“Cento pagine per l’avvenire” di Aurelio Peccei

“Mio padre fu indotto a scrivere ‘Cento pagine per l’avvenire’ dalla profonda convinzione che l’umanità si dirigesse verso un disastro e che per evitare questa catastrofe era necessario che il mondo cambiasse rotta immediatamente. Da ottimista quale era, mio padre nutriva la speranza che il suo libro sarebbe stato un potente campanello d’allarme per il mondo”.

Con queste parole Roberto Peccei apre la prefazione che introduce la nuova edizione dell’ultimo libro scritto da suo padre, Aurelio Peccei, dal titolo “Centro pagine per l’avvenire”, recentemente ripubblicato da Giunti, assieme a Slow Food Editore e all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, all’interno della collana Terrafutura. Questo testo fu scritto e venne pubblicato per la prima volta nel 1981 da Aurelio Peccei, ex partigiano tra i protagonisti della ricostruzione del dopoguerra italiano e figura di profonda influenza nel mondo scientifico e imprenditoriale a livello internazionale per aver contribuito a fondere culture e realtà solo all’apparenza inconciliabili. Si tratta di un saggio ‘atipico’, che ha il pregio di aver mantenuto intatta tutta la sua attualità e la potenza del pensiero del suo autore, precursore e pioniere, che ha saputo prevedere la gravità della crisi che oggi ci attanaglia e anche suggerire un cammino per superarla.

Secondo Peccei, dal dopoguerra in poi, la rincorsa verso il progresso e la crescita, in primo luogo economica, hanno allargato il campo visivo dell’uomo, accorciandone, però, in un certo senso, l’orizzonte e facendo sì che, nell’arco della propria vita, un singolo essere umano sia testimone oculare di stravolgimenti che, in epoche passate, erano solo immaginabili. Se tutto ciò, da un lato, ha permesso un’evoluzione sempre più veloce, dall’altro, ha provocato un depauperamento delle risorse naturali e dell’ambiente che ci sta decisamente sfuggendo di mano, facendo in modo che lo sviluppo esponenziale delle risorse umane e antropiche sia direttamente proporzionale alla progressiva distruzione del nostro habitat. E saremo tutti d’accordo nel constatare che non può esistere umanità senza un ecosistema idoneo alla sua crescita. L’unico modo per invertire questa tendenza è comprendere fino in fondo quanto l’unione del genere umano, in tutti i continenti e i popoli, ricchi o poveri che siano, sia importante e addirittura fondamentale. Peccei vedeva nella collaborazione a livello mondiale tra le varie nazioni, la quale mirasse a un’uguaglianza non solo formale, ma sostanziale, l’unica imprescindibile strategia in grado di salvare il nostro mondo dalla distruzione. Risorse umane e risorse naturali, dunque, dovevano tornare a camminare insieme, procedendo di pari passo. Negli anni Ottanta del secolo scorso in pochi ascoltarono il grido di Peccei, che oggi suona come un’insolita profezia, per la quale, però, lo stesso autore ci ha indicato la via affinché essa non si realizzi: la cooperazione di tutti per una vita più sostenibile ed egualitaria.

In un viaggio tra Storia e Scienza e con l’aiuto di tavole che spiegano dettagliatamente molti aspetti del nostro cammino evolutivo, Aurelio Peccei guida il lettore in una riflessione su se stesso e sul proprio modo di vivere, aiutandolo a comprendere che , quanto mai oggi, in pieno 2019, abbiamo bisogno di una profonda rivoluzione culturale e “umana” che ci porti verso la consapevolezza della responsabilità di ciascuno di noi, sia come singolo, sia come componente di un gruppo, come un’azienda o una società, nei confronti del nostro pianeta e, quindi, del nostro futuro.

In particolare Peccei attribuisce grande importanza alle nuove generazioni e alla loro capacità di afferrare l’avvenire anche solo grazie a una particolare intuizione e apertura mentale. È in questo spirito di innovazione che l’intera umanità dovrebbe avere massima fiducia, distaccandosi da interessi che la danneggiano.  Secondo Peccei, tra le esigenze fondamentali dell’uomo c’è quella di “imparare a governare l’immenso conglomerato di società e di sistemi, sempre più connessi e interconnessi, che formano il nostro mondo”.  E per farlo c’è un solo modo: imparare e governare noi stessi attraverso una “profonda evoluzione culturale”.

Alessandra Rinaldi

“Loro chi?”: dalla fiducia alla truffa è ‘n attimo!

Mettere in piedi una truffa è complicato e ardito, ma se il truffatore è tale Marcello, con il volto dello spumeggiante Marco Giallini, sembra una cosa semplicissima, oltre che divertentissima.

David, interpretato da un bravissimo Edoardo Leo, invece è un ragazzo di trentasei anni di questi tempi, con tanti sogni nel cassetto che soccombono alla massima aspirazione possibile: uno stipendio fisso da mille e settecento euro, una donna al suo fianco e una casa propria.

Per arrivare a quella che sembrerebbe poter essere la sua realizzazione, però, deve far colpo sul proprio presidente con la presentazione del nuovo prodotto innovativo dell’azienda per la quale lavora. Un prodotto talmente innovativo da essere diventato il prossimo obiettivo di un furto internazionale, a cui realmente nessuno crede, salvo il presidente dell’azienda per cui David lavora.

Per una serie di vicende surreali, David diventa vittima di una banda di truffatori proprio il giorno prima della grande presentazione al mondo, perdendo tutto. Casa, compagna, soldi sul conto e lavoro sfumano in un secondo, anzi a dirla tutta, nel tempo necessario a smaltire il sonnifero.

Da quel momento si cimenta in una ricerca spasmodica della banda che lo ha truffato con la sola idea di vendicarsi, fino a quando, ritrovato Marcello e le sue complici, non decide di seguirli per non perdere l’occasione di riavere il suo risarcimento.

David, sognatore e persona semplice – quasi uno sfigato -, incastrato in una vita che non gli piace, da vittima assapora un modo di vivere completamente opposto alla realtà e si fa trasportare in questo gioco a quattro, diventando esso stesso un truffatore e fornendo alla banda il colpo da due milioni di euro a cui puntavano fin dall’inizio e che, guarda caso, è proprio il prodotto dell’azienda per la quale David lavorava.

Commedy action di come se ne vedono davvero poche in Italia, questo film del 2015 diretto da Francesco Miccichè e Fabio Bonifacci, distribuito dalla Warner Bros. Pictures, ha sfiorato i due miolioni di incasso nella prima settimana di programmazione al cinema e ricevuto la candidatura ai David di Donatello come miglior film esordiente.

Un film con tante situazioni al limite del paradossale, alcune delle quali realmente successe, dove Marco Giallini ed Edoardo Leo, sono la fortuna di questo film, tanto bravi nella commedia quanto nell’impersonare il senso vero della storia a cavallo tra il fidarsi e il truffare.

La pellicola, divertente fino alla lacrime e con un cast davvero eccellente, però ha alla base un tema molto delicato: la fiducia.

