“HR Outsourcing” di Roberto Ferrari, Umberto Frigelli e Claudio Tronconi

Parlando di azienda e impresa, welfare ed evoluzione del sistema imprenditoriale, la nostra attenzione si è concentrata sul libro scritto da Roberto Ferrari, Umberto Frigelli e Claudio Tronconi, edito dalla Guerini e Associati in collaborazione con la AIDP, Associazione Italiana per la Direzione del Personale, intitolato “HR Outsourcing – L’esternalizzazione dei processi di gestione delle Risorse Umane tra rischi e benefici”.

Il volume può essere definito un vero manuale in materia grazie anche al suo altissimo livello tecnico che, attraverso dati empirici e casi specifici frutto di una ricerca articolata, ha messo in luce le motivazioni e gli obiettivi che hanno spinto le aziende a ricorrere alla esternalizzazione delle attività e dei servizi riguardanti il settore HR.

Se il tema dell’esternalizzazione dei processi di gestione delle Risorse Umane ha ormai raggiunto una consolidata esperienza e un concreto utilizzo a livello aziendale, mancava nella realtà dei fatti una base teorica che spiegasse il perchè di questa scelta e le conseguenze da essa derivanti, una linea guida che razionalizzasse e focalizzasse le best practices in HR.

Un progetto nato da lontano….

Come scrive Claudio Tronconi (AIDP Lombardia) nell’introduzione, questo progetto è nato diversi anni prima rispetto la materiale pubblicazione.

Nel giugno 2005 Roberto Ferrari, Direttore Area HRM in Outsourcing dell’ISMO (società di formazione e consulenza), partecipa con il suo articolo  “L’outsourcing per la gestione e lo sviluppo dele Risorse Umane” ad un numero della rivista Direzione del Personale.

L’anno seguente, Tronconi e Ferrari si incontrano ad un congresso nazionale della AIDP – Associazione Italiana per la Direzione del Personale – parlano di quell’articolo e, nella stessa occasione, incontrano Marco Guerci, al tempo assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano.

Sul finire del 2006 Umberto Frigelli, Responsabile del gruppo Ricerca AIDP Lombardia presenta una ricerca sulla “Innovazione per la gestione delle Risorse Umane”.

Nel 2010, viene creato un gruppo di lavoro misto formato da AIDP (Frigelli e Tronconi), ISMO Group (Ferrari ed altri) e il Politecnico di Milano (Guerci) i quali, partendo da un lavoro di analisi della letteratura in materia di allora, hanno definito il campo di ricerca sulla quale avrebbero voluto operare, data la necessità di tracciare un confine delle prassi di gestione delle Risorse Umane nelle aziende. Perciò si sono concentrati sull’Outsourcing come quel processo attraverso il quale le aziende assegnano stabilmente a fornitori esterni la gestione operativa di una o più funzioni che prima erano svolte all’interno delle singole aziende.

Una volta definito questo campo di ricerca, grazie al coinvolgimento di ISMO, sono stati intervistati sette direttori Risorse Umane che avevano già intrapreso e consolidato questo processo per identificare i rischi e i benefici dei processi di Outsourcing ed avere una raccolta di best practices e case studies.

Successivamente, attraverso dei focus group  tra aziende e consulenti interessati a questo tema,  sono state confrontate le opinioni e le situazioni di chi aveva realizzato progetti di Outsourcing per favorire lo scambio di esperienze sugli obiettivi da raggiungere, valutare i benefici e considerare i rischi che si sarebbero dovuti affrontare e, di conseguenza, identificare i fattori critici di successo grazie all’incontro di consulenti differenti tra loro per tipologia ed approccio alla questione.

Infine,  AIDP – storica associazione di Manager con ruoli direttivi, di responsabilità e di consulenza nel settore HR presso privati e istituzioni pubbliche – forte dei suoi tremila soci, ha chiesto ad alcuni di loro, precisamente a centoquindici manager, di esprimere opinioni sul tema attraverso la compilazione di un questionario.

Il 25 novembre 2010, AIDP Lombardia ha organizzato il convegno di presentazione di questa ricerca che, poco dopo, è stata trascritta per intero nel libro di cui stiamo parlando.

….Una ricerca con aspetti teorici, concettuali e pratici….

Il punto nodale di questa ricerca è stato il contributo dell’HR alla competitività delle organizzazioni e le specificità identificate dell’esternalizzazione nel campo delle Risorse Umane, valutando le implicazioni manageriali per le imprese italiane che sono diventate l’obiettivo finale del lavoro.

Perchè questa ricerca fosse valida è stato necessario valutare gli Aspetti Concettuali e Teorici,  affrontati nel capitolo uno. Così, introdotti gli elementi caratterizzanti del fenomeno dell’outsourcing e i benefici derivanti, sono stati analizzati i contesti di diffusione dei processi e delle attività di gestione delle HR, è stato approfondito l’impatto che l’esternalizzazione della gestione HR ha sulle organizzazioni, concentrandosi sulle motivazioni e sulle scelte alla base del make or buy, sui modelli teorici di riferimento e sulle competenze indispensabili per la gestione di questo processo. 

La ricerca sull’HR Outsourcing nelle imprese, come riportato nel secondo capitolo, si è dunque concentrata sulla comprensione delle dinamiche che spingono le aziende ad esternalizzare questo settore, trovando la risposta nella necessità di assecondare e seguire il processo evolutivo che coinvolge le Direzioni Risorse Umane, proiettate ad apportare sempre un contributo strategico senza compromettere l’efficienza e l’efficacia dei propri servizi.

Nell’ultimo capitolo dedicato alle Prospettive emerge ciò che è richiesto alle Direzioni delle Risorse Umane e cioè la capacità di evolvere ad una visione professionale consapevole del business capace di influenzare i comportamenti delle persone, facendo di questi un vincente elemento di strategia aziendale anche e soprattutto alla luce dei cambiamenti del sistema economico e dell’innovazione tecnologica.

….Per definire Benefici, Rischi  e Obiettivi dell’HR Outsourcing.

Marco Carcano, autore della postfazione, sostiene che questo libro racchiude in sé una buona ricerca per cinque ragioni – e non gli si può dar che ragione – perchè:

    • non ha trascurato gli approfondimenti, soprattutto metodologici, che sono alla base della pratica dell’outsourcing;
    • ha usato una strumentazione di ricerca sociale, attraverso la materiale partecipazione dei soci AIDP, l’utilizzo dei case studies e dei focus group;
    • ha prodotto una base teorica;
    • ha creato un team di lavoro interdisciplinare sia dal punto di vista delle competenze che delle esperienza professionali;
    • nel tempo della ricerca sono stati correttamente distinti gli HR Outsourcing, HR Consulting e Temporary Management.

È stata palesata la necessità di procedere con gradualità e rigore tanto nella fase di impostazione che nella fase di implementazione del processo di HR Outsourcing, fornendo altresì uno sfondo di riferimento circa le relazioni industriali, l’impresa e il lavoro quale elemento che va tutelato anche a fronte della trasformazione del suo ruolo, il tutto in una determinata complessità sistemica.

Dai risultati della ricerca emergono chiaramente i benefici e i rischi dell’HR Outsourcing.

I benefici possono essere classificati:

      • di efficacia quando riguardano la focalizzazione sulle attività strategiche, l’accesso e lo sviluppo di nuove competenze specialistiche ed aggiornate, l’accesso a tecnologie avanzate e l’incremento della flessibilità, senza dimenticare il know-how;
      • di efficienza quando si parla di riduzione dei costi, del time consuming, degli investimenti e della razionalizzazione del personale interno.

Al contrario sono stati definiti come rischi il possibile abbassamento del livello dei servizi che si ricevono se non si contratta primariamente con i partners che andrebbero a gestire il servizio esternalizzato ciò che si vuole, il lasciare spazio ad eventuali comportamenti opportunistici, la perdita di controllo o le aspettative disattese sui processi se non vengono impostate operazioni di double-check con i fornitori e, da ultimo ma non meno importante, le possibili resistenze all’interno delle aziende stesse derivanti dal processo di reengineering che è alla base dell’HR Outsourcing.

