i pezzi di questo puzzle un po’ delirante e feci domanda per il Master in Giornalismo Internazionale della School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra.

università

Appena trasferita, mi resi conto dell’unicità di quella scuola, di quanto rappresentasse allo stesso tempo Londra e una finestra speciale sul mondo. Con il mio inglese ancora un po’ incerto, mi trovai immersa in una girandola di visi, colori, accenti, sorrisi. Tutto era nuovo, le ragazze velate in aula, dietro le scrivanie degli uffici amministrativi e in biblioteca. A tanto non avevo mai dato un volto prima. Paesi, culture la cui immagine era unicamente tracciata nella mia testa dalle pennellate monodimensionali e sensazionalistiche dei mass media avevano ora volti e mille storie diverse da raccontare.

La scuola era una potente cassa di risonanza delle ‘storie meno raccontate’: dibattiti, conferenze, proiezioni e concerti, cogestiti da studenti e professori, confluivano tutti nell’obiettivo di scardinare una visione eurocentrica del mondo, di offrirne una più pluralistica, non deformata dai media occidentali; per rifarsi a un gergo molto amato in SOAS, di ‘decolonizzare’ il nostro modo di guardare la realtà.

Ricordo l’approccio didattico, traumatico per me. Piccoli gruppi di studenti sparsi intorno a molti banchi vuoti. Il professore seduto sulla cattedra, cosi vicino, che chiede cosa pensiamo delle letture assegnate per quel giorno. Chiede non le teorie, né se è tutto chiaro. Chiede un dialogo, un contraddittorio sui testi di Barthes, di Gramsci. Ricordo quanto mi sentissi impreparata a esprimere il mio parere a un docente su un piano di parità. Lo stupore e il turbamento di sentire la mente totalmente vuota. L’inibizione, l’insicurezza. La difficoltà linguistica. Il fare incoraggiante e gentile dei professori, le loro risposte pressoché istantanee alle nostre email.

Ricordo Elisa, la prof. più amata del mio corso, con cui avevo l’invidiato privilegio di poter parlare a tu per tu in lingua madre. Il suo sguardo gentile, il suo ciuffo di capelli blu. Svolgeva ricerca sull’utilizzo delle tecnologie digitali presso comunità rurali in Cina. Il suo corso, ‘Global Digital Cultures’, ha affrontato una serie di tematiche etiche e culturali legate all’era di Internet e delle moderne tecnologie della comunicazione. Ricordo il suo interesse per le nostre storie, il nostro bagaglio personale di idee e credenze, la sua curiosità e apertura, che contrastavano in modo affascinante con la sua timidezza.

università

Ricordo quanto, ai miei occhi di ex-studentessa italiana, sembrasse uno (splendido) film di fantascienza il fatto che la SOAS avesse un intero Dipartimento dedicato al benessere psicologico dello studente. In Regno Unito la salute mentale giovanile e’ una piaga sociale. Ma anche nella mia esperienza e in quelli di molti amici, la vita universitaria si carica spesso di difficoltà e disagio. Nella Scuola di Studi Orientali e Africani di Londra, in piu’, problemi di integrazione in un paese straniero e nel suo sistema didattico, solitudine e alienazione sono tutt’altro che insoliti per gli studenti.

I motivi sono tanti e ci sono tutti, dunque, eppure a me sembrava fantascienza. Personalmente, ho seguito degli incontri pomeridiani di meditazione, e un singolare workshop di due ore sulla ‘procrastination’ (non potevo credere che qualcuno avesse pensato a un workshop per chi ‘soffrisse’ della tendenza a rimandare gli impegni accademici). Mentre ero in Italia per le vacanze di Natale, sono stata investita da un lutto familiare. In quell’occasione, mandai un’email agli uffici competenti per sapere se era possibile posporre le scadenze di alcuni lavori scritti. L’email di risposta, oltre ad accogliere la mia richiesta, mi informava in modo discreto dei servizi che il Dipartimento di supporto psicologico offriva in circostanze come le mie.

L’esperienza è stata assolutamente unica sotto il profilo umano e intellettuale, e radicalmente diversa da quella italiana. Mi ha offerto prospettive totalmente nuove sulla realtà, e rivelato la conoscenza non come un prodotto finito da esibire, ma come dialogo. Ho toccato con mano un sistema in cui il dubbio, la difficoltà e la crisi sono considerate parti naturale del processo di formazione e come tali sono prese in carico, al fine di non lasciare nessuno indietro.

università

Lungi da me disprezzare l’Università del mio Paese, perché è stato grazie a essa e all’intero sistema scolastico italiano che ho affrontato il Master preparata e sicura di alcuni fondamentali strumenti, in particolare della capacità di analizzare e interpretare il mondo. Alla prova dei fatti, durante il Master ho elaborato saggi e un progetto di tesi che univano le mie idee alla capacità di argomentare in modo analitico e coerente, e che per questo sono stati accolti con entusiasmo.

Eppure, non potrò dimenticare lo shock, e la sensazione di inadeguatezza durante molte lezioni, quando, spinta ad offrire idee e spunti personali sulle teorie studiate, ho sentito la mia mente come una tabula rasa. Non solo io. Molti sembravano affetti dalla stessa sindrome (tra di essi, molti studenti orientali, mentre più disinvolti in assoluto apparivano, senza sorpresa, gli statunitensi). Resta un mistero quanto di questo fosse dovuto a timidezza, quanto alla lingua. A me ha fatto pensare a quanto tempo ed energia abbia speso, durante il mio percorso di studi in Italia, nell’imparare a comprendere e riportare teorie e nozioni, e a quante volte sia stata invece spinta, stimolata a darne la mia visione. Quante volte la modalità di valutazione, dalle elementari all’Università, sia stata incentrata sulla verifica della mera comprensione e apprendimento, piuttosto che sulla discussione critica. Nella mia esperienza, il confronto è, purtroppo, impietoso.

Non voglio neppure santificare la mia esperienza qui in Regno Unito. Insospettabilmente, la scuola si è dimostrata farraginosa in più di un’occasione sotto il profilo organizzativo e burocratico. Non tutti i docenti del mio corso, pur affabili e privi della quella tipica autoreferenzialità di casa nostra, si sono dimostrati professionalmente validi. Al momento attuale sono in attesa dei miei ultimi risultati e la SOAS deve ancora passare lo spinoso esame del supporto nella ricerca di lavoro, al cui solo pensiero, ancora una volta, tremo.

università

Alcune delle cose che porterò con me di questo anno sono una gioiosa e chiassosa fioritura di nuovi e diversi interessi, vissuti attraverso i legami di amicizia con persone distanti per nazionalità e cultura; la curiosità di mettere in discussione le letture più tradizionali della realtà e di chiedermi, quando ascolto una storia che avviene a migliaia di chilometri da me, se ci sono altri modi di raccontarla.

Forse più di tutto, una prospettiva sulla conoscenza più intimamente connessa con l’apertura e la ricerca, che con il contenuto, meravigliosamente (e ironicamente) riassunta in una frase che Elisa, la professoressa italiana, ci disse a fine corso: “A questo punto della vostra carriera di studi, quello che vi auguro non è di avere le giuste risposte, quanto di farvi le giuste domande.”

Chiara Marandino