David altro non è che la rappresentazione dei lavoratori giovani e precari di oggi, sognatori e di cui è facile farne beffa. Quelli che a un certo punto della propria vita, pronti a tutto pur di trovare la loro svolta, sono disposti a fidarsi degli altri diventando a loro insaputa marionette nelle mani di chi promette quel cambiamento tanto agogniato.

Marcello è invece un artista, un compositore della realtà che vive la magia dell’arte (del truffare) in modo poetico ed è un creatore di sogni. Quegli stessi sogni che David ha sempre accantonato in funzione di altro, che diventeranno la sua trappola e che, nella seconda parte della storia, gli faranno assaporare l’illusione di vivere proprio come avrebbe voluto, lui che ha sempre sognato di fare lo scrittore e vivere così come se fosse in un romanzo.

Il truffatore di questo film, invece, regala emozioni alle persone che diventeranno leggende – vedi la scena del (falso) provino al ristorante più paradossale che altro – , è una persona piena di inventiva, si guadagna da vivere in modo decisamente eccentrico, regalando fantasia agli altri ma tenendosi stretti i soldi, rappresentando così la falsità e l’egoismo che spesso si ritrovano nel mondo del lavoro.

Il personaggio di Marcello regala nei dialoghi del film delle vere chicche, dimostrando come il truffato debba supplicare (inconsapevolmente) per avere la sua truffa, credendo invece di essere sul punto di realizzare i propri sogni.

Quante volte, anche inconsapevolmente, ci siamo ritrovati in situazioni in cui, pur di arrivare al nostro obiettivo, abbiamo dato il massimo ricevendone in cambio solo un pugno di mosche? O peggio, non è mai capitato a nessuno di voi di impegnarsi strenuamente in qualcosa in cui si credeva davvero, ricevere una pacca sulle spalle o, addirittura, un rifiuto, vedendo poi quella nostra stessa idea messa in bocca ad altri?

Beh, il film rappresenta nel suo piccolo tante situazioni in cui ognuno di noi potrebbe trovarsi o, per  sfortuna, ha già testato sulla propria pelle con la differenza che questa storia ci ha fatto ridere,  ma nella realtà, sempre più spesso, la fiducia che riponiamo negli altri può essere strumentalizzata. 

A seconda poi di dove ci si posiziona in questo fantomatico gioco con gli altri,  quello che resta può essere la sensazione di “essere stati fregati” o quella di averne fatto un profitto per sè sulle spalle di qualcun altro. 

Insomma, dalla fiducia alla truffa è ‘n attimo e non è detto che dopo si riesca ancora a ridere.

Francesca Tesoro

“Che vuoi che sia”: mai sfidare il ‘Popolo di Internet’

È senza confini e senza guida. O meglio, troppo spesso va dove lo porta il vento. A volte si infervora come quello che prese la Bastiglia, altre si lascia chiudere gli occhi come in balia di una mano invisibile e, da quando ha la possibilità di incontrarsi e confrontarsi su piazze virtuali efficaci e spietate come i Social Network, è meglio cercare di farselo amico. Stiamo parlando del cosiddetto “Popolo di Internet”, una nuova nazionalità transnazionale, senza cittadinanza e senza passaporto, ma anche senza regole, di cui tutti facciamo parte, sia come esseri umani, sia come lavoratori.

La disavventura in cui si trovano invischiati Claudio e Anna, protagonisti del film “Che vuoi che sia”, diretto da Edoardo Leo, che veste anche i panni dello stesso Claudio, rappresenta alla perfezione il predominio e, allo stesso tempo, la dipendenza di tutti noi da questo strano popolo virtuale, sia nella vita di tutti i giorni, sia per la realizzazione in ambito lavorativo. Con una commedia esilarante, talvolta ai limiti del grottesco, Edoardo Leo e Anna foglietta rappresentano una coppia di giovani italiani come tante, incastrate tra la volontà di metter su famiglia con tutti i crismi e il desiderio di lavorare in autonomia, realizzando progetti per i quali hanno studiato e fatto sacrifici. Mentre Anna è un’insegnante (precaria, che ve lo dico a fare) Claudio è un ingegnere informatico che conosce bene i computer e le dinamiche della rete ed è convinto di dominarle con successo. Ma, quando in seguito a un colloquio di lavoro, gli viene proposto di dare il via a un crowdfunding per verificare quanto il suo progetto risponda alle esigenze dei consumatori, si trova disorientato dal poco riscontro che trova. La sua idea è creare un’App, Lavoro Advisor, che permetta di mettere in comunicazione domanda e offerta di lavoro col semplice uso dello smartphone, un progetto lodevole, ma che sembra non bucare lo schermo del Pc, come si dice, per cui ben pochi sono disposti a dargli fiducia e, di conseguenza, fondi volontari.

Deluso e dispiaciuto, dopo essersi ubriacato a una festa assieme ad Anna, Claudio registra un video che mette online, nel quale sfida apertamente il popolo della Rete: se inizierà ad accumulare abbastanza soldi, oltre a realizzare il suo progetto di lavoro, farà un video hard assieme all’ignara Anna e lo metterà sul Web. Quella che, complice l’alcol, sembrava solo una goliardata da adolescenti, la mattina dopo è già diventata virale e l’interesse e la curiosità del popolo di Internet si scatena. In molti iniziano a donare cifre sempre più alte e anche l’attenzione degli altri Media, in primo luogo della Televisione, non fa altro che ingigantire le conseguenze di ciò che Claudio ha fatto. Anna, inizialmente sconvolta, viene sospesa da scuola, ma poi finisce per convincersi che, pur di realizzare il sogno di una stabilità economica e anche di una famiglia, è disposta a dare in pasto al pubblico un episodio della propria intimità con Claudio, anch’egli sempre più deciso a non tirarsi indietro, fino a un sorprendente epilogo.

Il quesito di fondo, filo conduttore di tutta la pellicola impregnata di un umorismo e di un senso pratico squisitamente italiani, è fin dove siamo disposti a spingerci per realizzarci, sia nella vita lavorativa, sia in quella privata? In tempo di crisi e precarietà economica, si sa quanto questi aspetti dell’esistenza siano binari che, affinché il treno della vita non deragli, devono correre parallelamente senza intoppi: senza incontrarsi, ma anche senza scontrarsi irrimediabilmente, come probabilmente accade a Claudio e Anna.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro, oltre al senso di instabilità che il nostro cinema italiano è ormai maestro nel raccontare, anche con un sorriso amaro, è interessante analizzare lo spirito critico con cui si illustrano metodologie che all’estero hanno permesso a molti imprenditori senza mezzi di realizzare i propri sogni, creando realtà lavorative oggi solide. Crowdfunding, Social Network e Web in generale, infatti, più che un luogo di incontro per essere sostenuti e aiutati anche a livello economico, per mettere in piedi un progetto lavorativo alla portata di tutti, sembrano mostri mitologici interessati solo al sesso e al pettegolezzo che chiedono uno scotto da pagare decisamente in contrasto con la dignità dell’individuo, sottolineando quanto il nostro Paese sia impreparato e, in un certo senso, indifferente a certe dinamiche di democrazia e meritocrazia 3.0.