Infine, va segnalato un ulteriore aspetto messo in luce da questa analisi. Ciò che infatti è risultato comune e maggiormente sentito dai differenti modelli e settori aziendali che hanno preso parte alla ricerca e che determinano la scelta di ricorrere all’HR Outsourcing, sono stati gli Obiettivi. Non deve certo apparire fuori luogo come il concentrarsi sulle attività strategiche aziendali, la riduzione dei costi, l’accesso a competenze specifiche e la razionalizzazione il personale interno diventino i traguardi da raggiungere nella scelta di percorrere la via dell’esternalizzazione.

Insomma, l’esternalizzazione dei processi di gestione delle Risorse Umane, appare una cosa estremamente vantaggiosa sotto diversi profili, ma bisogna preparare tutto alla perfezione, altrimenti si correrebbero solo inutili rischi.

Francesca Tesoro

“Metodo o Follia?” di Robert Lewis

Se con l’articolo “La saggezza dell’improvvisazione” di Patricia Ryan Madson abbiamo parlato per la prima volta dell’improvvisazione come un ottimo strumento aziendale per lo sviluppo e la valorizzazione delle risorse umane, oggi parleremo di Robert Lewis e del suo libro “Metodo o Follia?” edito da Dino Audino Editore.

Anche in questo caso, bisogna fare un passo indietro per capire il motivo per cui questo libro ci ha convinto essere uno strumento di formazione.

Partiamo da Robert Lewis, l’autore di questo libro.

Insegnante di recitazione, attore e regista teatrale sia ad Hollywood che Broadway nonché membro del Group Theatre e fondatore dell’Actors Studios, mentore di molti grandi attori, è stato uno dei principali sostenitori e divulgatori del Metodo Stanislavskij.

Questo metodo, ideato da Kostantin Stanislavskij attore, regista, scrittore e teorico teatrale russo all’inizio del ‘900, si basa sull’approfondimento psicologico del personaggio e sulla immedesimazione tra il mondo interiore del personaggio e quello dell’attore. Prevedendo l’esternazione delle emozioni interiori attraverso la loro interpretazione e rielaborazione a livello intimo, mira alla credibilità scenica, attraverso esercizi che stimolano le emozioni da provare sulla scena per avvalorare il messaggio da trasmettere anche attraverso gli atteggiamenti non verbali.

Così, negli anni cinquanta del secolo scorso, quando questa modalità di recitazione era molto in voga ma oggetto allo stesso tempo di interpretazioni distorte, Robert Lewis tenne otto lezioni-conferenze per attori professionisti, registi ed addetti ai lavori del mondo teatrale per raccontare il Metodo Stanislavskij, fugando tutti gli equivoci che erano sorti intorno ad esso, affrontandolo in modo completo ed esaustivo.

Il libro “Metodo o Follia?” tradotto e pubblicato in Italia per la prima volta nel 2016, raccoglie tutte queste lezioni e fornisce un grandioso spunto di riflessione per chi già conosce il metodo Stanislavskij e un  buon punto di partenza per chi invece è a digiuno di metodologie e approcci della recitazione.

Quello che emerge da questo volumetto di facile lettura e perfettamente comprensibile ai non addetti ai lavori del mondo teatrale, è che il Metodo è un modo per preparare l’attore a sviluppare nel corso degli anni ed attraverso la pratica una tecnica che gli permetta di sfruttare sul palcoscenico tutte le sue risorse. Il Metodo, è uno strumento per raggiungere uno scopo e la tecnica è il suo mezzo, perchè la sola competenza tecnica non è sufficiente a raggiungere un risultato finale soddisfacente. Un punto cardine del Sistema Stanislavskij  è che per insegnarlo è necessario avere l’allievo al proprio fianco, seguirlo nella sua crescita, mostrargli come si fa, dargli la possibilità di provarlo e fargli capire dove sbaglia. In questo approccio sistemico la cosa importante è che, quando si insegna,  non basta parlare, ma bisogna mostrare, agire, dimostrare, trapassare la propria conoscenza all’altro.

Studiare sé stessi e la propria personalità significa diventare consapevoli delle proprie potenzialità e l’assioma che emerge da questo metodo teatrale è la consecuzione “sentimento-pensiero-parola”.

L’obiettivo che Stanislavskij voleva raggiungere con il suo metodo era quello di favorire una recitazione che fosse il più vera possibile, attraverso l’individuazione delle giuste emozioni da esprimere in modo reale ed equilibrato.

Perchè, dunque, collegare il metodo teatrale e soprattutto il metodo Stanislavskij al mondo aziendale, soprattutto a livello di formazione?

Perchè il teatro è una esperienza totalizzante, che viene vissuta con la testa e con il proprio corpo. Applicare la metodologia teatrale alla formazione aziendale trasforma la formazione stessa in una cosa esperienziale, collegando la mente al corpo e alle emozioni, proprio come indica il metodo Stanislavskij.

La formazione svolta in questo modo, rende  le persone più sicure prima delle proprie intuizioni e poi delle proprie azioni, facendo trasmigrare questa sicurezza dal livello personale a quello aziendale. Immaginazione ed intuizione, creatività e sicurezza, la consapevolezza del proprio ruolo, rinsaldano la personalità  e le motivazioni dei singoli e , conseguentemente, quelle del team con il quale si lavora, riuscendo così a vivere una situazione di equilibrio tra sé stessi e la realtà nella quale si lavora.

Seguendo questi insegnamenti non si renderanno le aziende dei palcoscenici sui quali recitare ogni giorno un semplice ruolo, ma le si faranno teatro di un ottimo lavoro di squadra, perchè quando una compagnia teatrale porta in scena uno spettacolo, tutto riesce perfettamente grazie al lavoro di formazione ed organizzazione che c’è dietro.

Francesca Tesoro

“Il lavoro? Me lo invento!” di Lucia Ingrosso e Silvia Messa

lavoroNelle scorse settimane vi abbiamo raccontato come fare positivamente ricorso all’improvvisazione sia durante un colloquio di lavoro , sia nella quotidianità, soprattutto in un ambito aziendale , traendo da questa tecnica i migliori vantaggi.

In un momento economicamente difficile come quello che caratterizza i nostri tempi, tuttavia, per ampliare lo spettro delle nostre opportunità lavorative, potrebbe rendersi necessario mettere da parte l’improvvisazione in senso stretto e dedicarsi alla pianificazione non solo per cercare un lavoro, ma addirittura per inventarselo applicando un vero e proprio approccio sistemico.

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Lucia Ingrosso e Silvia Messa, entrambe giornaliste e colonne portanti del mensile Millionaire, hanno raccontato proprio questa nuova realtà che sta prendendo sempre più piede in tutto il mondo, nel loro nuovo libro, “Il lavoro? Me lo invento!”, Hoepli Editore, cercando di fare il punto sul fenomeno che sta spingendo molti ex dipendenti o inoccupati verso l’esigenza di mettersi in proprio nei settori più disparati e dando consigli e suggerimenti in merito.

Questo manuale sui generis, arricchito dalla prefazione di Iginio Straffi e dalla postfazione di Marina Salamon, tenta di incanalare il naturale istinto all’improvvisazione e il bisogno di assecondare le proprie attitudini con la necessità di programmare, progettare e organizzare da zero una nuova attività, in modo tale da non andare incontro ai fallimenti che spesso, purtroppo, non dipendono né dalla bontà dell’idea iniziale, né dall’impegno profuso dai neonati imprenditori per avere successo.

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La base per questo libro nasce proprio dalla ventennale esperienza di Millionaire, un magazine che dal 1991 supporta, orienta e motiva tutti quei lavoratori che decidono di fare il grande passo verso il mondo dell’imprenditoria. Proprio come Millionaire è cresciuto, adattandosi ai tempi e aprendosi, in particolare, al mondo del digitale e dei Social Network, così la redazione di esperti e giornalisti ha pensato di raccogliere tanti anni di esperienza in un vademecum imperdibile per ogni aspirante imprenditore. Ogni capitolo affronta un aspetto specifico aspetto del percorso che conduce all’avvio di un’attività in proprio, dalla necessità di capire in quale settore cimentarsi, a dove e come trovare i finanziamenti amministrandoli con buon senso, passando per la necessaria burocrazia e la pubblicità a tutto tondo. A conclusione di questo viaggio, che già è caratterizzato dall’analisi di tanti esempi di vita reale e focus schematici, c’è un capitolo che racconta più dettagliatamente le storie di persone che, dal nulla, in tutto il mondo, hanno avuto il coraggio e la costanza di inventare il proprio lavoro, avendo un grande successo.

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La parte più interessante del testo è, senza dubbio, quella dedicata alla promozione dell’attività. Molti nuovi imprenditori, infatti, sottovalutano l’importanza di farsi conoscere dal pubblico di utenti nel mondo giusto, utilizzando anche tutti i mezzi di ultima generazione a disposizione, e tendono a lasciarsi andare al fai-da-te, sprecando energie e illudendosi di “guadagnare” troppo in fretta. Illustrando le principali tecniche di marketing, dal volantino al personal branding, fino all’importanza della Web reputation e della presenza attiva sui Social Network, Lucia Ingrosso e Silvia Massa svelano molti trucchi e segreti in merito, suggerendo quando affidarsi a esperti di comunicazione e quando, invece, è possibile cavarsela da soli.

In ogni capitolo le autrici, oltre a raccontare storie di imprenditori, analizzandone fallimenti e successi, spiegano scupolosamente come muoversi nella Giungla della burocrazia, senza uscirne demotivati, e danno anche la parola a molti altri esperti e influencer dai quali c’è molto da imparare, sfruttando le idee, le strade e le informazioni pratiche che tanti nostri connazionali hanno scelto di condividere, pagina dopo pagina.

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L’esperienza di vita raccontata nel libro che più ci ha fatto riflettere, strappandoci anche un sorriso, è quella di “Il Marito in affitto”, una S.r.l. creata nel 2007 da Giampiero e Fabio Cerizza, un padre e un figlio che, oggi, hanno settanta affiliati in tutta Italia e vari Master in Europa. L’esperienza di Giampiero e Fabio è lo specchio dei nostri tempi in cui la tecnologia è così veloce, da bruciare troppo in fretta l’utilità di tanti oggetti di uso quotidiano, facendoci perdere la capacità di aggiustarli quando si rompono. Quante volte siamo così occupati in altre cose, da non poterci occupare personalmente della manutenzione di tante piccole cose che ci circondano, o addirittura, non ne siamo proprio in grado? È da questo quesito estremamente attuale che i due imprenditori hanno deciso di mettere a disposizione di tutti le “mani d’oro” dei mariti di una volta che in casa sapevano fare tutto, dalle piccole ristrutturazioni, alle riparazioni di ogni genere. Giampiero e Fabio oggi sono un punto di riferimento per tanti clienti e hanno avuto la capacità di creare e di credere in un progetto interamente improntato sulle loro capacità, insegnandolo perfino a chi ha voluto imparare dalla loro grinta, e sono un esempio di modernità e tradizione unico nel suo genere, nato solo da una cassetta per gli attrezzi e da una buona dose di coraggio. Questa esperienza, tuttavia, è solo una delle tante raccontate e descritte nel testo in ogni dettaglio.

“Il lavoro? Me lo invento!” è un libro intelligente, ingegnoso e scritto con la chiarezza e la motivazione giuste per dare concretezza ai sogni di chiunque.

Alessandra Rinaldi

“La saggezza dell’improvvisazione” di Patricia Ryan Madson

 

Prima di parlare di questo libro davvero simpatico, estremamente calzante ed utile per la vita di tutti i giorni, facciamo un passo indietro.

Cosa è fondamentale perchè un libro prenda vita ed esista materialmente?

Un Autore? Si, sicuramente, ma siamo andati troppo indietro.

Un gruppo di persone disposti a leggerlo, anche solo per prova? Può essere, ma è sempre una cosa successiva….

La Casa editrice! Per un libro serve una Casa Editrice.

Perchè diciamo questo?

Per il semplice fatto che “La saggezza dell’improvvisazione”, scritto da Patricia Ryan Madson docente di recitazione all’università si Stanford in quasi vent’anni di lavoro, lo possiamo avere tra le mani e leggerlo in Italia solo grazie alla Barbi Editori.

Ecco il nostro passo indietro (sto improvvisando come mi ha suggerito il libro di Pat)!!!

Nicola Barbi è un imprenditore, un manager d’azienda, estremamente attento alla cultura della formazione aziendale.

Giorgio Paparelle, viene a conoscenza di questo libro, scrive una lettera direttamente all’autrice chiedendo il permesso di poterlo tradurre in italiano per farlo leggere al paese intero.

Ovviamente Patricia Ryan Madson, seguendo una delle regole dell’improvvisazione, da il suo parere favorevole.

Nicola Barbi, convinto dal consiglio del cugino Giorgio, decide di acquistare i diritti d’autore per quella che sarebbe stata l’edizione italiana. Così, nel 2011 decide di fondare la minuscola casa editrice  Barbi Editori per pubblicare il libro della  Madson.

Già solo la storia di come questo libro sia stato tradotto e pubblicato in Italia, sembra essere frutto di una catena di improvvisazione (senza tralasciare la passione!) che ha portato ad un ottimo risultato.

La saggezza dell’improvvisazione”.

Un testo scorrevole, leggero, ma con la capacità di cambiare le carte in tavola di chi lo legge.

Dopo averlo letto mi sento di definirlo un libro teorico e pratico a differenza di tutti i libri che una persona può scegliere di leggere.

Teorico perchè ovviamente deve essere letto. Pratico per i suoi “Prova questo” sparsi qui e là nelle massime, veri e propri esercizi per migliorare ogni volta una sfaccettatura di noi stessi.

Questo volume illustra infatti quelle che l’autrice definisce proprio “Massime dell’improvvisazione”, cioè un principio ogni volta differente che, attraverso esempi pratici di vita vissuta personali, risultano essere applicabili alla vita di tutti.

In questo modo viene suggerita una chiave di lettura e di azione diversa di tutto ciò che si può fare normalmente, dimostrando come l’arte della improvvisazione diventi un valido aiuto al nostro modo di vivere, affrontare, gestire le cose, disquisendo sugli ostacoli che possono sorgere dal nostro agire e le possibilità per superarli, fornendo anche pratici e  semplici esercizi.

L’improvvisazione viene presentata così ai nostri occhi come uno strumento che, al contrario di quanto si pensi, va usato con il buon senso, capace di rendere la mente elastica e in grado di raggiungere gli obiettivi in modo decisamente differente.

La Madson nel suo libro scrive, e sono sicura di essere stata contagiata da questa idea, che la vita sia frutto tanto di pianificazione quanto di improvvisazione, mettendoci davanti opportunità, domande, problemi ai quali noi dobbiamo reagire in tempo reale, perciò il modo in cui affrontiamo tutto questo complesso di cose, altro non è che una eterna improvvisazione.

Fare un passo improvvisando porterà sempre da qualche parte.

Parlando di improvvisazione nel prologo, mi ha davvero meravigliato come Patricia Ryan Madson abbia tirato in ballo la storia dell’evoluzione umana dandole una interpretazione che non ho mai letto prima e, sorprendentemente, corretta.