Fortunatamente, a volte, sia per quanto riguarda la nostra vita privata, sia per quanto riguarda le nostre ambizioni lavorative, ci pensa le realtà a spezzare le catene del virtuale, grazie alle sue imprevedibili leggi non scritte e al ruolo imprescindibile del nostro libero arbitrio. Anche perché ciò che in Rete è virale oggi, domani (forse) sarà dimenticato grazie a qualcosa di ancora più virale…

Alessandra Rinaldi

Michela Tamai: storia di una Food Technologist Blogger

Quando intervistiamo una persona, la prima cosa che guardiamo sono i lineamenti del volto e gli occhi. Involontariamente, ci fanno capire tante cose, prima tra tutte se quello di cui stiamo parlando è un grande progetto e quanto è profondamente loro. Sarà scontato ma è una verità incontrovertibile.

Michela Tamai, una donna che da subito trasmette l’impressione di essere “una tutta di un pezzo”, nonostante il suo modo di parlare pacato e rilassato, si è illuminata immediatamente non appena  abbiamo iniziato a parlare del suo fantastico progetto che trovate all’indirizzo  foodmadewith.com.

Che cos’è foodmadewith.com?

Il nome del blog è già di per sé molto intuitivo. Si tratta di un blog sulla tecnologia alimentare. 

Foodmadewith è una piattaforma di facile consultazione che, nella sua semplicità, pone al servizio di tutti coloro che lo leggono tematiche tecnico-scientifiche riguardanti il mondo del cibo” ci ha spiegato Michela, aggiungendo che sul suo blog “Si può leggere di prodotti e innovazione, processo produttivo e tecnologia, qualità e nutrizione”.

In un’epoca come la nostra, dove vanno di moda ricette, chef e pagine dedicate ai diversi modi di fare cucina, questo blog ci ha colpito per il suo altissimo contenuto scientifico, in pieno stile Sistema Generale.

“In  foodmadewith.com non troverete ricette o consigli per rendere migliore la vostra pietanza, ma che voi siate responsabili ricerca e sviluppo e qualità in azienda, titolari di un’azienda alimentare o di un ristorante o semplici appassionati  che hanno voglia di sapere qualcosa di più del vastissimo mondo dello sviluppo e tecnologie di prodotti agro-alimentari, allora questa è la pagina giusta” ci ha detto Michela, descrivendo come il carattere divulgativo del progetto si coniuga alla precisione scientifica dei contenuti per i quali lei sta creando una bibliografia altamente qualificata e che, ovviamente, potete leggere sul blog.

Come e quando è nata l’idea di creare  Foodmadewith?

Abbiamo chiesto a Michela, come fosse nato questo progetto e la sua intervista è stata una meravigliosa chiacchierata intrisa di passione e competenza, della sua professionalità applicata alle tecnologie di oggi e alla sua voglia di far sapere al mondo della rete cose di cui si parla poco e spesso in modo molto scientifico.

Foodmadewith.com è nato esattamente così: durante gli ultimi anni del mio lavoro da Direttore R&D di una grande multinazionale del cibo, avevo accarezzato l’idea di creare questa piattaforma, cominciandola a plasmare solo quando ho deciso di dedicarmi alla libera professione come consulente R&D per l’industria agroalimentare. 

Del resto, lavorare per una grandissima azienda impegna molto lasciando poco spazio ad altri progetti e ho creato questa piattaforma, ritenendo che nel panorama informatico italiano mancasse un blog che seguisse le tematiche scientifiche alimentari in modo completo, trasversale ma anche accessibile e facilmente fruibile”.

E lei, che si definisce una Food Technologist Blogger, ha cercato di colmare questa mancanza, indirizzando il suo bagaglio professionale, le sue conoscenze, la sua curiosità, la passione e, non da ultimo, le ricerche che le venivano commissionate, per tenersi aggiornata e aggiornare il mondo. Senza improvvisazione.

Qual’è stato il percorso che ha portato Michela a diventare una  Food Technologist Blogger?

“Mi sono laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari all’Università di Udine a metà degli anni novanta, per più di venti anni ho rivestito ruoli di crescente responsabilità nell’ambito della Ricerca e Sviluppo di Unilever, diventando poi Direttore R&D Technical Management per Unilever Italia e successivamente Direttore R&D Deploy Gelati e Tè per l’Europa, esperta in product development project management, team management e change management” ci risponde ricreando la sua personale linea del tempo professionale.

E questa cosa ci ha incuriosito ancora di più, come fa una persona a passare da una multinazionale alla libera professione? Che cosa ha significato per Michela Tamai? 

La risposta che ci ha dato con il sorriso ci è piaciuta tantissimo, perché lo ha definito “L’altra parte del mondo”, raccontandoci poi, con estrema disinvoltura, le differenze del mondo aziendale da quello della libera professione, che non troverete scritte in nessun manuale.

“Non è vero che il mondo aziendale è tutto uguale. Misurarsi con la piccola azienda significa vivere i rapporti in modo più vicino, significa prendere delle decisioni e viverle rapidamente, operare con time-to-market strettissimi, senza mai perdere il focus territoriale e locale. Le multinazionali sono invece intrise di complessità organizzativa e stratificazioni a qualsiasi livello, che richiedono tempo e investimenti. Ma sono quelle che permettono al professionista la capacità di misurarsi e confrontarsi con l’internazionalizzazione, con persone, culture e modi di vivere differenti, materialmente e virtualmente. Le grandi aziende, soprattutto se leader in un determinato settore, offrono grande formazione, competenze e specializzazioni di altissimi livelli  che sarebbe impossibile trovare altrove”.

Quanto è differente il lavoro da libero professionista in questo ambiente?

“Essere un libero professionista significa prima di tutto immergersi nella capacità di essere flessibili, interfacciandosi, lavorando e facendo consulenza dal piccolo operatore al grandissimo, dietro casa o dall’altra parte del mondo, senza passaggi intermedi” sorride Michela.

“Ho scelto di condensare tutte le esperienze del mio passato e le ho trasformate nella base di partenza per l’altra parte del mondo, scegliendo di intraprendere la libera professione. All’inizio non è stato facile per chi come me era abituata a vivere la dimensione aziendale, ma con il tempo ho  capito com’era meglio incanalare le mie energie e prima ancora le conoscenze per colmare i gap e il progetto di Foodmadewith è diventato piano piano una realtà”.

Da dove sei partita?

“Dalla base, scegliendo con cura la struttura del blog e ho cominciato a completarlo, pezzetto dopo pezzetto, convincendomi che non fosse mai abbastanza perfetto per entrare nel mondo frenetico della rete” continua a raccontare Michela, dimostrandosi, come in effetti è, una perfezionista “Ma ad un certo punto ho capito che il blog era pronto per farsi conoscere e, attraverso le piattaforme social, è stato presentato alla rete. Prima Facebook, un po’ per vedere l’effetto che faceva, poi LinkedIn, così il mondo ha conosciuto Foodmadewith e viceversa ed è stato un successo” ammette divertita.

E quali sono i progetti per il futuro?

Michela è una Team Player, lo si vede da come parla, lo capiamo dalle cose che ci racconta, dai progetti che ha già programmato nel dettaglio. 