Lei scrive che l’improvvisazione è venuta ben prima della pianificazione e che per millenni gli esseri umani hanno vissuto spontaneamente giorno dopo giorno, semplicemente trovando la soluzione ai problemi quotidiani. Ma ad un certo punto è diventato necessario pianificare per poter sopravvivere,  di conseguenza questa evoluzione nella storia dell’uomo ha messo fine all’improvvisazione come principale modus vivendi. Questo perché abbiamo imparato a preoccuparci del futuro favorendo lo sviluppo delle nostre capacità celebrali. 

Siccome siamo diventati degli abili programmatori e pianificatori di tutto ciò che dobbiamo fare, abbiamo perso di vista la semplicità e la bellezza dell’agire, non siamo più pronti a risolvere problemi e non sappiamo più guardare alle cose con occhi nuovi. La realtà si presenta a noi sempre in modo diverso ma noi siamo troppo abituati a viverla in modo meccanico.

Allora ci viene in soccorso l’improvvisazione che, paradossalmente, ci permette di analizzare meglio la realtà che ci circonda, trovando le giuste soluzioni ogni volta che dobbiamo fare qualcosa.

Cosa c’entrano le massime dell’improvvisazione con il mondo del lavoro?

Dovreste sorprendervi, perché in realtà sono perfettamente idonee a suggerirci il (corretto) modo di agire.

Quante volte emerge il concetto di Problem Solving durante un colloquio di lavoro?

Se abbiamo un obiettivo lavorativo da raggiungere, non ci viene chiesto di trovare una soluzione?

Cosa può essere utile per centrare il fulcro di un problema?

Non è forse l’improvvisazione? Si.

Vi chiederete, com’è possibile? Sembrano due cose così distanti…

Invece l’improvvisazione, tecnica teatrale nota fino a qualche tempo fa solo ad attori e artisti,  risulta essere un ottimo strumento aziendale per lo sviluppo e la valorizzazione delle risorse umane.

Perché?

Lavorare secondo le massime dell’improvvisazione produce dei risultati concreti.

Può connetterci a qualcosa di più grande (un’azienda per esempio), mettendoci in condizione di cogliere in maniera più chiara il nostro ruolo nello schema delle cose.

Genera un impegno molto più attento al procedimento che conduce al risultato, permette di partecipare pienamente a ciò che si fa e alle relazioni che ruotano intorno ad esso.

Il buon improvvisatore è una persona sveglia, non concentrata esclusivamente su di sé, pronta a fare qualcosa per gli altri e a seguire questo suo impulso.

Improvvisare significa accettare dei rischi, concentrarsi sulle cose che sono più importanti e presuppone il saper leggere l’interdipendenza con gli altri esseri umani (i colleghi dell’azienda).

Leggendo questo libro si comprendono una serie di strategie comportamentali sul teamwork, sulla responsabilità, sulle modalità di azione e di controllo, suggerendo come essere accorti a quello che ci circonda e come fare per avere uno spirito costruttivo.

Concetti prettamente aziendali.

Siete ancora convinti che l’improvvisazione è così distante dal mondo del lavoro e soprattutto dal mondo aziendale?

Francesca Tesoro

Approccio Sistemico alla Narrativa: una lezione dal passato

cover-narrativaDiventare scrittori di professione non è mai stato semplice. Né in passato, quando l’Editoria attraversava periodi più floridi, né adesso che, oltre alla crisi economica, l’avvento del digitale sta cambiando molte cose, generando sia nuove opportunità, sia momenti di confusione. Inoltre lo stretto legame che, senza dubbio, unisce la scrittura all’ispirazione fa sembrare quello dell’autore un mestiere senza regole, presumibilmente alla portata di tutti e che, quindi, non necessita di una grande preparazione specifica, oltre a un innato talento. Quando si pensa agli autori studiati sui banchi di scuola si fatica a capire se l’analisi dei testi che tutti gli studenti sono abituati a fare è solo frutto del lavoro dei critici e degli accademici o è realmente stato uno degli strumenti dell’autore stesso per ideare, rifinire e cesellare la propria opera.

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Probabilmente non esiste una risposta univoca a questo dubbio ricorrente, ma una cosa è certa: anche chi, inizialmente, ha infranto tutte le regole inseguendo il proprio stile e rivoluzionando la letteratura di un periodo o di un altro ha finito per creare, anche involontariamente, regole nuove che, di generazione in generazione, sono diventate emblematici paradigmi per gli aspiranti autori. È proprio in questo, in fin dei conti, che consiste l’approccio sistemico alla scrittura e in particolar modo alla narrativa, soprattutto da quando si è affermato il genere del romanzo, a noi ancora oggi così caro. Le tecniche di scrittura, i generi letterari, la costruzione delle storie in modo equilibrato e complesso possono cambiare nel corso dei secoli, ma restano sempre i mattoni fondamentali con cui costruire le mura portanti dell’opera, senza dimenticare il cemento del talento e dell’ispirazione.
Un’importante lezione su cosa significa applicare un approccio sistemico alla narrativa ci viene proprio dal passato, da due autori che hanno contribuito in modo insostituibile a plasmare la letteratura di oggi: Henry James e Edith Wharton, colleghi e amici anche nella vita privata, i cui scritti fondamentali sul difficile mestiere di scrivere sono stati uniti e messi a confronto in “Narrativa. Istruzioni per l’uso”, Dino Audino Editore.

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Questo testo è suddiviso in due parti, entrambe nuovamente tradotte per questa edizione speciale che costituisce un insostituibile manuale di istruzioni per l’uso per aspiranti scrittori. La prima parte comprende alcuni scritti di Edith Wharton pubblicati su un periodico americano dell’epoca e poi uniti nel libro dal titolo italiano “Scrivere narrativa”. La seconda, invece, è composta da alcuni brani tratti dalle opere di Henry James “L’arte del romanzo” e “Le prefazioni”. I vari testi raccolti sono preceduti da alcuni utili spunti di riflessione della curatrice e traduttrice Federica Grossi che fanno da filo conduttore e sottolineano la profondità dei brani stessi.
Tanto è complesso e articolato lo stile di James, quanto è limpido e scorrevole lo stile della Wharton. Eppure, entrambi con la stessa efficacia, esprimono l’attenzione e la precisione necessarie a qualsiasi aspirante scrittore per approcciarsi a questa professione in modo analitico e rigoroso, applicando sistematicamente un metodo di costruzione e stesura della propria idea originale che possa garantirne la qualità intrinseca, grazie all’uso di tecniche collaudate.

narrazioneDi particolare utilità sono, oltre all’attenzione di entrambi questi autori per la costruzione dei personaggi come caposaldo trainante delle storie assieme alla loro appartenenza socio-culturale, da una parte le considerazioni di Edith Wharton sul punto di vista dal quale si affronta la narrazione, dall’altra la necessità per ogni scrittore, secondo Henry James, di possedere un taccuino di appunti assolutamente privato nel quale dare sfogo alla propria ispirazione prima di procedere alla stesura vera e propria.
In queste meta-opere di autori così importanti si cela tutta la modernità di questi scrittori che, anche nella vita, per quanto diversi, si stimarono profondamente. Nei loro consigli alle nuove leve della letteratura traspare la passione e la profondità necessarie per applicare con attenzione un metodo sistematico alla fantasia e alla creatività delle idee. Solo dall’unione tra ispirazione e sistema, infatti, nasce la narrazione delle storie.

Alessandra Rinaldi

“Scusate se esisto”: una commedia italiana che fa riflettere

Come può una commedia diventare spunto di riflessione?

“Scusate se esisto”, di cui parleremo oggi, film di Roberto Milani con Paola Cortellesi e Raoul Bova, riesce pienamente in questo intento.

Tra risate e colpi di scena davvero divertenti, questa pellicola del 2014 prodotta da Fulvio e Federica Lucisano per Italian International Film e Rai Cinema, è un condensato della realtà odierna, mostrando senza mezzi termini le difficoltà del libero professionista, soprattutto quando è donna.

L’architetto Serena Bruno si è laureata a pieni voti dando il massimo negli studi, ha una carriera di successo all’estero, dirige grandi cantieri nella city londinese e parla almeno quattro lingue diverse.

Al termine dell’ultimo progetto di cui è capo, parlando con i colleghi che puntano a mete lontane e in pieno sviluppo, l’architetto Serena Bruno vuole rilanciare una scelta rivoluzionaria e,  tra lo sconcerto generale, decide di tornare in Italia perché ama il suo paese.

Così si ritrova nella periferia della capitale a lavorare contemporaneamente come arredatrice di interni (in un grande magazzino che vende mobili per clienti tutt’altro che raffinati), curatrice dell’edificazione di un mausoleo per la famiglia storica  più influente della zona (la tomba del proprietario di un compro oro che pretende pacchianerie di altri tempi) e come cameriera per continuare a mantenersi dopo aver esaurito i risparmi del lavoro all’estero.

L’incontro con due giovani (ma gentili) ladruncoli che le fregano il vecchio motorino del padre, le fanno scoprire l’edificio del Corviale che diventa il suo più grande progetto.

Sicura di sé e delle sue capacità di architetto, partecipa ad un bando per la riqualificazione del mastodontico complesso di edilizia popolare e al colloquio convince la commissione esaminatrice, non tanto per  le sue idee innovative, quanto per il suo fingersi la segretaria dell’architetto Bruno Serena.

Tra scene tragicomiche, la complicità del proprietario (Raoul Bova) del locale dove lei fa la cameriera, le loro vite che si intrecciano con quelle degli altri protagonisti del film, il mondo  dell’architetto Bruno Serena crolla e  con esso vengono abbattuti di tutti gli stereotipi messi in scena e scoperte tutte le carte in tavola.

Questo film, basato sulla storia vera dell’architetto Guendalina Salimei, ha portato sullo schermo la  reale storia sua e del “Chilometro verde”, un progetto di riqualificazione di questo complesso residenziale popolare nella periferia della capitale.

Parallelamente, anche se frutto della sceneggiatura che ha romanzato il vero, viene raccontato e dimostrato come essere donna in un ambiente prettamente maschile sia complicato e che spesso i talenti italiani, all’estero considerati tesori e spesi nel migliore dei modi, una volta tornati in patria si ritrovano a dover fare i salti mortali non solo per sbarcare il lunario e sopravvivere, ma soprattutto per far valere le proprie capacità.

Serena Bruno rappresenta tutte le donne che alla firma del contratto con il datore di lavoro si trovano a dover sottoscrivere una piccola clausola proforma, “un espediente di natura prettamente precauzionale, giusto in caso di eventi catastrofici, tipo alluvioni, trombe d’aria, meteoriti e gravidanze” che di certo ad un uomo non viene chiesto.

Così, se la considerazione del firmare in anticipo le proprie dimissioni è decisamente ingiusto, bisogna ricordarsi che rappresenta una realtà tristemente vera.

Serena Bruno è la donna che lavora assiduamente al suo progetto, che ha fatto i sopralluoghi al Corviale e parlato con la gente, chiedendo loro cosa volessero, per realizzare più che i suoi sogni, quelli delle persone che vivono lì.

Serena Bruno è la persona che poco prima di entrare a fare il colloquio, ascolta indecisa una altra aspirante architetto, già arresasi al sistema, che le dice come un progetto del genere non lo daranno mai ad una donna. Ed è lì che ha il lampo di genio, fingersi qualcun altro per diventare qualcuno, facendo semplicemente quello che i futuri datori di lavoro si aspettavano, un architetto uomo con una segretaria donna.

Serena Bruno è l’opposto di Michela (Lunetta Savino), la segretaria del capo Ripamonti, ricco egoista, maschilista e sfruttatore (Ennio Fantastichini), per anni asservita e annullata pur di lavorare, convinta che “loro (gli uomini) stanno sotto i riflettori e noi stiamo dietro le quinte” ma in realtà il vero motore dell’impero Ripamonti, colei la quale non dimentica mai nulla ed è sempre sul pezzo.

Serena Bruno fa crollare il sistema. È una donna caparbia e coraggiosa, che ha combattuto, seppur con l’inganno, il maschilismo di una professione e ha abbattuto il muro tra il dover essere agli occhi degli altri  e quello che realmente si è.

Ma il binomio donna-libera professione è così scoraggiante nella realtà?

Ciò che salta agli occhi leggendo i dati delle ultime inchieste e ricerche, è principalmente il discorso economico. Le donne guadagnano meno degli uomini e, a ben ricordare, qualche anno fa fecero anche uno spot in materia.

Ebbene, nel mondo dell’architettura continuano ad esistere condizioni di diseguaglianza lavorativa, professionale ed economica. Perciò se può sembrare  positivo il fatto che  il 42% degli architetti siano donne, registrando un incremento dell’11% dal 1998 ad oggi, bisogna subito fare i conti con la differenza retributiva che, in media, per una donna è inferiore del 57%.

In realtà non c’è da stupirsi e questo problema non riguarda solo il mondo degli architetti,  perché in via generale nel nostro paese la remunerazione fra lavoratrici e lavoratori è inferiore del 10,9%, valore che lievita fino al 36,3% quando si parla dei laureati.

Ma non è solo un discorso economico.

Il rapporto Eurostat del 2015, riportava che il 40% delle donne ritenute inattive nel mondo del lavoro italiano ha un diploma di scuola superiore o un titolo universitario. Appare quindi evidente che a livello professionale, le donne sono sia formate che qualificate per lo svolgimento delle differenti attività lavorative, ma si scontrano con dei preconcetti culturali talmente radicati nel comune sentire da essere difficilmente scardinati.

Ed effettivamente è così, se ci pensate, i ruoli di controllo, amministrazione e gestione sono prevalentemente occupati da uomini. Nelle libere professioni statisticamente ci sono più uomini che donne. Questo perché culturalmente la donna è sempre stata vista più affine ai ruoli lavorativi legati al mondo dell’istruzione e dell’assistenza, tanto medica quanto sociale, che a capo di una azienda o in un cantiere a sporcarsi le mani di malta.

Ancora, la donna è il fulcro della famiglia, è colei che la gestisce, la cresce, è la parte fondamentale per darle vita e spesso questo si scontra con le aspirazioni professionali della donna-(futura)mamma. È culturalmente lei che si è sempre occupata della cura della casa.

Di conseguenza la donna, più dell’uomo, è generalmente portata a fare la scelta tra la propria ambizione professionale e il resto.

Bisogna chiedersi allora se siamo pronti, come sta iniziando a succedere, che i ruoli assumano delle sfumature  meno nette e che ci si possa tranquillamente interscambiare, senza scadere in facili considerazioni di genere.

Sappiate che ad oggi esistono anche uomini casalinghi – per scelta – che si dedicano alla cura della famiglia mentre le consorti si concentrano sul lavoro, senza  che il mondo vada in frantumi.

Francesca Tesoro

“Un equipaggio sotto zero” di Chiara Abbate, Simone Bandini Buti e Manfredi Pedone

coversottozeroCosa ci fanno tre formatori aziendali al Circolo Polare Artico? No, non è una barzelletta, né la trama di un nuovo film nelle sale cinematografiche, ma il cuore di un appassionante diario di viaggio scritto dagli stessi protagonisti che, col medesimo coraggio che li ha portati ad avventurarsi tra i ghiacci del Polo, ogni giorno si addentrano nella Giungla che spesso può diventare il lavoro in un’azienda.

Chiara Abbate, Simone Bandini Buti e Manfredi Pedone, infatti, sono tre formatori e consulenti che, in seguito a percorsi differenti, hanno fondato CreAttività, una società specializzata in attività formative per enti e aziende. Per dimostrare quanto non conti né il dove, né il quando, ma solo la forza del team, hanno deciso di ripercorrere la rotta Nordovest lungo il Circolo Polare Artico, a cento anni dalla spedizione di Roald Amundsen, facendo di quest’avventura una originale metafora per spiegare l’importanza della coesione del gruppo in un’azienda. È proprio dal racconto, anche fotografico, scritto a sei mani che nasce “Un equipaggio sotto zero”, Lupetti Editore.