“Le collaborazioni” ci dice in modo immediato “Il lavoro in team è fondamentale, è la soluzione. Creare un network di esperti dove ognuno possa seguire i topic del blog facendolo trasudare di passione e competenza, completandolo e rendendolo una piattaforma innovativa per i temi trattati sull’onda del nuovo modo di fare business, permettendo alle persone di trovare ciò che serve, sfruttando anche tipologie di contenuti differenti che possano essere usate dai tecnici aziendali o, perché no, anche dagli insegnanti, creando un luogo virtuale dove formarsi o dove chiedere una consulenza”. 

Parlare con Michela Tamai ci è piaciuto davvero tanto. E’ la struttura aziendale di sé stessa, dalle competenze ai piani di sviluppo e investimento passando per il training e, per quanto tutto questo possa sembrare una sfida, lei ha la stoffa per vincerla.

Non vogliamo raccontarvi tutto di Foodmadewith appositamente, per lasciarvi il gusto di scoprirlo giorno per giorno, articolo per articolo, perciò vi invitiamo a leggere i suoi contenuti e divenirne followers, perché ne vale davvero la pena.

Poi chissà, magari tra qualche anno ricorderemo questa data come il giorno in cui anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo presentato al mondo una nuova stella della rete.

In bocca al lupo a Michela e in bocca al lupo a  Foodmadewith.

https://foodmadewith.com

Francesca Tesoro

“Il complesso di inferiorità” di Enrico Mattei

“Io proprio vorrei che gli uomini responsabili della cultura e dell’insegnamento ricordassero che noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso di inferiorità che ci hanno insegnato, ovvero che gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno le capacità della grande organizzazione industriale. Ricordatevi, amici di altri paesi: sono le cose che hanno fatto credere a noi e che ora insegnano anche a voi. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio. Dovete avere fiducia in voi stessi, nelle vostre possibilità, nel vostro domani; dovete formarvelo da soli questo vostro domani. Ma per fare questo è necessario studiare, imparare, conoscere i problemi”.

Queste parole, ancora così attuali, sono state pronunciate nel 1961 da Enrico Mattei, uno dei più importanti industriali italiani del secondo dopoguerra, partigiano e fondatore dell’Eni nel 1953, in occasione dell’apertura dell’anno accademico della Scuola di studi superiori di idrocarburi di San Donato Milanese. Questo e molti altri famosi discorsi dell’imprenditore marchigiano sono stati raccolti nel libro che prende proprio il titolo di “Il complesso di inferiorità”, Edizioni di Comunità ed è il terzo volume di Humana Civilitas, una collana che mette insieme una serie di brevi testi che testimoniano il pensiero di grandi personaggi, donne e uomini, che hanno reso ricca la Storia del nostro Paese nel secolo scorso.

Di famiglia semplice e con un passato da operaio, dopo aver frequentato con profitto l’università, Mattei ricopre un ruolo importante nelle fila partigiane a partire dal 1943. Quando, dieci anni dopo, fonderà l’Eni, Ente Nazionale Idrocarburi, avrà fin da subito l’intenzione di mettere in atto un modello innovativo di cooperazione energetica tra Stati, stringendo accordi che hanno minato il predominio delle cosiddette Sette Sorelle, le più note e forti compagnie petrolifere angloamericane. Appassionato di arte e attento alla formazione e alla ricerca di sempre nuove forme di energia, il lavoro di Enrico Mattei si è interrotto bruscamente quando è rimasto ucciso il 27 ottobre 1962 in un incidente aereo, ma il suo approccio rivoluzionario è ancora vivo nel ricordo di chi, negli anni successivi e fino ad oggi ha cercato di seguire le sue orme e il suo esempio, e lo dimostra l’attualità dei suoi discorsi. 

Al di là delle posizioni politiche e delle mosse imprenditoriali, ciò che colpisce è la volontà di riscatto che l’industriale cerca di comunicare con le sue parole di incoraggiamento e di lode verso il popolo italiano, da nord a sud, spingendosi anche oltre i nostri confini, verso l’Africa, visti i rapporti intensi legati all’uso delle materie prime necessarie allo sfruttamento dell’energia.

I concetti di dignità, collaborazione e affrancamento, sono, secondo Mattei, valori che accomunano i nostri popoli, entrambi sottovalutati sul mercato e, spesso, anche sul piano politico internazionale. L’unico modo per uscire dalla spirale dello sfruttamento è fare dell’autonomia e della fiducia verso il futuro una dote su cui lavorare concretamente attraverso il confronto. A tal proposito la preparazione, lo studio e la ricerca sono elementi fondamentali come i mattoni per costruire un futuro migliore, anche oggi.

Alessandra Rinaldi

“Che fine ha fatto il futuro?” di Marc Augé

Mai come in questo periodo storico, in tutto il mondo occidentale, il concetto di futuro e, soprattutto, la sua percezione, sono mutati a tal punto, da stravolgerne ogni parametro. 

Marc Augé, antropologo francese, africanista di formazione, è stato precursore e, in un certo senso, quasi premonitore di questa rivoluzione che sembra andare oltre il tempo e lo spazio, in particolare col suo testo “Che fine ha fatto il futuro?”, uscito in Italia dieci anni fa per la Casa Editrice Eléuthera.

Le riflessioni che ci ha suggerito questo testo, a tratti cinico, a tratti lirico, a tratti estremamente tecnico, pur nel suo stile scorrevole, ma anche complesso, visti i tanti riferimenti storici, artistici e filosofici, non riguardano solo il concetto di futuro, ma anche quelli di progresso e di economia che, come i due carabinieri che tengono stretto il Pinocchio di Collodi, hanno catturato, in un certo senso, le nostre naturali speranze verso il futuro stesso. Ben prima che iniziasse questa crisi economica che ancora ci attanaglia tutti e ci ha portato alla recessione, Augé ha fatto riflessioni profonde sulla globalizzazione e sugli stravolgimenti economici, soprattutto nel mercato del lavoro e nella sua percezione da parte dei cittadini, da un lato sempre più proiettati verso l’aspirazione ad una ‘cittadinanza mondiale’, dall’altro, forse, incapaci di sostenerne le molteplici difficoltà e la necessaria tolleranza. Per quanto riguarda il concetto di progresso, soprattutto da trenta o quaranta anni a questa parte, l’ingresso a gamba testa di tecnologie sempre più avanzate, sia nella nostra vita quotidiana, sia nei nostri luoghi di lavoro, ha causato un terremoto nella nostra percezione emotiva dell’esistenza, imprigionandoci in un immobile presente per cui è difficile, da un lato ricordare il passato (anche quello più recente) imparando da esso, dall’altro avere fiducia in un futuro migliore, avendo speranza, ma anche volontà di costruirlo adeguatamente.

Come mai questo oggi smemorato e cinico ci possiede a tal punto, si domanda Augé? Viaggiando attraverso il tempo e lo spazio, ma anche attraverso culture e popoli, luoghi e nonluoghi, come li definisce l’autore stesso, egli traccia possibili “cure” a questa “malattia” del nontempo che, come nell’effetto domino, potrebbero trovare efficacia in ogni aspetto della nostra vita, dalle relazioni, ai posti di lavoro, passando per la razionale capacità di affrancarci con spirito critico dai nostri modelli di riferimento creandone di nuovi per le future generazioni. Modelli che abbiano forti radici nel passato e rami rigogliosi, proiettati verso l’orizzonte futuro.

Una delle speranze che suggerisce Augé sta nell’educazione e nella scuola, il più possibile democratica e accessibile a tutti, in grado di formare adulti, ma anche professionisti ed esperti capaci di far comprendere a tutti l’importanza dell’eguaglianza, soprattutto nella comunicazione, anche politica.

“La vera democrazia passa per una chiara definizione delle relazioni egualitarie tra tutti gli individui, tra tutti gli uni, chiunque siano, e tutti gli altri, chiunque siano. Oggi ne siamo ancora bel lontani. Ed è questa la ragione per la quale gli appelli alla violenza, quale che sia l’ideologia che li ispira, avranno sempre un’eco tra i più sprovveduti. Così non è vietato all’antropologo, che cerca di osservare ciò che è, suggerire ciò che potrebbe essere se fosse restituita una finalità al linguaggio politico e se si prendesse finalmente alla lettera l’ideale spesso proclamato dall’istruzione e dalla scienza per tutti. Bisogna pensare al plurale, certo senza dimenticare che non è l’individuo che è al servizio della cultura, ma sono le culture che stanno al servizio dell’individuo”.     

Alessandra Rinaldi

“Sully” e il valore delle scelte

Diverse volte abbiamo usato i film come strumenti di formazione, diretti o indiretti, per le persone che si ritrovano a ricoprire ruoli importanti o semplicemente, abbiamo scelto film, che permettevano la comprensione di alcuni valori, situazioni o del fattore umano.

Perciò oggi abbiamo scelto di parlarvi di “Sully”, film del 2016 co-prodotto e diretto da Clint Eastwood, che racconta una storia realmente avvenuta nel 2009. Questo titolo ci ha catturato per il peso e il valore che conferisce alle scelte e alle loro conseguenze. Ne avremmo potuto selezionare di più simpatici o ironici, ma questo ci ha convinto per il  forte impatto emotivo che crea non solo nel pubblico – considerando che è tratto interamente da una storia vera e che il reale protagonista ha partecipato alla scrittura e alle riprese del film –  ma anche nelle persone che spesso si ritrovano a prendere decisioni che possono cambiare il valore delle cose e lo stato dei fatti.

Se avete visto questo film, magari non coglierete subito il perchè di questa scelta, ma se lo vedrete solo dopo aver letto questa recensione, noi di Sistema Generale, siamo sicure di aver fatto la scelta migliore.

Chesley “Sully” Sullenberger, interpretato dal magistrale Tom Hanks, è il pilota del volo della  US Airways 1549 che,  decollato da New York con centocinquantacinque passeggeri a bordo, poco dopo impatta contro uno stormo di uccelli che ne compromette i motori. Non essendo sicuro di poter rientrare su uno degli aeroporti vicini ed avere, così, la certezza di salvare la vita di tutti coloro i quali sono sul volo, Sully sceglie la via più difficile e fa ammarare il suo bestione sulle acque gelide del fiume Hudson che attraversa la città. Quella che poteva sembrare la mossa più azzardata e rischiosa, si rivela invece vincente. I passeggeri sopravvivono, i soccorsi arrivano in tempo, i testimoni oculari del fatto restano sbigottiti e il pilota diventa un eroe per l’opinione pubblica ma, ben presto, dovrà fare i conti con l’inchiesta aperta nei suoi confronti dall’ente aeronautico per non aver seguito il protocollo. Sully terrà testa alla commissione di inchiesta e in particolare invaliderà, con la sua competenza e la sua conoscenza, tutte le prove contro di lui, dimostrando la loro erroneità perchè imprecise, errate e soprattutto in quanto elaborate da una macchina, palesando come il valore della conoscenza umana possa essere migliore di qualsiasi algoritmo.

Cosa ci insegna questo film?

L’associazione di un fatto di cronaca così importante, diventato prima un libro e poi un film, potrebbe sembrare molto distaccato da qualsiasi ambito, anche al di fuori del lavorativo-professionale. In realtà, al contrario, estremizza brutalmente  il valore  delle scelte che facciamo e le loro conseguenze o, meglio ancora, le ripercussioni delle nostre scelte sui fatti successivi. Da un altro punto di vista, invece, ci dimostra come con la competenza e la caparbietà si possa sostenere ciò che si è compiuto ed in alcuni casi, dimostrare come la scelta più rischiosa sia (stata) quella giusta. 

Ad un certo punto del film, avvenuta la tragedia e partita la commissione di inchiesta, ci si rende immediatamente conto di come Sully viva un sentimento di profonda frustrazione presagendo un giudizio su tutta la propria carriera, con il rischio di poter essere ricordato negativamente solo per quei 208 secondi e non aver seguito il protocollo e non certo per aver salvato i passeggeri più l’equipaggio.

Secondo me sono due  i momenti catartici di questo film. Il primo, quando l’aereo senza i motori plana letteralmente sulla città di New York in un silenzio irreale, soprattutto in cabina di pilotaggio, per qualche secondo. In quei secondi, lo sguardo del pilota cambia e si illumina della soluzione per cui nessun pilota al mondo viene e verrà mai addestrato.

Il secondo, invece riguarda il terrore che il bravissimo Ton Hanks fa trasparire in tutta la sua pienezza, ed è quello di perdere tutto nonostante la consapevolezza di aver fatto del proprio meglio.

Ed è li che si vede il valore e il peso del fattore umano, quello di cui più volte abbiamo parlato.

L’indagine della commissione che seguirà all’incidente, è sul fattore umano, vuole indagare il perchè delle decisioni prese dal pilota e dal suo secondo, che sono convinti di aver fatto il massimo, il meglio e l’unica cosa possibile per salvare tutti.

Tom Hanks-Sully da voce e rappresenta la chance migliore, giura che lo avrebbe rifatto e sbugiarda gli ingegneri aeronautici che non sono piloti e che soprattutto non erano lì. È questo il senso delle cose e di questo film in particolare. Le decisioni le prendiamo noi e non possiamo affidarci ad ogni logaritmo che crediamo corretto. Soprattutto ce ne dobbiamo assumere la responsabilità dopo.

Manager o pilota?

Per quanto – fortuna sua – un manager potrebbe non trovarsi mai in una situazione così estremizzata, ci piace molto il sillogismo con il senso di ciò che rappresenta il pilota del film. Come Sully ha salvato la vita di tutti affidandosi alla sua esperienza, alla sua competenza e alla capacità maturata negli anni per aver saputo “calcolare le distanze a vista” per ammarare sull’Hudson e non precipitarci dentro – attenzione, c’è una bella differenza!-, così il manager, chiamato a prendere decisioni dovrebbe saper prevedere l’esito delle stesse e delle ripercussioni, fidandosi del proprio fattore umano e di quello dei propri collaboratori, avendo anche la capacità di osare e scegliere la via più rischiosa, sapendone sostenere il dopo. Una scelta rischiosa fatta in modo consapevole e competente non dovrebbe mai metterci in dubbio e non dovrebbe mai farci pentire di aver raggiunto l’obiettivo.