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Scritto proprio come doveva essere il diario di viaggio dei grandi esploratori del passato, questo emozionante resoconto è arricchito da riflessioni e parallelismi che affiancano le quotidiane difficoltà aziendali ai rischi che gli stessi Chiara, Simone e Manfredi hanno corso durante la loro avventura. Inoltre c’è un particolare approfondimento verso l’importanza di affinare le proprie capacità di adattamento di fronte ai continui e non sempre consapevoli cambiamenti ai quali ci può condurre un contesto aziendale, così come un deserto di ghiaccio.

La risposta più genuina a ogni difficoltà, secondo gli autori, non è altro che l’unione del gruppo di lavoro nel quale ogni componente può e deve concorrere per il raggiungimento degli obiettivi finali, mettendo a disposizione del team il proprio essere più profondo, fatto di abilità innate e acquisite, ma anche di aspirazioni personali e necessità di guida e riscontri quotidiani. Al racconto delle dirette esperienze di viaggio si affiancano box formativi che raccolgono le riflessioni dei protagonisti, facendo dell’avventura una similitudine con la realtà aziendale e non solo una vicenda fine a se stessa.

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Un aspetto particolarmente interessante per la singolare simmetria che crea tra la spedizione artica e il clima aziendale riguarda le complesse fasi di selezione, conoscenza e aggregazione del gruppo. Gli esercizi che l’equipaggio in partenza per il Polo deve affrontare mettono profondamente in discussione ogni componente e vanno ben oltre le singole capacità che rendono ciascun elemento importante per il benessere del gruppo e il raggiungimento dell’obiettivo finale. Proprio come in un’azienda, ognuno ha il proprio obiettivo personale, differente da quello finale al quale è interessata l’azienda stessa, anche all’interno dell’equipaggio ciascuno ha le proprie motivazioni a spingerlo verso un’avventura così rischiosa. Conoscersi, raccontarsi e rispettare le storie di ciascuno dei componenti del gruppo è il modo migliore, secondo gli autori, per rendere il gruppo protagonista e cementarlo con una calce che va oltre i risultati da raggiungere a medio e lungo temine.

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La grande emozione che i protagonisti di questo viaggio rivivono nel raccontarlo a noi lettori e al pensiero di condividere quest’esperienza coi propri colleghi e coi propri cari fa comprendere quanto il confine tra lavoro e vita privata sia pressoché impercettibile quando si è soddisfatti di ciò che si fa e ci si riesce a esprimere completamente, con la consapevolezza che la formazione in azienda va di pari passo con un approccio sistemico ai cambiamenti e, a volte, per dare la giusta scossa, deve coinvolgere tutti nel profondo. Dentro e fuori dagli open space. Dentro e fuori dalle aule. A costo di andare insieme fino ai confini del mondo… anche solo leggendo un libro.

Alessandra Rinaldi

“The Judge”: quando essere un avvocato non è come nei film

Il mondo televisivo ci ha fatto prendere confidenza negli ultimi decenni con moltissime serie e film di successo sul mondo dell’avvocatura e dei tribunali. Alcuni brillanti e di successo, altri scanzonati oppure cinici e spietati. Maggiormente di provenienza americana, basate su fatti più o meno reali, in località geograficamente vere, molto più orientate al modo del crime piuttosto che a quello civile, la rappresentazione cinematografica dell’avvocato non sempre rispecchia la realtà, almeno quella italiana.

Per analizzare queste differenze e dimostrare che essere un avvocato non è come nei film, vi parlerò di un film che sicuramente avete visto: The Judge.


Nell’America dei giorni nostri, un padre e un figlio non hanno rapporti da anni, finché la donna della famiglia, madre per uno e moglie per l’altro, non muore improvvisamente.

Hank Palmer, interpretato da un ottimo Robert Downey Jr. è il figlio. Spregiudicato e disincantato avvocato trasferitosi a Chicago, definito dai colleghi senza il rispetto per la legge, incallito e formidabile difensore dei colpevoli.

Joseph Palmer, al secolo Robert Duvall, è il padre nonché giudice della piccola cittadina di Carlinville in Indiana, che per quarant’anni ne ha amministrato la giustizia con  estrema fermezza.

Sbrigate le formalità del funerale materno, Hank saluta i due fratelli Glen e Dale e decide di tornarsene nell’Illinois dove lo attendono la figlia e il proprio matrimonio in crisi.

Ma prima che il volo possa staccarsi da terra, arriva la telefonata che lo fa tornare indietro.

Il “Giudice”, come tutti chiamano il padre, è stato accusato di omicidio volontario.

Così lo scontro padre-figlio, non solo generazionale ma soprattutto affettivo, si gioca nel processo al primo che non ammette di aver sbagliato, con il secondo che fa di tutto per difenderlo, alla ricerca di una seconda possibilità.

La pellicola, uscita nelle sale nell’ottobre del 2014 e diretto da David Dobkin, è stato il film d’apertura del Toronto International Film Festival dello stesso anno.

Può considerarsi un buon procedural thriller, con scene profonde ed emozionanti dai dialoghi intensi, dove la sottigliezza glaciale di Duvall si alterna con l’ironia, a volte amara, e la velocità tipiche di Downey Jr.

Gli altri attori famosi presenti nel film, a partire da Vincent D’Onofrio, Jeremy Strong e soprattutto Billy Bob Thornton che condurrà l’accusa contro il Giudice, non sono mai un semplice contorno, ma con le particolarità dei loro personaggi, diventano il collante di questa storia appassionante ed appassionata, dove la ragnatela di ricordi e rancori tra i protagonisti finisce per dissolversi…o forse no.

Emblematica è la scena finale dove….No, non è il momento di svelare il finale!

Ma quanti di voi sanno cosa realmente fa un avvocato e cosa significa essere un avvocato?

Da persona che frequenta questo ambiente ormai da diverso tempo, ho capito due cose: la prima, che tutto quello che si studia sui banchi dell’università serve a ben poco nei corridoi di un tribunale, la seconda, forse la più dura da digerire, è che in questo ambiente se vuoi sopravvivere e diventare un bravo professionista, non basta la tua caparbietà e il sacrificio, ma bisogna farsi squali più grandi e prima degli altri per non diventare la preda altrui. Si, è così.

Eppure non bisogna pensare che intraprendere questa professione debba significare per forza trasformarsi in una cattiva persona, ma il sistema italiano di certo non aiuta a svolgere con tranquillità forse uno dei mestieri più belli e sicuramente al servizio degli altri.

Tornando alla realtà, sono la prima a immaginarmi ad occhi aperti, seduta sul divano, nei legal drama che mi piace seguire, dove tutto fila sempre liscio, le persone ti ascoltano, i casi sono mediamente di facile e celere risoluzione oltre che affascinanti.

Soprattutto adoro le aule dei tribunali americani, pulite, luminose, ordinate, dove hai tutto il tempo per parlare ed essere ascoltato in un silenzio quasi irreale.

In Italia a volte le aule non sono altro che una stanza disordinata e piena di gente che si accalca in attesa del proprio turno, pronti a scalciare se qualche collega vuole fare il furbo e passare avanti, con il giudice seduto ad una normale scrivania che, con carta e penna, scrive di proprio pugno quanto gli viene detto dagli avvocati, dovendo in certi casi richiamare il silenzio dei colleghi che sono più chiassosi di una scolaresca in gita.

Penso che Essere un avvocato e non fare – mi permetto di dire – è un mestiere molto complicato e, personalmente, non mi basta essere associata ad un solo termine che è (anche) una qualifica professionale oltre che sociale.

Per me l’Avvocato è un machiavellico stratega e burocrate dal volto umano, studioso e puntuale che non smette mai di aggiornarsi e di formarsi, ottimo oratore e buon scrittore, paziente ascoltatore, rispettoso e sagace, obiettivo e non guerrafondaio, abile consigliatore, suggeritore e risolutore. Per essere un avvocato ci vuole dedizione e caparbietà, educazione e perseveranza.