In qualsiasi settore dovessimo trovarci, questo film dimostra il valore e la valenza delle nostre scelte, molto più importanti degli schemi e dei logaritmi usati ormai ovunque per trovare la soluzione. Si può essere preparati ed addestrati a tutto, ma è il saper scegliere in modo corretto che fa la differenza. In fondo Sully sarebbe potuto tornare all’aeroporto de La Guardia come dettava il protocollo, ma non ci sarebbe arrivato, perciò, è stata la scelta più rischiosa di ammarare che gli ha permesso di salvare tutti.

Francesca Tesoro

“Leadership Emotiva” di Daniel Goleman

“Leadership Emotiva – Una nuova intelligenza per guidarci oltre la crisi” edito dalla Bur di Daniel Goleman non è un libro che abbiamo scelto, anzi, è più corretto scrivere che si è fatto scegliere. Prima di tutto, la copertina colorata e accattivante lo rendeva più vicino a un libro simpatico che a uno riguardante la materia del leader, della sua formazione, del suo essere e della sua applicazione pratica nel mondo aziendale e del lavoro ma, molto più in generale, nel circuito delle relazioni di gruppo.

Probabilmente questa sensazione discende direttamente anche dall’autore, Daniel Goleman, giornalista americano classe 1946, psicologo specializzato nello sviluppo della personalità – materia di cui è stato anche professore ad Harvard -, scrittore di temi altisonanti quali la neurologia e le scienze comportamentali per il New York Times e con all’attivo una intera collana dedicata all’intelligenza emotiva e sociale, alla creatività e alla leadership, all’empatia e all’emotività, alle forze che compongono e costituiscono le cose e le persone senza scadere mai nel trascendentale incomprensibile.

Lo scopo principale di questo volume è spiegare, in termini semplici e fluidi di immediata comprensione, raccontando qua e là reali aneddoti accaduti agli alti livelli di grandi imprese, come essere “capi” migliori, più efficienti e, perché no, anche più amati.

Così, leggendo le pagine che scorrono velocemente, scopriamo come, attraverso la gestione degli stati d’animo di chi lavora con noi, il leader dovrebbe riuscire a far crescere l’armonia e il talento dei propri collaboratori. Armonia e talento, per quanto scontati, vengono presentati e raccontati come elementi fondamentali alla base dello sviluppo economico ed anche culturale delle comunità aziendali e, in uno spettro più ampio, della società. E Goleman ci dice anche come far emergere queste qualità altrui e come portarle avanti, ci racconta com’è un leader, quali sono le sue caratteristiche, le capacità che deve possedere e mettere in atto, cosa deve evitare e come può farsi ascoltare migliorando, in questo modo, la riuscita non solo del proprio lavoro ma anche di tutti coloro i quali gli ruotano intorno.

Chi è il Leader? 

Il leader decide la strategia e sa motivare, riesce e sa creare un clima di finalità collettiva costruendo una cultura condivisa. È colui il quale, attraverso la costruzione di legami emotivi e la promozione di rapporti armoniosi, raggiunge risultati. Un leader, con la sua democraticità, suscita consenso stimolando principalmente la partecipazione, generando nei collaboratori prestazioni eccellenti e un generale senso di autonomia finalizzata all’obiettivo comune.

Riuscendo ad accendere la passione dei collaboratori per il proprio operato, il leader dovrebbe perciò (riuscire a) tirare fuori il meglio da loro e per fare questo, l’unica cosa sulla quale deve lavorare sono le emozioni. Del resto, non è vero che un lavoratore che viene trattato bene, considerato, incitato e del quale vengono valorizzati i talenti, che lavora in un ambiente positivo, lavora meglio? È esattamente vero! E la soddisfazione di un collaboratore nei confronti del proprio lavoro e, di conseguenza, dei superiori è determinata, nella stragrande maggioranza dei casi, da questo meccanismo.

Infatti il successo non dipende tanto da “cosa”ma dal “come”e, quindi, se un leader non è in grado di spronare nel modo corretto le emozioni delle persone della propria squadra nella giusta direzione, non raggiungerà certo i risultati sperati o programmati.

Ciò che distingue i leader migliori dalla massa è la consapevolezza del ruolo decisivo che le emozioni giocano sul posto di lavoro, tanto per ciò che riguarda i risultati tangibili – rendimenti, evitare che il collaboratore con talento scelga di lavorare per altri portandosi dietro il know how, per esempio – quanto per quello che riguarda le relazioni morali, la motivazione, l’impegno di ciascuno, fin anche arrivando ai così detti beni immateriali.

Di contro, i manager dotati di scarsa empatia e di una sorta di freddezza emotiva, sono quelli che tendenzialmente non ascoltano, non valorizzano i talenti dei propri collaboratori e/o dei sottoposti, non raggiungono gli obiettivi e, miseramente, portano sé stessi e l’azienda alla progressiva diminuzione di profitti e rendimenti, insomma all’insoddisfazione e, nei casi più estremi, al fallimento.

Di che stoffa è fatto il leader?

Il primo grande elemento che un leader deve possedere, è senza dubbio l’Intelligenza Emotiva, quella di cui proprio Goleman scrive.

L’intelligenza emotiva è la capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie emozioni e quelle degli altri. Autoconsapevolezza, Autoregolazione, Empatia e Talento Sociale, affiancati ad abilità tecniche e cognitive, quali la capacità di ascoltare e il possedere il ragionamento analitico, la capacità di lavorare di concerto con altri e la flessibilità di fronte al cambiamento, sono gli aspetti attraverso i quali essa si manifesta e si mette in pratica.

Analizzando questi elementi, ci si rende conto come autoconsapevolezza e autoregolazione riguardino la gestione di sé, mentre invece empatia e talento sociale hanno a che fare con la gestione dei rapporti con gli altri. Gli altri elementi, che ad un lettore distratto possono sembrare solo dei meri corollari, sono invece gli (ottimi) strumenti di attuazione delle componenti che riguardano il sé e gli altri.

La capacità di mettere in pratica correttamente questi elementi in modo unitario ed equilibrato, diventano la predisposizione all’eccellenza nella leadership.

È, di per sé, un concetto abbastanza semplice e logico: in ogni gruppo umano, sia esso di compagnia o di lavoro, di piccola azienda o multinazionale, il leader gode – e lo fa in misura superiore a tutti gli altri – del potere di influenzare le emozioni dei suoi subordinati. Di conseguenza se queste vengono stimolate verso l’entusiasmo, il gruppo darà del suo meglio, in alternativa, se al posto dell’incoraggiamento, si scegliesse la via dell’ansia, della pressione e del rancore, il gruppo andrà completamente fuori fase, perdendo di vista obiettivi e i rendimenti in ambito lavorativo oppure le intere relazioni tra i soggetti, se tali comportamenti riguardano un gruppo non lavorativo. 

Per quanto possa essere relativamente recente l’idea che l’intelligenza emotiva, la quale vede le sue prime teorizzazioni a metà degli anni novanta dello scorso secolo, presenti dei grandi vantaggi a livello di costi e benefici, è ormai un dato di fatto quando, statistiche alla mano, si nota che la maggior parte dei manager che svolge il proprio lavoro con il cuore più che con la testa – senza perderla ovviamente!- abbiano più successo.

Entrare in sintonia con i sentimenti delle persone con cui si lavora, permette di gestire le situazioni di difficoltà e di conflitto, anche latente, senza che sfuggano di mano ed arrivino a livelli incontrollabili. Nonostante nella mente dei più, il concetto di leadership sia collegato all’idea di dominio e superiorità, nella realtà della gestione di un qualsiasi gruppo, essa è al contrario l’arte di persuadere gli altri a cooperare in vista di un obiettivo comune.

Le competenze di un leader

Per quanto tutto possa sembrare fumoso e aleatorio, quanto scrive Goleman è al contrario molto concreto e tangibile e, dopo aver letto il libro con molta attenzione, cercherò di schematizzarvi in modo diretto le competenze che un leader deve possedere, lasciando a voi la voglia di leggere l’appendice al libro dove troverete la spiegazione chiara e concisa di ogni abilità.


In ogni caso e qualsiasi sia l’ambito nel quale vogliate diventare dei Leader, prendete spunto da questo ottimo volume e vedrete che le cose andranno sicuramente nel modo migliore.

Francesca Tesoro

“Shareable! L’economia della condivisione” a cura di Tiziano Bonini e Guido Smorto

L’economia della condivisione o sharing economy è oggi una realtà in forte sviluppo anche nel nostro Paese. Oltre a un sistema economico rivoluzionario che si genera dalla collaborazione tra pari, l’economia della condivisione sta diventando, in molte parti del mondo, un vero e proprio stile di vita, un modo di pensare e di organizzare la propria quotidianità contando sul prossimo, ma anche mettendosi a disposizione del prossimo stesso. Car sharing, bike sharing, home sharing, crowdfounding, co-working e molti altri termini presi in prestito dalla lingua inglese sono parole ormai di uso comune anche per noi, un po’ per sentito dire, un po’ per esperienza diretta.

In “Shareable! L’economia della condivisione”, Edizioni di Comunità, Guido Smorto e Tiziano Bonini hanno raccolto e tradotto assieme a Maria Moschioni una serie di articoli tratti dalla rivista online no profit Shareable.net, nata nel 2009 negli Stati Uniti dalla collaborazione dei maggiori esperti mondiali di economia collaborativa, come guida a questo nuovo modo di vivere e di pensare, ma anche come antidoto alla profonda crisi che, con un preoccupante effetto domino, ha colpito tutto il mondo occidentale in questo ultimo decennio. Questa antologia di articoli vuole fare il punto sui successi e sui fallimenti di questo sistema economico in tutto il mondo, cercando di avvicinare al concetto di economia collaborativa anche noi Italiani, più restii a concederci la possibilità di affacciarci su questo universo di novità che ha per basi il rispetto del prossimo.

Come spiega nella sua prefazione Neal Gorenflo, direttore esecutivo e co-fondatore di Shareable.net e consulente sui temi legati alla sharing economy per istituzioni pubbliche e private in tutto il mondo, la condivisione è una delle attività umane più importanti per diversi ordini di fattori, come la lotta all’esaurimento delle risorse naturali, all’isolamento sociale, al divario tra ricchi e poveri, ma anche allo spreco delle risorse e all’indifferenza sociale verso chi sta peggio. Questo sistema, naturalmente, non relega in secondo piano la proprietà privata, ma la esalta, mettendola a disposizione del prossimo che, a sua volta può mettere la propria a disposizione degli altri e così via. All’interno di questo sistema primordiale, naturalmente, si inseriscono anche le aziende, magari produttrici di strumenti o servizi utilizzabili da tutti come se fossero propri, per poi essere rimessi a disposizione degli altri, una volta terminato l’utilizzo esclusivo. Tutte queste dinamiche permettono di esaltare la sostenibilità dei servizi resi, ma anche di rafforzare un senso di fiducia e rispetto verso “l’altro”, chiunque egli sia, come nostro pari e nostro alleato nella vita di tutti i giorni e non come ostacolo alla nostra completa libertà di espressione e di possesso.

In questa raccolta di articoli, tuttavia, si evidenziano anche i fallimenti di questo sistema economico e la difficoltà di applicarlo in comunità non ancora pronte o in ambiti troppo complessi, oltre alle conseguenze economiche e sociali anche negative che questa economia può avere in determinati casi, come la perdita o la ricollocazione di risorse lavorative e anche di capitale umano.

Maggiormente interessanti sono gli articoli che approfondiscono esempi concreti di città, più o meno grandi, che, in tutto il mondo stanno cercando di mettere in pratica questi modelli, ma anche quelli che raccontano l’impatto che la sharing economy potrebbe avere sulle amministrazioni pubbliche, analizzandone vantaggi e svantaggi in modo puntuale ed equilibrato.

Di sicuro per molti, tra cui i fondatori di Shareable.net, l’economia della condivisione rappresenta un sogno che si realizza ogni giorno: a ogni traguardo raggiunto si aggiunge un nuovo obiettivo da raggiungere. Per altri si tratta, invece, di un vero e proprio incubo, un sistema che mette in discussione status sociali e differenze non solo economiche, pieno di incertezze e punti interrogativi per la sua stessa struttura che mette l’uomo al centro e non i suoi beni. Il pregio di questa raccolta di articoli non è dare una risposta giusta o sbagliata ai dubbi e alle considerazioni del lettore, ma di proporre una guida, un approfondimento fatto dai risultati degli studi e dell’esercizio di molti esperti del settore, in modo tale che ciascuno possa farsi un’idea più consapevole e possa decidere che ruolo avere all’interno di questo sistema economico di condivisione che è già una realtà tangibile in tutto il mondo.

Alessandra Rinaldi

La Mucca Viola di Seth Godin

Nell’immaginario comune, se parliamo di mucca viola la prima cosa che vi viene in mente è quella di una nota marca di cioccolata. Quello è marketing.

E noi oggi parliamo proprio di questo, di un libro scritto da Seth Godin e pubblicato dalla  Sperling & Kupfer che si intitola  La Mucca Viola – Farsi notare (e fare fortuna) in un mondo tutto marrone. Libro molto interessante, valido per esperti del settore o per chi lo ha cominciato a leggere per sbaglio, riguarda sì il marketing, ma da un’altra prospettiva, quella del cambiamento, del miglioramento, della modifica delle strutture aziendali in questa materia e che hanno avuto successo, proprio quando hanno cominciato a sentirsi e comportarsi come la Mucca Viola.