Questo significa essere un avvocato.

La traduzione materiale di queste poche righe dense di significato, è quella di chi esce al mattino e arriva alla sera sperando che tutti i suoi orari programmati siano stati rispettati, perché gli orari per l’avvocato non sono mai garantiti.

Machiavellico stratega e burocrate dal volto umano […] paziente ascoltatore, rispettoso e sagace, obiettivo e non guerrafondaio, abile consigliatore, suggeritore e risolutore.

L’avvocato è prima di tutto una persona che interagisce con il cliente, deve ascoltare l’altro e capire la reale entità del problema e mentre lo si ascolta, già avere davanti a sé la capacità di prospettare soluzioni obiettive, da spiegare chiaramente al cliente ma da non far intuire alla controparte.

Dal cliente bisogna ottenere la fiducia, dalla controparte il rispetto per il proprio operato, sempre leale e mai fatto di inganno.

[…] Studioso e puntuale che non smette mai di aggiornarsi e di formarsi, ottimo oratore e buon scrittore[…].

L’avvocato è colui il quale passa le ore a studiare per essere preparato ed aggiornato, perché l’università e i suoi esami, la pratica forense e l’esame di abilitazione non sono mai abbastanza.

È una persona che perde gli occhi tra manuali, codici delle leggi e lo schermo del computer per cercare il cavillo dal quale far scintillare la vittoria per il proprio cliente o per far pendere il convincimento del giudice dalla propria parte.

L’avvocato deve essere un ottimo oratore, di quelli ai quali non si secca mai la bocca, che con caparbietà e semplicità spiega il proprio punto di vista, dimostrando come sia quello della ragione, senza mai alzare il tono della voce.

Allo stesso modo deve sapere scrivere non (solo) con frasi fatte ma mettendoci del proprio perché la lettura del giudice sia semplice, completa,  intuitiva e scorrevole.

[…]Per essere un avvocato ci vuole dedizione e caparbietà, educazione e perseveranza.

Perché le giornate di un avvocato sono fatte di frenetiche ed infinite attese tra i corridoi del tribunale mentre si corre da una parte all’altra per tutte le udienze fissate nella stessa giornata, aspettando che la burocrazia faccia il suo corso assecondando rinvii temporali inconcepibili, in attesa del collega di controparte con il quale si cerca di raggiungere un accordo, del cliente che viene e ti confida tutta la sua vita oppure che all’ultimo momento ti fa saltare l’appuntamento, soprattutto quando è il momento di darti i soldi pattuiti per il lavoro svolto.

Essere un avvocato è una bella professione.

Se ti pagano, bellissima. Se ti pagano in anticipo, ottima. Se ti pagano con soldi veri e non in abbracci, polli, cambiali o banconote del monopoli, allora stai sognando.

Essere un avvocato, significa arrivare a sera povero di energie ma felice di aver trovato la giusta soluzione per qualcun altro, anche se, a differenza di quelli che si vedono in televisione, magari ti sono rimasti solo cinque euro nel portafoglio.

Per cui, per gli avvocati,  non è come nei film.

Francesca Tesoro

“Tra le nuvole”: storia semiseria di un tagliatore di teste

Quante volte, guardando un film in cui i protagonisti svolgono mestieri che ci sono familiari, abbiamo esclamato: “Ma è tutto finto, le cose non vanno affatto così…”? E quante altre i personaggi delle nostre pellicole preferite hanno stuzzicato la nostra immaginazione, facendoci pensare: “Potessi fare anche io quel mestiere, la mia vita sarebbe diversa…”?

Riprendiamo il nostro viaggio all’interno del mondo del lavoro e delle varie sfaccettature del cambiamento che caratterizzano le nostre capacità di adattamento ai contesti più vari, iniziando un nuovo percorso che ci porterà ad analizzare alcuni tra i film più amati o odiati dal pubblico, per domandarci quanto le professioni svolte dai vari protagonisti siano raccontate in modo verosimile e quali siano, invece, le eventuali licenze poetiche che registi e sceneggiatori si sono concessi, a seconda dei luoghi di ambientazione e di produzione delle storie.

La pellicola che esamineremo oggi è “Tra le nuvole”, un film prodotto negli Stati Uniti nel 2009, diretto da Jason Reitman e che ha per protagonista un sorprendente George Clooney che veste i panni di un cinico manager di professione “tagliatore di teste aziendale”. Il film ha ottenuto un buon riscontro sia da parte della critica, sia da parte del pubblico delle sale, ed è stato premiato, tra le altre, dalla candidatura a ben sei Premi Oscar 2010, come Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Attore Protagonista e non e Miglior Sceneggiatura non originale.

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La storia racconta la vita di Ryan Bingham, interpretato proprio da George Clooney, esperto dirigente d’azienda che gira il Mondo, ingaggiato dalle compagnie più disparate, per occuparsi di sistemare gli esuberi aziendali, gestendo i periodi di crisi licenziando il personale in eccesso. Bingham è un uomo apparentemente impassibile, che è considerato un guru nel suo mestiere e lo svolge metodicamente, senza mai lasciarsi prendere dalle emozioni. Vive perennemente in viaggio, collezionando carte fedeltà e miglia aeree, e non ha affetti ai quali appoggiarsi, convinto di non averne affatto bisogno. È proprio questo infatti, che lo fa sentire realizzato nel suo mestiere: non avere legami e non sentirsi mai a casa in nessun luogo, abituato com’è a passare da una camera d’albergo all’altra. Le certezze del signor Bingham saranno pericolosamente incrinate da due fatti fondamentali che accadono nella storia: l’incontro con una donna che sembra condurre una vita molto simile alla sua, con cui avrà una storia d’amore e, ancor di più, un inaspettato cambiamento proprio all’interno della sua stessa azienda, che lo metterà profondamente in discussione. Natalie, infatti, una giovane neoassunta, ha ideato un sistema per effettuare i licenziamenti anche a distanza per via telematica, grazie allo schermo di un computer, il che taglierebbe i costi dei viaggi dei vari impiegati, eliminando, però, la componente che più fa sentire Ryan libero di esprimere se stesso nel proprio mestiere. Convinto che, anche per mandare a casa qualcuno, sia necessario incontrarlo di persona, non nascondendosi dietro a un monitor, Ryan inizierà un aspro confronto con la giovane collega, destinato ad avvicinare due realtà generazionali apparentemente inconciliabili, ma che, di fatto hanno bisogno l’una dell’altra per crescere.

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Oltre al risvolto narrativo piuttosto interessante e sceneggiato con delicatezza e trasporto, godibile grazie all’ottima interpretazione degli attori protagonisti, ciò che ci interessa analizzare è proprio la figura aziendale del cosiddetto tagliatore di teste.

Chi è realmente un tagliatore di teste? E quanto la storia narrata nel film corrisponde alla realtà dei fatti oggi come nel 2009 ad inizio di questa interminabile crisi economica?

Iniziamo col constatare, innanzitutto, che, ad eccezione di alcune similitudini con quanto accade nel film, la realtà delle aziende italiane è molto diversificata, nonostante la globalizzazione abbia uniformato molto i ritmi e le dinamiche di lavoro in tutto il mondo, soprattutto nei contesti delle multinazionali. Spesso, anche in Italia, per gestire situazioni di cambiamento aziendale che portano a una consistente riduzione del personale, ci si serve di esperti esterni, proprio come il protagonista del film, soprattutto in grandi aziende e quando il numero di posti da tagliare è così elevato, da essere considerata l’extrema ratio. Le reazioni degli interessati di fronte alla perdita del proprio lavoro sono le più disparate e imprevedibili, sia per quanto riguarda il singolo, sia per quel che concerne i gruppi di lavoro, l’azienda nel suo insieme e non meno ogni suo indotto. Tuttavia bisogna osservare che, rispetto al periodo in cui il film fu girato, proprio all’inizio della crisi economica che ci sta attanagliando ormai da quasi un decennio, la precarietà ha generato in molti microclimi lavorativi un curioso e forse inaspettato risvolto della medaglia. È senza dubbio vero che, al giorno d’oggi, se abbiamo un lavoro, vogliamo tenercelo stretto, ma, nello stesso tempo l’insicurezza dilagante e la continua pretesa di elasticità stanno cambiando la cultura delle nuove generazioni rispetto alla stabilità del posto di lavoro. Per farla breve: è normale perdere il lavoro, tanto quanto normale è chiudere rapporti di lavoro, se si è in grado di condurre correttamente la trattativa. Ecco, dunque, che questa capacità di congedare chi non è più funzionale all’azienda è sempre più richiesta anche all’interno dell’azienda, a prescindere dalla grandezza e dalla complessità dei contesti e tende, probabilmente, ad essere gestita sempre più internamente, senza ricorrere alla figura di consulenti esterni e di Società esperte. Insomma, sembra quasi che non ci sia più bisogno del supereroe George Clooney di turno per gestire situazioni che oggi viviamo più come regola e sempre meno come eccezione.

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Un secondo aspetto interessante, all’intero del film, dal punto di vista delle dinamiche aziendali, è il rapporto tra il cosiddetto senior, interpretato da Clooney, il manager esperto, abituato a eseguire il proprio lavoro sistematicamente, e la figura junior, la giovane neoassunta Natalie, convinta che gli interessi di produzione aziendale debbano essere considerati al di sopra di ogni altra esigenza, accantonando il più possibile ogni risvolto personale. Quando Natalie propone al Direttore dell’azienda di lavorare avvalendosi del Web, tagliando i costi delle trasferte, lui ne è entusiasta. Ma sarà la stessa Natalie, affiancata da Bingham durante il trainer, a rendersi conto che il tagliatore di teste è sì uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo, come si dice, e per questo, spesso, è necessario essere presenti anche fisicamente laddove si sta operando, senza potersi nascondere dietro una tastiera. Anche questo aspetto, nella realtà di tutti i giorni, è cambiato nel corso degli anni e sta continuando a mutare. Così come siamo sempre più avvezzi alla facilità con cui oggi si può perdere un posto di lavoro, allo stesso modo le modalità con cui si viene licenziati stanno evolvendo. La deontologia può essere diversa a seconda delle aziende, ma la tecnologia è sempre più prepotentemente presente nelle nostre vite, tanto private, quanto lavorative. Quindi, tra e-mail e web conference, potrebbe non stupire il fatto di poter essere licenziati via Web, proprio come si può essere lasciati dal fidanzato via SMS, come accade alla povera Natalie nel film…

A far riflettere, quindi, è l’aspetto emotivo che oggi come nel 2009, interessa le dinamiche di relazione tra il cosiddetto tagliatore di teste e il lavoratore. Il personaggio interpretato da Clooney è convinto che essere privo di affetti lo renda immune dalle emozioni degli altri, tanto che la sua capacità di far andare via contenti i poveri malcapitati presenti nella sua lista nera, quasi come se perdere un posto di lavoro fosse un’opportunità di rinascita e non una sconfitta, gli permette di proporsi come life coach e di fare conferenze in tutti gli Stati Uniti, tra un viaggio e l’altro. Il suo cavallo di battaglia è il discorso dello zaino. Bingham chiede a tutto il pubblico di immaginare di avere uno zaino sulle spalle e di metterci dentro tutte le persone più o meno importanti che fanno parte della loro vita quotidiana provando a pensare a quanto peserebbe e a quanto tutto sarebbe più facile senza trascinarsi dietro il peso delle relazioni e di quelli che lui definisce compromessi. Bingham è circondato ogni giorno da decine di persone, ma in realtà è solo ed è proprio questo che ne umanizza la percezione che lo spettatore ha di lui. Nonostante il suo cinismo e il suo mestiere antipatico, chi guarda il film si affeziona a lui. Ma è facile intravedere le debolezze di qualcuno dall’altro lato di uno schermo. Come fare nella realtà? Come fare quando l’altro è collega? Il fatalismo e la rassegnazione della lunga crisi che ci accompagna ormai da anni possono venirci in aiuto e davvero darci la capacita di vivere il nostro ruolo, sia esso quello del tagliatore, sia esso quello del lavoratore? Sono solo un ammortizzatore passeggero, un antidoto alla sofferenza o un nuovo modello sociale? Siamo squali, come dice Clooney nelle sue conferenze, destinati a vivere alla giornata in un mare pieno di pericoli? O, più semplicemente, esseri umani in grado di scegliere cosa mettere nel proprio zaino?

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E noi, nuove generazioni, come stiamo imparando a scegliere?

Alessandra Rinaldi

“Adriano Olivetti. La forza di un sogno”

Luca Zingaretti si è calato nei panni dell’ingegnere Adriano Olivetti ripercorrendo alcune tappe fondamentali della sua vita raccontate nella Fiction “Adriano Olivetti. La forza di un sogno”,  prodotta da Rai Fiction e Casanova Multimedia e andata in onda su Rai Uno il 28 e 29 ottobre 2013, con un cast d’eccezione, composto, oltre che dall’attore romano, da Stefania Rocca, Massimo Poggio, Francesca Cavallin e da Francesco Pannofino.

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La regia della miniserie è di Michele Soavi, nipote di Olivetti. Questo aspetto è significativo, perché ha conferito al racconto un valore aggiunto: l’affetto per il protagonista che traspare attraverso le varie vicende che si susseguono. Tale elemento, però ha anche portato verso l’estremizzazione del comportamento del personaggio rendendolo quasi idilliaco. Persino di fronte all’allontanamento della moglie Paola, che gli confessa di voler andare a vivere con Carlo Levi di cui si era innamorata, Adriano reagisce forse troppo pacatamente.

Risulta chiaro, in ogni caso, l’intento di voler trasmettere al pubblico l’ottimismo dell’imprenditore, convinto di poter trovare sempre una soluzione per raggiungere i suoi obiettivi mai strettamente legati ai suoi interessi personali.

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Nella miniserie vengono enfatizzati gli ideali olivettiani, come nel caso del progetto “La natura entra in fabbrica” che Adriano sviluppa mentre suo padre è ancora in vita e che riprenderà in seguito durante la costruzione della fabbrica di Pozzuoli. Tale progetto ha lo scopo di aprire delle vetrate nelle pareti dell’edificio per far entrare la luce e creare contatto fra i lavoratori e la natura, in modo tale che la bellezza, aspetto fondamentale per l’imprenditore, faccia quotidianamente parte delle loro vite anche durante le ore di lavoro. Un elemento a cui è stato dato meno spazio nella fiction, invece, è la presenza dei numerosi intellettuali che presero parte, seppure in modo collaterale, al percorso olivettiano del dopoguerra.

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La fiction disegna un vero e proprio percorso che nasce dalla fedele riproduzione delle affermazioni di Camillo Olivetti, che distoglie il figlio dal licenziare i lavoratori ritenendolo responsabile delle loro vite, fino al progetto conclusivo di Adriano legato all’immagine di un albero: il tronco, costituito dalla fabbrica, diffonde cultura, bellezza e valori spirituali verso i rami, rappresentati dalle Comunità olivettiane sorte in tutto il nord Italia.

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“Adriano Olivetti. La forza di un sogno” mette in scena il cuore dell’utopia di Olivetti legata alla volontà di rendere la fabbrica un modello, uno stile di vita da cui parta la riforma dell’intera società italiana. Questo aspetto centrale viene avvolto da elementi legati al contesto della fiction, come il rapporto con il capitano italo – statunitense che aggiunge un pizzico di atmosfera poliziesca o la morte del protagonista avvolta da un velo di mistero e suggestione.

Cecilia Musulin