Ma chi è Seth Godin? Partiamo dal presupposto che per quanto possa sembrare un inguaribile visionario, è in realtà fondatore e CEO di Squidoo.com ed è uno dei più famosi business blogger al mondo. Ha cominciato a lavorare nel mondo del marketing abbastanza presto, seguendo le sue idee un po’  sopra le righe ma decisamente vincenti: Brand manager di Spinnaker Software nei primi anni ottanta, fonda con i risparmi la Seth Godin Productions poco dopo, occupandosi di packaging editoriale, creando successivamente la Yoyodyne con la quale ha poi sviluppato via internet tutto ciò che riguarda concetti di permission marketing, viral marketing e di direct marketing. Insomma, uno che del marketing ha fatto la sua missione.

Proprio la sua grande esperienza in marketing, lo ha portato a scrivere – tra i tanti – questo libro che mette nero su bianco la fenomenologia inattesa, straordinaria, entusiasmante e assolutamente incredibile che c’è dietro un prodotto, qualsiasi esso sia. 

In effetti, con il passare del tempo e l’aumentare dei prodotti, produttori, modi di fare e di creare la pubblicità, il mutare del nostro modo di vivere e di farci influenzare è cambiato al punto che la prima cosa scritta dall’autore riguarda le P del marketing che non bastano più.

 

Prodotto, prezzo, promozione, posizionamento, pubblicità, packaging, passaparola, permesso – le P del marketing, appunto – sono gli elementi alla base del marketing che viene prodotto e portato avanti in qualsiasi azienda che produca anche un solo oggetto che necessariamente deve trovare il suo spazio nel mercato. A queste deve aggiungersi, oramai, la P della Purple Cow, cioè la straordinarietà di ciò che vuole essere messo nel mercato.

Perchè per fare marketing serve, oggi, lo straordinario?

Perchè si fa notare, fa parlare di sé, suscita interesse. Soprattutto oggi, dove le condizioni del fare pubblicità ad un determinato prodotto sono cambiate, bisogna rendere straordinario l’ordinario che tutti potrebbero produrre e/o vendere. Allo steso tempo, se renderemo il nostro prodotto straordinario, allora cattureremo tutta una fascia di popolazione che magari era interessata ad altro.

Per quale motivo?

Semplicemente, nella storia del marketing bisogna rendersi conto che ad un certo punto le cose sono cambiate. Prima la pubblicità bastava ad entrare nelle case e nelle teste delle persone, anche perchè lo sviluppo dei prodotti non era  avanzato come oggi, per cui le persone – tra le tante cose – non potevano, in realtà, scegliere lo stesso prodotto nelle svariate declinazioni concorrenti tra loro. Oggi invece i consumatori sono troppo impegnati per prestare attenzione alla pubblicità, hanno una quantità di prodotti simili e collaterali e l’unica domanda che si pongono quando stanno per comprare un determinato prodotto è se possa o meno risolvere il loro problema.

La mucca viola è una strategia, un modo di fare strategia, a maggior ragione oggi dove per formulare una teoria valida di successo, bisogna fare attenzione al mondo reale che ci circonda per meglio capire il motivo che sta alla base dei prodotti che fanno scintille nel cuore dei consumatori. Soprattutto nel 2018, dove i normali mezzi con cui si è fatto marketing fino ad oggi stanno perdendo efficacia. La volontà e il modo che stanno alla base del fare marketing è quella di percorrere la via più rischiosa, sembra un paradosso, ma Godin lo esplicita chiaramente: la via meno rischiosa da intraprendere è proprio quella di rischiare, solo così si faranno cose davvero straordinarie. Il rischio da correre è di fare qualcosa di straordinario, di riuscirlo a fare talmente tale da farlo correre e diffondere come se fosse un virus tra le persone. Per quanto sia vero che il fare marketing è cambiato e che i suoi costi siano mutati, è altrettanto vero che se si ha il coraggio di diventare la mucca viola di una determinata parte del mercato, significherà investire ed avere costi elevati, ma si tramuterà anche in un sistema che funziona. E se il sistema funziona, riusciamo a diventare la purple cow, allora diventeremo ricchi. Impossibile? No. Se il mercato è affollato e seguiamo le regole, falliremo perchè resteremo invisibili e dunque, il rischio più grande è quello di essere prudenti.

Per quanto possa sembrare assurdo, non si sa se realmente la Mucca Viola funzioni, avrà successo o meno quando si decide di intraprendere questa via, ma la verità più assoluta è che a farla funzionare è l’imprevedibilità stessa del risultato, perchè il banale conduce al fallimento, lo straordinario….no!

Il principio della mucca viola, secondo Seth Godin, si applica molto bene alle imprese medio-piccole che vogliono crescere e accrescere la propria quota di mercato, non rimanendo incastrate nel rispettare obiettivi trimestrali, profitti, quote di produzione e la minor percezione di rischio possibile. Sapete qual è la vera differenza tra l’ordinario e lo straordinario in termini di marketing? Le idee straordinarie hanno molte più possibilità di diffondersi delle idee che non lo sono, eppure, sono pochi i coraggiosi che creano qualcosa di veramente straordinario, rischiando.

Qual è il modo per creare la Mucca Viola? È infallibile?

Pariamo dalla cosa semplice: non esiste una formula segreta,  un piano o un manuale che garantiscano un successo certo. Per definizione una autentica Mucca Viola è qualcosa di straordinario nel modo giusto, né più né meno. Al contrario, il sistema è molto semplice: bisogna puntare su qualcosa di assolutamente fuori dall’ordinario, pensare a quali attributi straordinari possa avere questo qualcosa e poi valutare i risultati di marketing e quelli finanziari che si vuole raggiungere. Passando in rassegna le famose altre P, provate a indicare dove potrebbero collocarsi gli attributi straordinari. Così avrete un quadro ben preciso per passare alla fase successiva che consiste nell’immaginare la vostra innovazione.

La Mucca Viola, altro non è che un processo per mettere in luce intenzionalmente o per caso gli elementi che fanno dei prodotti ordinari, prodotti straordinari. 

E il marketing? 

È il prodotto  stesso e viceversa, nel senso che al giorno d’oggi il marketing deve fare parte di ciò che decidiamo di produrre e lanciare sul mercato e non come si faceva prima che diventava una strategia successiva e collaterale, perchè la purple cow ha modificato la definizione stessa di marketing.

Prima, ogni settore di un ciclo produttivo era gestito da diversi soggetti e il marketing era solo il fare pubblicità, comunicando il valore del proprio prodotto che – attenzione – era già stato sviluppato, realizzato e commercializzato. Oggi invece il marketing è l’atto stesso di inventare il prodotto, di progettarlo, di definirne il prezzo, di trovare prima ancora di farlo conoscere al mondo quale sia la strategia migliore per venderlo.

Per quanto tutta questa storia del marketing in cambiamento e della Mucca Viola possa sembrarvi decisamente paradossale, sappiate che all’interno del volume troverete una lunga serie di real cases che dimostrano il contrario testimoniando come questo nuovo modo di fare marketing funzioni. 

Allo stesso tempo, sono sicura, che il vostro sguardo di sorpresa si fermerà proprio sul nome di alcune aziende che tutti noi abbiamo sotto gli occhi ogni giorno e che, scegliendo di essere una mucca viola nella prateria del commercio, stanno avendo successo.

Esattamente come scrive Seth Godin.

Francesca Tesoro